Editoriali del Direttore
Djokovic e Berdych, sul “rosso” c’è più equilibrio. Il serbo, contro Nadal, vince il duello sul dritto

Una vittoria per parte sulla terra battuta dopo due match di 3 set. Berdych e le strisce perdenti. Djokovic stacca Gaston Gaudio
Il miglior Rafa Nadal del 2015, secondo lui e secondo anche noi, non è bastato ad arginare lo strapotere attuale di Novak Djokovic nemmeno e nonostante l’avvio superfavorevole, il 2-0 e la palla break per un 3-0 che sarebbe diventato doppio break se Djokovic non avesse messo a segno un servizio vincente.
“Troppo stanco troppo presto” ha spiegato (la sintesi è nostra) Nadal, senza addurre alibi per la battaglia di venerdì con Ferrer (che Rafa avrebbe potuto accorciare se non avesse ceduto un secondo set che avrebbe potuto far suo). Il Djokovic visto anche oggi è un Djokovic in grandissima fiducia e per questo si permette di giocare immediatamente sul dritto di Nadal, come non fa quasi nessun altro tennista.
Novak, appunto, se lo può permettere, perchè è straordinariamente solido con entrambi i fondamentali, dritto e rovescio. Altri no.
Se andiamo a vedere i numeri del match, scopriamo che Rafa ha retto il confronto con Djokovic meglio sul rovescio che sul dritto. Il che, rispetto ai tempi del miglior Nadal, è abbastanza sorprendente, se ci pensate.
Dunque: quanto a dritti vincenti quelli di Djokovic sono il doppio di quelli di Nadal, 12 contro 6; e quanto ad errori gratuiti di dritto (sebbene questi siano numeri soggettivi presi da scouters non sempre inappuntabili) quelli di Nadal sono 14 contro i 9 di Djokovic. Alla fine, facendo le somme e pur prendendo cum grano salis le statistiche viene fuori che Nadal ha un bilancio negativo di 11 punti nei confronti di Djokovic.
E non se lo può permettere. Non rispecchia quanto ha sempre fatto. Il suo bilancio dritto contro dritto è quasi sempre stato favorevole con tutti gli avversari, salvo forse anche con Federer contro il quale la maggior parte dei punti l’ha vinta sulla diagonale del suo dritto contro il rovescio di Roger.
Nadal è sulla buona strada, però, e ha ragione di essere ottimista sul proprio futuro. “Se riesco a mantenere questo livello a Barcellona dove ho un tabellone duro dirò che sono di nuovo a posto”. Nadal avrà al secondo turno il vincente fra Lorenzi e Almagro e al terzo potrebbe trovare Fognini (o Verdasco) e al quarto Feliciano Lopez, come potete leggere qui.
Nadal non ha fatto che ripetere tutta la settimana che il favorito del torneo non era lui e, alla vigilia di questa loro quarantreesima sfida, che il favorito era Djokovic.
Djokovic che ha sempre tenuto a ribadire – è il gioco delle parti – che “È Nadal il più forte tennista di tutti i tempi sulla terra rossa” (opinione condivisibile allargando magari il discorso anche a Bjorn Borg), ha intanto allungato il distacco sugli altri tennisti che potevano vantare più vittorie su Nadal sul “rosso”: Gaston Gaudio è il solo ad averlo battuto 3 volte, Federer e Ferrer si sono fermati a 2. DjokerNole sale a cinque. Il bilancio è ancora negativo e non può soddisfarlo, lui aspira a ad accorciare il gap: oggi è ancora indietro di un bel po’ 5 a 14.
Ma i nove Roland Garros di Rafa sembrano oggettivamente irraggiungibili, molto più dei 14 Slam del maiorchino. Semplicemente perchè di Roland Garros ce n’è uno all’anno e invece di Slam quattro.
Anche il record di Nadal a Montecarlo, otto successi, è quasi impossibile da battere per Nole che ha vinto qui soltanto nel 2013.
