Tra impianti che invecchiano, infinite cause legali e nuove realtà che reclamano tornei di prestigio, il Miami Open deve trovare in fretta il modo di reinventarsi se non vuole arrivare ad un bivio che conduce lontano dalla Florida
Non è passato molto tempo da quando si parlava del torneo di Miami (o Lipton International di Key Biscayne, come si chiamava una volta) come del quinto Slam, e nessuno aveva nulla da ridire a riguardo: dopo tutto si trattava dell’unico torneo al di fuori dei quattro Major che vedeva uomini e donne competere insieme, con tabelloni di singolare a 128 giocatori e con tutti gli incontri di singolare maschile disputati al meglio dei cinque set.
L’evento creato dall’ex tennista Butch Buchholz nel 1985 e stabilitosi sull’isola di Key Biscayne nel 1987 fu anche il primo ad istituire la pratica di avere 32 teste di serie anziché 16, per evitare incontri tra giocatori troppo forti già ai primi turni, pratica che poi è stata progressivamente copiata da tutti gli altri tornei dello Slam ed oggi è divenuta prassi comune.
Nel corso degli anni il Miami Open ha cambiato nome e sponsor diverse volte: si è passati dalla Lipton alla Ericsson, passando poi al NASDAQ-100 per poi arrivare alla Sony Ericsson, fino al main sponsor attuale rappresentato dalla banca sudamericana Itau, che ha firmato il contratto fino al 2019. Anche la formula si è leggermente modificata: con l’integrazione del torneo maschile nel novero degli ATP Super 9 e poi degli ATP Masters 1000 si è progressivamente passati dalla formula dei 3 set su 5 a quella standard di tutto il circuito dei 2 set su 3; inoltre i tabelloni di singolare (maschile e femminile) sono stati leggermente ridotti passando a 96 giocatori o giocatrici, ovvero con le 32 teste di serie avanzate di un turno, in un format che ha ispirato la formula attuale anche del torneo “gemello” di Indian Wells.
Ed è proprio quest’ultimo evento, che si disputa nel deserto della California un paio settimane prima dell’appuntamento di Miami, a mettere in risalto in maniera sempre più evidente le lacune strutturali ed organizzative che il Miami Open ormai non riesce più a nascondere dietro il fascino della sua relativamente recente ma gloriosa tradizione. Se infatti il BNP Paribas Open di Indian Wells, grazie al supporto degli sponsor, delle autorità locali e del patron del torneo, il miliardario Larry Ellison, riesce di anno in anno ad espandere e migliorare il proprio Indian Wells Tennis Garden, la sede del torneo di Miami invece non trova il modo di adeguare le proprie strutture alle esigenze di una grande competizione.
Già nel 2012 la IMG, che dal 2000 possiede i diritti del Miami Open, aveva presentato un progetto per l’ampliamento e il riammodernamento del Crandon Park Tennis Center di Key Biscayne: tre nuovi campi con tribune permanenti per ospitare rispettivamente 6.000, 4.000 e 3.000 spettatori, un area ristorazione permanente ed un allargamento della struttura del campo centrale che andrebbe a comprendere negozi, ristoranti ed uffici. Il costo dei lavori sarebbe di 50 milioni di dollari, interamente finanziati dagli introiti del torneo e da investimenti privati. Purtroppo però questi lavori non sono ancora iniziati in quanto non è ancora stato possibile ottenere le necessarie autorizzazioni.
