#TennisDiPeriferia: Ritorno al passato, torneo di tennis col solito finale

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#TennisDiPeriferia: Ritorno al passato, torneo di tennis col solito finale

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Tennis di periferia, Roma
 

Tornare a giocare un torneo di tennis dopo molti anni di stop? Perché no, magari è l’occasione giusta per saggiare il proprio stato psicologico, considerato che, qualche anno fa, io e la mia testa da tennista non ci eravamo lasciati molto bene

Introduzione
Racconti sul tennis di periferia, ovvero quello lontano dai grandi campi coperti dalla televisione. Tornei, allenamenti con racchette rotte, piccoli circoli lontano dal centro e grandi club dove il tennis è solo un pretesto per le relazioni sociali. Di questo parleremo in #TennisDiPeriferia

Mio figlio compirà 4 anni fra qualche mese, quindi sono circa 5 anni che non gioco più un torneo di tennis. I risultati dell’epoca erano sempre i soliti: arrivato al dunque, avendo battuto tutti gli avversari con i quali non potevo perdere per via della troppa differenza tecnica, mi liquefacevo sotto il caldo opprimente della pressione, quella che se sai gestirla sei un vincente altrimenti un perdente che colpisce molto bene come me. Avevo lasciato i tornei stanco anche di ricevere i complimenti per il mio gioco brillante, tutto diritto in top spin ma molto pesante perché piatto nelle accelerazioni e del rovescio ad una mano, una sbracciata degna di Stan Wawrinka trasposta relativamente sui campi di periferia. Se giochi però per dimostrare agli altri quanto sei bravo, difficilmente vinci. Ricevi i complimenti, quelli che non si negano mai agli sconfitti. Ecco quindi l’occasione per vedere se cinque anni di iato hanno cambiato qualcosa a livello psicologico. In questo periodo ho sempre giocato un paio di volte a settimana, il braccio è quindi più o meno allenato. Mi manca l’agonismo, ma mi manca soprattutto il fiato per ogni minuto successivo all’ora prenotata che mi sono abituato a giocare. Ultimamente però sono entrato in una squadra di calciotto, quindi un po’ di benzina in serbatoio grazie alla scorribanda settimanale sui campi di Roma nord c’è.

La congiunzione non tanto astrale che mi vede passare due settimane a casa assieme allo svolgersi di un torneo nel circolo più vicino casa è un segnale: mi iscrivo al torneo Open del Tc Panda. Il circolo sta sulla Nomentana, poco prima del raccordo. Ha otto campi in terra rossa, qualcuno al coperto, campo da calcetto, palestra, ristorante con bar e una piscina scoperta molto triste adesso che è piena di acqua verde. È il classico circolo romano insomma, solo che non ha il blasone di quelli lungo i fiumi di Roma anche se in passato mi raccontano che faceva molto fico fare una festa al Panda (“Che festeggi i 18 anni al Panda? Fico è molto bello lì!”). Ci sono andato già una volta a vedere un mio amico lottare con un ragazzino nel tabellone di quarta categoria, rosicando di essere solo uno spettatore. La mia classifica FIT attuale è bassa. Da buon terza categoria che ero qualche anno fa ora sono un 4.3. So, quindi, che mi aspettano almeno un paio di turni facili.

Il primo turno è programmato di lunedì alle ore 12. Stringo la mano al mio avversario che ha 10 anni più di me, lui vicino ai 50, io vicino ai 40. È abbronzato, gioca in uno di quei bei circoli della Pisana. Sono un po’ teso ma so che non posso perdere con un 4.4. Lui ha un fisico atletico, è simpatico e mi racconta che fa arti marziali. Il sole è allo zenith,  l’ottobrata romana mi fa pensare di non desiderare d’esser in altro posto che su un campo da tennis in terra rossa. Iniziamo a palleggiare e la partita è già finita. È ovviamente più scarso di me, ma di parecchio. Comincio a tirare vincenti al secondo o terzo colpo dello scambio. Vado 6-0 5-0 in 40 minuti. Lui esulta quando fa il suo primo e ultimo game. Chiudo 6-1 poco dopo e ci salutiamo sorridendo entrambi.