Sulla carta dovrebbe vincere il suo secondo titolo avendo battuto Tomas Berdych 18 volte su 20. Attenzione però: sulla terra rossa hanno giocato solo due volte, e sono sempre andati al terzo set, con una vittoria per ciascuno. L’ultima a Roma 2013 è proprio stata vinta da Berdych, mentre a Montecarlo 2012 aveva vinto il serbo.
Berdych quest’anno è stato di una regolarità impressionante (“Sì, ma mi manca ancora un titolo” ha detto lui stesso per primo), ma ha fatto un paio di finali, e in tutti gli altri tornei ha raggiunto almeno le semifinali salvo che a Indian Wells. Non a caso è secondo nella race, preceduto soltanto da Djokovic.
Se andate a vedere la traduzione dell’intervista riportata da Carlo Carnevale vedrete che c’è stato un simpatico scambio di frasi fra Berdych e il sottoscritto. Gli avevo chiesto, cercando di essere il più possibile diplomatico, se non gli desse fastidio che tanti avessero scritto e pensato che quella fra Djokovic e Nadal fosse una finale anticipata. Lui mi ha chiesto se lo pensavo anch’io, e io dovuto rispondergli la verità, e cioè che i numeri impietosi suggerivano proprio questo.
È vero però che proprio quest’anno Berdych ha interrotto all’Australian Open una “striscia” di 16 vittorie consecutive battendo finalmente Rafa Nadal. E se questa volta interrompesse la striscia, molto più corta, costituita dai cinque successi di Novak?
“Credo che a Tomas piaccia giocare sulla terra rossa, gli dà il tempo di “aprire” sia il dritto sia il rovescio. Ha un ottimo servizio, è uno dei giocatori più regolari e solidi quest’anno – ha detto Djokovic, sempre bene informato sul conto dei rivali – ma se continuo a giocare come adesso penso di avere una good chance”..
Certo è che se Novak vincesse anche questo Masters 1000, il terzo dell’anno, diventerebbe più giustificata la domanda che gli è stata fatta stasera: “Pensi di poter vincere tutti i 13 tornei che contano, i 9 Masters più i 4 Slam?”.
Lui si è messo a ridere e come al solito è stato pronto “Visto che mi ci fai pensare…”, e poi ha dato la risposta più saggia: “Siamo solo a un terzo dell’anno, la stagione è lunga...”.
Berdych ha dominato Monfils, ancora una volta, la sesta su sette. E Monfils che soffre tantissimo i suoi colpi penetranti e piatti “Non mi dà il tempo, e poi legge bene il mio servizio…”, ancora si chiede non tanto come farà a batterlo ma come ha fatto a batterlo l’unica volta che gli è riuscito, nel 2013, al quinto.
“Non riesco a trovare la videocassetta di quel match, non ricordo come sia potuto succedere, ho chiesto al mio allenatore Jan De Witt se può farsi dare dal Roland Garros la cassetta …perché sono proprio curioso di rivederla”.
Con Berdych, con il quale ho un ottimo rapporto, abbiamo chiacchierato un paio di minuti anche fuori dalla conferenza stampa. L’ho amichevolmente rimproverato per quel suo modo di parlare così monocorde, senza mai un lampo. Gli ho detto che anche se diceva cose interessanti, e ogni tanto le dice, le sue interviste sul campo sono inascoltabili, noiose, tristi perfino quando vince. E lui mi ha dato ragione aggiungendo però: “È la mia lunga, il ceco, che ti abitua a parlare in quel modo… Lo so che non va bene, cercherò di migliorare..” mi ha sorriso. Gli ho chiesto allora se anche i telecronisti della tv ceca fossero così “smorti”. E lui, riflettendo un po’: “Beh,no, forse quelli del calcio qualche vibrazione se c’è un gol riescono a trasmetterla, ma niente a che vedere con italiani e spagnoli, questo è sicuro”.