L’ubicazione del Tennis Center all’interno del parco pubblico di Crandon Park, infatti, pone problemi burocratici di non poco conto per Butch Buchholtz e l’IMG. L’area infatti è ufficialmente adibita a parco naturale, a rispetto dell’accordo stretto negli anni ’40 tra la contea di Miami-Dade e la famiglia Matheson, originariamente proprietaria dell’isolotto di Key Biscayne. I Matheson acconsentirono a cedere Crandon Park alla contea in cambio della costruzione della Rickenbacker Causeway, l’autostrada che collega Key Biscayne con la terraferma, a patto che venisse conservato il suo stato di area naturalistica. Quando nel 1991 il torneo chiese il permesso di costruire una struttura permanente per il campo centrale (prima di allora, tutte le infrastrutture del torneo venivano costruite ad-hoc ogni anno e smontate subito dopo la fine dell’evento), i Matheson fecero causa alla Contea, chiedendo il rispetto dell’accordo originario. La causa si concluse con un patteggiamento tra le parti che permise la costruzione della struttura attuale (solo il primo “anello” del centrale con circa 8.000 posti è permanente, il resto è costruito ogni anno su strutture tubolari), ma che vide la costituzione di un comitato di quattro persone (tra cui un membro della famiglia Matheson) responsabile dell’approvazione di qualunque opera venga costruita all’interno di Crandon Park. Come se non bastasse, una modifica alla legislazione della Contea di Miami-Dade in materia di parchi naturali introdotta nel 1993 richiede che ogni cambiamento alle strutture permanenti situate all’interno di un parco venga approvato da almeno due terzi della popolazione residente.
Quest’ultimo requisito fu soddisfatto il 6 novembre 2012, quando il 73% della popolazione di Key Biscayne votò tramite referendum a favore del progetto di sviluppo del torneo. Tuttavia il comitato di controllo descritto sopra vede tra i suoi membri anche un membro di una associazione non-profit che riceve regolari e robusti contributi da parte della famiglia Matheson, la quale in questo modo attraverso il proprio voto e quello del proprio “controllato” riesce a bloccare qualunque iniziativa degli organizzatori del torneo.
Matheson intanto ha intentato causa contro la contea per invalidare i risultati del referendum, in quanto a suo modo di vedere la formulazione della domanda scritta sulla scheda era fuorviante: la causa è stata respinta, ma è stato presentato un appello che è ancora in attesa di udienza. La IMG, che vuole proteggere i propri interessi e quelli del torneo, ha a sua volta citato in causa Matheson contestando la validità del suo diritto di veto tramite il comitato, ma il giudice Schumacher il settembre scorso ha ritenuto validi i termini dell’accordo raggiunto nel 1993 ed ha confermato l’autorità del comitato.
Sicuramente l’IMG si appellerà a sua volta contro questa decisione, ma mentre gli avvocati del Sud della Florida si arricchiscono in questa intricata faida legale, gli altri eventi del circuito non stanno certo a guardare e, modernizzando di anno in anno le loro strutture, aumentano il distacco su ciò che rimane dell’ex quinto Slam. Appare evidente come una soluzione alla questione sia ben lontana, con tutti questi ricorsi e contro ricorsi legali, ed il tempo non è dalla parte del Miami Open. Un accordo extra-giudiziale, che sbloccherebbe la situazione dando il via libera alle ruspe, sembra abbastanza improbabile, dal momento che i Matheson non sono certo alla ricerca dei soldi dell’IMG, ma sono spinti da auto-proclamate motivazioni naturalistiche.
Nell’esprimere il proprio disappunto per le decisioni avverse dei giudici, il vice presidente esecutivo dell’IMG Adam Barrett ha fatto sapere che se non si riuscirà ad iniziare quanto prima i lavori di allargamento, l’IMG prenderà in considerazione l’ipotesi di spostare il torneo in una città diversa da Miami, e con esso anche i 387 milioni di dollari di indotto generati dall’evento per le comunità del Sud della Florida. “Senza alcuna miglioria, non credo sia possibile mantenere a lungo l’evento a Miami – ha dichiarato Barrett – Attualmente abbiamo un accordo in essere con Crandon Park fino al 2023, ma non credo arriveremo alla fine del contratto se non ci saranno sviluppi. Non si tratta di una minaccia, è semplicemente un fatto”.
Il Miami Open si trova dunque in una delicata situazione sia dal punto di vista organizzativo sia da quello tecnico, dal momento che nell’ambiente si comincia a dubitare della necessità di dedicare quasi interamente il mese di marzo a due soli tornei sul cemento, entrambi negli Stati Uniti, in un momento in cui ci sono altre realtà socio-economiche in grande crescita che reclamano a gran voce (ed a suon di moneta sonante) eventi tennistici di grande caratura.