Al secondo turno ho un 4.3. C’è sempre il rischio di trovare qualche giocatore di classifica falsa, quindi non sono molto rilassato. Stringo la mano al mio avversario, anche lui cinquantenne  direi. Ben vestito, mi chiede dove gioco mentre percorriamo insieme il vialetto che porta allo spogliatoio numero 2, quello riservato ai giocatori del torneo, devo dire abbastanza sgarrupato. Io sono tesserato per un circolo di Frosinone, dopo anni senza tessera. Glielo dico e gli spiego che comunque non gioco da un bel po’ i tornei, allenandomi però qui a Roma quando capita. Lui è del Tevere Remo, circolo molto bello, che sta sul fiume. Io mi cambio in 2 minuti mentre lui ancora si sta togliendo i braccialetti e gli anelli. “Ti aspetto in campo” gli dico. Passano 10 minuti e finalmente arriva. Tira fuori le racchette che sono dentro dei foderi leggeri, non quelli con cui te li vendono, ma dei foderi molto di classe, con un logo classico con le racchette di legno incrociate sopra. Ne tira fuori una con cura, poi infila un polsino e sistema la fascetta tergisudore sulla fronte. In quel momento capisco che vincerò anche lì facilmente. Colpisce bene, ma il ritmo è insostenibile. Prende 6-0 6-1 in meno di un’ora. Mentre infilo i game uno dopo l’altro, vedo il giudice arbitro contento perché ha capito che libererò il campo molto presto, così potrà accontentare i soci del circolo che storcono sempre la bocca quando non trovano immediatamente libero il campo appena varcato il cancello d’ingresso. Fa caldo anche oggi, gli stringo la mano a rete e lui non dice niente, neanche nello spogliatoio. Vabbè, ciao.

Con la vittoria scorsa ho guadagnato l’accesso al tabellone dei 4.2, tantissimi. La cosa comincia a farsi seria, penso. Arrivo al campo. Il giudice arbitro alla terza volta ricorda il mio cognome. Mi fermo a parlarci. È sabato, il sole splende alto senza una nuvola intorno, ci sono tutti i soci che reclamano il campo e allo stesso tempo è iniziato il torneo femminile. Io sono in orario alle 15 e 30, subito dopo un match di due donne che hanno iniziato alle 14 spaccate. Quando toccherebbe a me, queste due sono ancora a giocarsi il secondo set tirando pallettoni lenti che aspettano ferme immobili, senza neanche saltellare fra un colpo e l’altro. Disperazione. Gli racconto la mia teoria sullo svolgimento dei tornei femminili e lui ascolta attento. Gli dico che a mio avviso le donne dovrebbero scendere in campo e svolgere i canonici cinque minuti di riscaldamento, con palleggio, prova a rete di volée e smash e poi provare i servizi. A fine dei cinque minuti il giudice sentenzierebbe senza appello chi delle due è più forte, mandandola al turno successivo. Così, in cinque minuti. E il torneo finirebbe in poche ore. Ride: è completamente d’accordo con me. Poi mi presenta il mio avversario: è un bambino e invece di stringermi la mano stringe sua madre. Farà 13 anni a dicembre. La madre avrà qualche anno più di me. Iniziamo alle 16 e 30, finita la maratona delle due tenniste. Il ragazzo, pardon, bambino, è tuto griffato Nike. Ha una Babolat e gioca a due mani. Tira fortissimo ai palleggi come se fosse già partita. Tempo venti minuti e becca anche lui un sonoro 6-0. Comincia ad arrabbiarsi perché non riesce a fare il game. Ne fa uno sul 3 a 0 per me al secondo, ci crede. Ha carattere. Scaglia una pallina nella boscaglia dopo un punto sbagliato, e la racchetta vola per terra in diverse occasioni. La madre lo richiama troppo dolcemente per essere presa sul serio. “Mamma ma non riesco a fare un game!”. Alla fine, dopo aver chiuso 6-1 il secondo, a rete gli chiedo se tifa per Nadal o Federer. “Nadal”, mi fa, mentre scansa la mia mano arrabbiato. Gli sorrido mentre la mamma mi chiede che classifica avevo perché un 4.3 non può giocare così. Si arrabbiano scherzosamente entrambi quando gli dico che ero un terza categoria, perché il bambino è la seconda volta che incontra un “falso 4.3”, perdendo sonoramente. Lui manco mi saluta, se ne va a giocare da qualche parte con un suo amichetto. Bel caratterino il tipo, d’altronde è un tifoso di Rafa.