Beh, non so se il mio sermoncino servirà a qualcosa, ma sarei quasi curioso di vedere vincere Berdych contro Djokovic – e sì che anche Nole mi sta fortemente simpatico – a) perchè giornalisticamente farebbe molta più notizia che non l’ennesima vittoria di Nole, la diciannovesima su 21, b) perchè vorrei vedere se Tomas sarebbe capace di trasmettere un po’ di emozioni nel suo discorso post match da campione.
Penso però che ho più chances di assistere ad un successo di Fognini e Bolelli sui Bryan nel doppio (ore 11,30 diretta su Sky 2). Anche i gemelli americani hanno vinto 105 tornei e 16 Slam e i nostri uno Slam e soltanto 3 tornei in tutto. Ma i gemelli viaggiano per i 37 anni: li compiranno il 29 aprile. E sulla terra rossa sono più vulnerabili che sulle superfici veloci.
Editoriali del Direttore
È morto Roberto Mazzanti, per 20 anni direttore di Matchball, la Bibbia dei veri appassionati di tennis
Tennis e giornalismo i suoi grandi amori. Sotto la sua guida saggia ed equilibrata hanno lavorato Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, Viviano Vespignani, un giovanissimo Scanagatta. un imberbe Stefano Semeraro, il boy Luca Marianantoni e tanti altri. Era impossibile litigarci

Aveva 82 anni, era stato colpito da un malore a gennaio. Purtroppo non si più ripreso Roberto Mazzanti, uno dei pochi, pochissimi giornalisti davvero signori, con i quali era impossibile litigare. Un uomo per bene. E non lo scrivo perchè ci ha lasciato, ma perchè è vero. E lo può dire e confermare chiunque lo abbia conosciuto.
Roberto era stato negli anni Settanta il direttore di Matchball (in edicola dal 1970 al 1996), la seconda rivista di tennis – dopo “Tennis Club” diretta da Rino Tommasi – per la quale poco più che ventenne avevo cominciato a collaborare, spinto dalla mia inesauribile passione per il tennis e per il giornalismo, gli stessi due grandi amori di Roberto. Per lui, come per me, era una passione romantica, senza mai l’ambizione di arricchirsi, ad alimentare quei due eterni amori.
Lui, bolognese, era cresciuto all’interno del Resto del Carlino dove era stato assunto inizialmente come correttore di bozze. Infatti, diventato poi redattore professionista del quotidiano bolognese, dividendosi fra le pagine della cronaca cittadina come dello sport – come sarebbe successo anche a chi scrive – non avrebbe mai sopportato i refusi.
Non l’ho mai visto arrabbiato, mai perdere il controllo, mai alzare la voce. Un gentiluomo con aplomb british, mascherato da un moderato accento emiliano. Adorava guardare il tennis, non solo quello dei grandi – venne anche a vedermi giocare la finale di doppio dei campionati italiani di Seconda Categoria al Circolo Tennis Giardini Margherita, lui che frequentava la Virtus del presidente (anche FIT) Giorgio Neri – ma gli piaceva anche giocarlo. E lo ha fatto da dilettante fino a tempi anche recenti, sebbene avesse scoperto anche il golf e, negli anni, gli fosse venuta anche la passione per le automobili, la tecnologia, il loro evolversi.
Lavoravamo per lo stesso gruppo editoriale, la Poligrafici, ma io – più giovane e scapolo mentre lui era sposato – ero più disponibile a sacrificare ferie e vacanze (a caccia di ospitalità o alberghi a due stelle) per andare a seguire il tennis nel maggior numero possibile di tornei.
Quindi per Nazione e “Carlino” accadeva che lui mi lasciasse il passo per gli Slam e che io lo lasciassi a lui per la Coppa Davis …che allora era una cosa seria, ma si esauriva in alcuni long-weekend e che potevano essere anche 5, 6 o 7 in un anno se l’Italia andava in finale come accadde per quattro anni su cinque fra il ’76 e l’80. Accadde anche che con quei ripetuti exploit dei nostri 4 moschettieri azzurri io mi ritrovassi a seguire insieme a Roberto anche quegli eventi a squadre.