Roger Federer diserterà la prossima edizione del torneo, per seconda volta nel giro di tre anni: la superficie in Laykold piuttosto lenta e il clima tropicale molto umido di Miami rendono le condizioni di gioco piuttosto lente, soprattutto durante le sessioni serali, risultando così piuttosto invise al campione svizzero che ha preferito così passare direttamente alla terra battuta europea (su cui ha programmato di giocare ben 5 eventi nel 2015) dopo l’inizio stagione sul cemento. Qualcuno aveva suggerito la possibilità di trasformare il Miami Open nell’unico Masters 1000 sulla terra verde: la superficie è molto popolare in Florida, il cambiamento dovrebbe essere relativamente semplice (Crandon Park possiede già diversi campi in terra verde, oltre che in terra rossa ed in erba) ed il torneo si posizionerebbe così come un evento di passaggio tra il cemento (indoor o outdoor) della prima parte dell’anno e la stagione sulla terra rossa europea.
Forse però nessun cambiamento è semplice per gli organizzatori del Miami Open, viste le restrizioni cui sono sottoposti, ed il tempo ormai inizia a scarseggiare. Durante l’edizione 2014, il tennista francese Paul Henri Mathieu etichettò Miami come “il torneo più peggiorato del circuito”, davvero un bello smacco per un evento che comunque attira più di 300.000 spettatori ad ogni edizione e può vantarsi di essere stato votato come “miglior torneo del circuito” per nove volte negli ultimi 13 anni. E più le infrastrutture diventano inadeguate, tra lo stadio che ad ogni temporale rivela qualche perdita in più dai soffitti di uffici e spogliatoi e ristoranti che possono essere raggiunti solo con passerelle come nei giorni di acqua alta a Venezia, più cominciano a diventare meno sopportabili anche le altre lacune del torneo fino ad oggi tollerate. La “location” di Crandon Park è di fatto in un “cul de sac” con una sola strada di accesso attraverso cui devono passare tutte le persone e le merci che servono a far funzionare il torneo: atleti, ufficiali, personale di servizio, pubblico, ma anche cibo, bevande, merchandise e quant’altro. Per percorrere i circa otto chilometri che separano Key Biscayne dalla terra ferma ci si può impiegare a volte anche più di un’ora; i giocatori che possono permetterselo scelgono di alloggiare nell’unico hotel presente nel villaggio di Key Biscayne, il Ritz Carlton, ma chi non può sborsare gli almeno 600-700 dollari a notte necessari per pernottare lì deve necessariamente sciropparsi il calvario del traffico sulla Rickenbacker Causeway.
Il Miami Open è visto quasi come uno “Slam” dagli appassionati di tennis del Sud America: d’altra parte Miami è considerata come la capitale economica dell’America Latina, ed è abbastanza naturale che l’evento tennistico che vi si disputa abbia un fascino particolare per loro. Basti ricordare che Fernando Gonzalez scelse Miami come ultimo torneo della sua carriera prima di ritirarsi nel 2012.
La soluzione più naturale quindi potrebbe essere quella di una migrazione a sud dell’evento: il Brasile è una nazione in forte crescita economica, ha ottenuto l’ATP 500 di Rio e nella città carioca dopo le Olimpiadi del 2016 avranno a disposizione un impianto nuovo di zecca con campi in cemento che potrebbe fare giusto al caso dell’IMG. Tuttavia siamo certi che la Federazione Americana USTA farà di tutto per evitare di perdere un evento di così grande prestigio, dopo la moria di tornei che ha recentemente interessato la nazione a stelle e strisce (solo negli ultimi anni San Jose e Los Angeles sono scomparsi e Memphis è stato declassato da ‘500’ a ‘250’).
“Time will tell”, dicono da quelle parti, il tempo sarà galantuomo. Ma di tempo comincia a non essercene più molto, e la nostra tribù di zingari con racchetta potrebbe vedere le notti brave di Ocean Drive trasformarsi nelle sfilate di samba di Copacabana molto prima di quanto si pensi.