Il “Never play on sunday” tanto caro a Wimbledon non vale dentro il raccordo. Il giudice piazza il mio quarto match domenica alle 12 provocando il borbottio della mia famiglia, un classico quando si violano i sacri confini del weekend per la pratica dello sport.

Inciso: la mia compagna non ama molto il tennis, campo o TV poco cambia.

Entro in campo puntuale non appena si cambia il mio avversario, un 4.2 cinquantenne abbronzato e dal sorriso simpatico. Dopo 5 minuti sono 3 a 0. Voglio sbrigarmi per pranzare assieme a Cloti e Samu. Sul 5 a 0 risponde a un suo amico – lui è del Panda – che gli chiede come sta andando il match: “E come sta andando, ma io non lo so che ce faccio dentro sto tabellone dei 4.2, boh?”. Fa due game, finisce 6-0 6-2 in meno di un’ora. Tanti complimenti per il mio gioco (“Ne battezzerai tanti eh”) e all’una e poco più sono a casa. La domenica è mezza salva mentre io ho guadagnato l’accesso al tabellone dei 4.1, quello dei quarta categoria forti.

Il sole alto e caldo e i miei bermuda blu con Vans no lace e magliette metal sono la costante di questo ottobre romano, decisamente fantastico. Gioco il quarto turno del torneo alle ore 12 e gioco contro un ragazzo. Avrà tra i 20 e i 25 anni e questa volta è un 4.1. Iniziamo a palleggiare e non mi sembra un granché. Ha la palla leggerina, si perde spesso il diritto mentre con il rovescio bimane la tiene dentro e mi fa correre lateralmente. Io sto prendendo antidolorifici da qualche giorno e ho vinto i primi match senza tirare mai il rovescio coperto, che è uno dei miei colpi migliori. Capisco subito che posso coprire il campo solo con il diritto e allora gli gioco alto sul rovescio accelerando poi dall’altra parte, così lui corre e sparacchia alto e fuori molto di frequente. Vado 5 a 0, salvo un palla per il 5 a 1 e chiudo 6-0. Nel secondo fa suo il primo game. Dovrei forse preoccuparmi? “Claudio, è troppo scarso non puoi perdere con questo”, mi dico sottovoce. Vado 5 a 1 nel tempo che Cloti, la mia compagna, legge l’oroscopo di Brezsny su Internazionale, guardando distratta l’evoluzione del match. Chiudo 6-2. “Hai vinto?” mi dice mentre metto la racchetta dentro il borsone. “Yes”, le faccio.

Il sesto turno è in programma il giorno dopo, martedì. Un altro 4.1 ma questa volta sento che sarà un match impegnativo, d’altronde dopo cinque vittorie facili sarebbe pure ora no? Alle 15 e 30 gli stringo la mano poco prima di scendere in campo. Lo conosco di vista, si chiama Alex e l’ho visto allenarsi parecchie domeniche mattina al Nomentano mentre io aspetto che il piccolo Samu finisca la sua lezione settimanale di baby nuoto. Ho sempre pensato che fosse un po’ scarsino. È alto più di me, che basso non sono, è biondo e ha gli occhi azzurri. Assomiglia a Marat Safin. Iniziamo a palleggiare e mi accorgo subito che è solido, ha la palla abbastanza pesante ma mi pare un po’ leggerino sul rovescio, che comunque non sbaglia. Perdo subito il servizio in avvio, sprecando una palla per tenere il game. Lui sale 2 a 0 di potenza. Martella da fondo campo e tira delle prime non molto piazzate ma veloci. Realizzo che dopo 5 vittorie facili non sono minimamente pronto a questo cambio di velocità. Cerco di arrangiarmi col mestiere, cominciando a giocargli sul rovescio, per poi accelerare dall’altra parte. Mi è sempre piaciuto giocare profondo sul rovescio dell’avversario, aprendo il campo per tirare dall’altra parte spostandomi sul diritto. Era lo schema di Thomas Muster, oggi aggiornato, perfezionato e sublimato, da Rafael Nadal, e io, che ho iniziato a giocare a tennis solamente per imitare il gioco di Muster, impugnando full-western quando il mio maestro insegnava ancora con la presa Continental, ancora oggi cerco di fare le cose che più mi piacciono in campo piuttosto che cercare le soluzioni più efficaci e oculate, quelle che portano alla vittoria.