Non esisteva Internet, né la composizione digital-elettronica e Matchball optò, anche per contrapporsi a “Il Tennis Italiano” che era un mensile, una cadenza quattordicinale. Usciva in edicole (sì, esistevano ancora…) ogni due martedì e sotto la guida di Roberto scrivevamo i nostri articoli Roberto, Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, il sottoscritto, Paolo Francia, Viviano Vespignani e (diversi anni dopo) si sarebbe aggiunto, fra i tanti, anche Luca Marianantoni con tutti i numeri che si portava appresso. In redazione due giovani di belle speranze, Stefano Semeraro e Enrico Schiavina., Al lunedì mattina Matchball doveva essere “chiuso” in tipografia. La domenica sera…si finiva per scrivere editoriali, pagelle, statistiche, a notte inoltrata. Sempre facendo le corse, perché magari le partite, ai più diversi fusi orari, finivano tardissimo e la copertura era massiccia. Per merito di tutto il team Matchball diventò ben presto la rivista leader e tale restò fino a che l’avvento di Internet, delle notizie on line, delle coperture televisive di più network, fece strage di gran parte delle riviste cartacee, impossibilitate a reggere la concorrenza sul piano della tempestività dell’informazione.
Roberto, giornalista elegante ed equilibrato, prediligeva i tennisti dal bel braccio, McEnroe, Panatta, Bertolucci (e più recentemente inevitabilmente Federer), Rino era prima innamorato di Rosewall e poi di Edberg, io stravedevo per l’arte e l’imprevedibilità di Nastase, per la grinta e i limiti tecnici di Connors oltre che per Boris Becker (per far da contraltare a Rino), quando sarebbe arrivato Luca avremmo annoverato nel team di Matchball anche un grande fan di Lendl.
Vabbè, vedete, anche adesso che Roberto ci ha improvvisamente lasciato affiorano nella mia mente tanti ricordi, tanti amichevoli dibattiti e lui che, con fare quasi ecumenico, mi diceva: “Dai Ubaldo scrivi le tue pagelle, falle un po’ tecniche, un po’ironiche, senza infierire mai troppo…anche se lo sappiamo tutti che se devi scrivere di promossi e bocciati, ai lettori piaceranno sempre più i voti bassi che quelli alti, quelli più critici che quelli pieni di elogi. Il mondo va così” diceva chiaramente dispiacendosene. E a quei tempi non esistevano ancora i leoni da tastiera, gli “webeti”. Che la terra ti sia lieve caro amico. E che tua moglie Anna, tuo figlio Luca, la tua nipotina adorata, sopportino con forza e coraggio il vuoto che lasci a loro e a tutti quelli che ti hanno stimato e voluto bene.
Australian Open
Australian Open: Il fenomeno Djokovic è di un altro pianeta. Tsitsipas non poteva fare di più. Non è la parola fine sul GOAT
I fenomeni non sono stati solo tre, Djokovic, Federer e Nadal. Perché se si dà peso primario ai titoli Slam, Rosewall e Laver non possono essere ignorati. E perchè un solo anno, e non sempre, laurea il vero n.1

Il resto del video, che qui potete vedere in anteprima, è disponibile sul sito di Intesa Sanpaolo, partner di Ubitennis.
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Non ho mai pensato che potesse finire diversamente. L’unico momento di dubbio l’ho avuto – insieme a Djokovic – quando entrambi abbiamo temuto che il suo problema alla coscia fosse un problema serio.
Così come gli altri due fenomeni, Federer e Nadal (elencati, a scanso equivoci, in ordine alfabetico), Novak Djokovic è di un altro pianeta rispetto a tutti gli altri contendenti. Come fenomeni sono stati nello sport più popolare – se cito soltanto i fenomeni del calcio, anziché altre discipline sportive, è perché è più facile che quasi tutti capiscano di che cosa parlo – Pelè a cavallo degli anni 60/70, Maradona un ventennio dopo, Messi e Cristiano Ronaldo nel terzo millennio.
Djokovic, Federer e Nadal (ancora in ordine alfabetico) hanno lasciato le briciole a tutti gli altri tennisti loro contemporanei. E l’hanno fatto con una continuità spaventosa, in un arco temporale inimmaginabile che ha spaziato fra i 15 e i 20 anni. Davvero incredibile.
Mentre i campioni Slam del passato una volta superati i 30 anni difficilmente riuscivano a restare competitivi per più anni,– salvo rarissime eccezioni: Rosewall, Connors, Agassi su tutti – mentre qualche straordinario campione come Borg o McEnroe ha smesso di giocare o di vincere già a 26 anni – questi tre hanno continuato a dominare il resto della concorrenza come se fosse la cosa più normale del mondo. E tutti a sorprendersi, a meravigliarsi con infinito stupore quando ciò, a uno dei tre, ma mai a tutti e tre insieme, non succedeva.
Nel conquistare il meritato appellativo di “fenomeni” i tre supercampioni non si sono limitati a registrare un record dopo l’altro pur dovendosi affrontare fra le 50 e le 60 volte in pazzeschi testa a testa, dopo essersi inseguiti come i celebri duellanti di Conrad ai tempi di Napoleone ai 5 angoli/continenti del mondo sulle più varie superfici. Ma tutti e tre hanno dato dimostrazione di formidabili e superiori doti tecniche, atletiche, caratteriali, intellettuali, morali, umane. Ho forse dimenticato un qualche aspetto?
A trovar loro un vero difetto, come campioni e come uomini, personalmente ho sempre fatto fatica. Anche perché li ho conosciuti tutti da vicino e fin da quando hanno cominciato a cogliere i loro primi stupefacenti successi, quasi imberbi, a 16 e 17 anni. Quando anche un “parvenu” del tennis avrebbe intravisto le loro eccezionali qualità. Personalità intelligenza, simpatia, resilienza, determinazione, avevano tutto fin da subito. Le si potevano scorgere a occhio nudo, senza farsi condizionare dalla semplice precocità.
Forse proprio Djokovic, il più giovane dei tre e colui che sembra destinato a restare sulla breccia più a lungo degli altri, è quello – anche per le sue posizioni NOVAX (peraltro coerenti al massimo, diversamente da chi ha presentato certificati falsi assolutamente imperdonabili) – che ha sollevato più casi controversi. Talvolta nemmeno interamente per sue responsabilità. Il background della sua famiglia, l’educazione, lo stile di vita, sono stati diversi da quelli di Federer e Nadal.
Eppoi lui è arrivato dopo di loro, quasi un intruso, in un mondo che tennisticamente si era diviso all’80% fra federeriani e nadaliani. Per conquistarsi un posto, ha dovuto farsi spazio fra loro, impossessandosi di quel 20% che era rimasto ai neutrali. E dovendo giocare dappertutto con folle di tifosi più ostili che amiche. In patria è diventato un simbolo, un eroe, un semiDio. Fuori no. E’ stata dura, molto più dura che per gli altri due fenomeni conquistarsi un suo pubblico, un suo status internazionale. Lo ha potuto fare nel solo modo che lo sport consente: i risultati. Risultati assolutamente straordinari. Pian piano ha battuto i suoi leggendari rivali più volte di quanto di avesse perso. Pian piano ha autorizzato i suoi estimatori a inserirlo nell’eterno dibattito sul GOAT, sul più forte giocatore di tutti i tempi.