Lui gioca con i piedi ben dietro la linea di fondo mentre io al massimo gioco mezzo metro dietro la linea, tenendo sempre il pallino del gioco, colpendo di rovescio ad una mano in controbalzo à la Roger Federer, per non perdere campo e quindi correre di meno. Riesco a tenere, comincio a prendere possesso degli scambi col mio diritto e ribalto il punteggio dopo aver salvato una palla per lo 0 a 3: vado 4 a 2 e servizio. Qui inizia la vera partita. Lui, che scoprirò quindicenne a fine gara, capisce (in verità glielo suggerisce il suo accompagnatore adulto sugli spalti, e io lo sgamo subito mentre lui mi guarda imbarazzato) che se vuole vincere deve impostarla sul fisico e sulla regolarità, non sulla sfida a chi gioca meglio o tira più forte dove è perdente. Il game è durissimo e molto lungo. Sciupo tre palle per allungare 5 a 2. Lui ci crede, dimostrando carattere. Corre ovviamente tantissimo e mi costringe a scambi lunghi che mi mandano in affanno. Mi manca allenamento fisico, comincio a commettere qualche errore per mancanza di lucidità alternato a soluzioni che sui campi di quarta categoria si vedono raramente. Mi rendo conto che giocherò in affanno tutto il resto del set, e questo mi costerà caro nei momenti chiave. E siamo solamente al primo set. Recupera il break. Conduco 4 a 3. Giochiamo alcuni game bellissimi. Gioca meglio di me a rete e a un certo punto in recupero ad una sua volée gli gioco un pallonetto, lui corre indietro e mi fa un tweener ad uscire che mi sorprende, fortissimo. Rimetto la palla in allungo e lui sbaglia la volée. Dagli spalti quei quattro o cinque spettatori applaudono e sorridono: è una bella partita. Salgo 5 a 4 ma non riesco a mandare via il fiatone. Chiude 7-5 con io che negli ultimi 3 game faccio pochi punti, in preda all’affanno, con il servizio che ha perso di incisività. Affiora nuovamente il mio solito difetto, quello di giocare male i punti chiave, o comunque di non saper gestire la pressione quando conta. Sfiduciato – sono il tipo di giocatore che sotto nel punteggio si demoralizza, il contrario del front-runner – gli do subito due game. Lui oramai non tira più il servizio, o meglio, non gli entra più la prima. La seconda è abbordabile, peggio della mia. Col rovescio mi fa correre lateralmente perché lo crossa molto stretto, ma il suo colpo manca di punch. È un po’ coatto quando parla tanto è vero che mi chiama la palla fuori dicendo “autte”, che starebbe per “out”. Esulta su qualche mio errore nei punti chiave come fanno i campioni oramai in TV. Questo non mi piace ma di certo non mi crea problemi. Sul due a zero per lui nel secondo tengo il servizio, poi glielo strappo di nuovo, recuperando. Gioco però distratto, come se fossi consapevole di non poter vincere questa partita, perché fisicamente non reggerei. Sono poco convinto, alla deriva, aspetto qualcosa da lui che però non arriva. Sale 5 a 2, gli tolgo il servizio mentre serve per la partita ma poi lo perdo a mia volta. Finisce 6-3 per lui e puntuali arrivano i complimenti per il mio gioco e per la mia classifica falsa da parte del suo accompagnatore, molto interessato al mio gioco e alla mia natura tennistica. È finita.

Saluto il giudice arbitro e torno a casa. Il mio torneo è finito allo stesso modo di quelli di tanti anni fa, con una sconfitta evitabile contro un avversario che vince facendo meno di me. Io, al solito, prima che dall’avversario sono battuto dalla mia incapacità di gestire la pressione e dal facile ricorso agli alibi. Adesso ho quello dell’età, del figlio che mi toglie nuovamente il sonno perché ora che dorme nella sua cameretta si sveglia di notte e vuole venire “al letto grande da mamma e papà”, e della mancanza di tornei da molti anni. Gli alibi fanno comodo, gli anni sono quelli e qualche scusa sarà pure ammissibile, però se solo avessi convertito una di quelle tre palle per il 5 a 2 nel primo set…

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