Non si metteranno mai d’accordo i tifosi dei tre fenomeni. Tutti avranno buoni motivi per sponsorizzare il loro fenomeno d’elezione. Chi privilegerà un’epoca ad un’altra, una strong era a una weak era (e qualche vuoto pneumatico al top dei competitor c’è stato per tutti e tre), chi lo stile e l’eleganza, chi la forza e la garra, chi la completezza, chi una superficie o un’altra. E qualunque conclusione verrà raggiunta sarà sempre ingiusta. Anche perché se in uno stesso anno possono cambiare in maniera pazzesca le cose – pensate solo al 2016 con i primi 6 mesi di Djokovic e i secondi 6 mesi di Murray – e figurarsi da un anno all’altro – pensate al 2017 e ai 4 Slam divisi fra i “risorti” Federer e Nadal che molti avevano già dati per finiti – se si dovessero confrontare pacchetti di più anni, in cui sono magari cambiate le attrezzature, le superfici, ogni paragone fra epoche diverse condurrebbe a emettere verdetti assolutamente discutibili, comunque superficiali.
Oggi, e chiudo questo lunga premessa, i fan di Djokovic ebbri di gioia per i 22 Slam che hanno consentito a Nole di eguagliare i 22 di Rafa Nadal e di “staccare” definitivamente i 20 di Federer sembrano aver buon gioco a sostenere che chi vincerà più Slam a fine carriera potrà tappare la bocca a tutti gi altri pretendenti al GOAT.
Ma non è così. Ken Rosewall, cui abbiamo dedicato un bell’articolo in questi giorni, ha vinto 8 Slam ma ne ha dovuti saltare – perché professionista per 11 anni – ben 44. E Rod Laver, unico campione ad aver realizzato due volte il Grande Slam (1962 e 1969, a sette anni di distanza, i suoi migliori 7 anni…), ha vinto 11 Slam dovendo saltare 20 Slam fra il 1963 e il 1967. Non potevano essere loro i GOAT? I fenomeni del tennis non sono stati solo tre.
Quelle ultime due lettere, A e T, stanno per ALL TIME. Se allora ALL TIME, per i motivi su esposti, non si può dire, limitiamoci allora a dire chi sia stato il miglior tennista del mondo anno per anno. E solo in quel caso è più probabile che non ci si sbagli, anche se – ripetendo l’esempio fatto poc’anzi – se si prende in esame un anno come il 2016 nel quale Novak domina i rimi sei mesi, Andy Murray i secondi sei, e il computer ATP assegna il numero uno year-ending a Murray perché vince la finale del Masters…beh anche in quel caso siamo così sicuri che il verdetto fosse così inequivocabile, inappellabile? Una sola partita può decidere chi sia il miglior tennista di tutto l’anno, solo perché lo dice un computer che – cito per l’ennesima volta Rino Tommasi – “sa far di conto, ma il tennis non lo capisce?”.
Vabbè, torno sulla finale e sulla superiorità disarmante di Djokovic perfino al termine di un match non immune da pecche, da errori evitabili, da nervosismi quasi inesplicabili come quello che lo ha colto a metà del secondo set quando avrebbe potuto continuare a gestire tranquillamente il match come aveva fatto fino ad allora.
Tsitsipas non poteva far molto di più, salvo che – nel tiebreak del secondo set – evitare quei quattro errori di dritto, il suo colpo migliore andato improvvisamente…in barca.
Ma Djokovic, che è indiscutibilmente da anni il miglior ribattitore del mondo – e qui, su questo giudizio, credo possano essere d’accordo perfino i tifosi di Federer e Nadal – era stato ingiocabile sui propri servizi. Fino a quel game in cui Tsitsipas è riuscito – sul 4-5 del secondo set- a conquistarsi contemporaneamente sia la prima palla break che l’unico setpoint Djokovic, aveva lasciato al più temibile dei suoi avversari la miseria di sei punti nel primo set in cinque turni di battuta (la sola volta che Stefanos era arrivato a 30 però Novak era avanti già 3-1 e 40-0) e nel secondo set 5 punti nei quattro turni di servizio. Mai Tsitsipas era ancora arrivato a 40.
Ok? Bene: c’è arrivato in quel frangente e sulla pallabreak-setpoint che fa Djokovic? Prima di servizio e dritto vincente.
Poi un tiebreak giocato maluccio da entrambi, perché sul 4-1 per Nole frutto di tre minibreak seguiti a 3 inattesi errori di dritto di Tsitsipas Nole ha prima regalato un insolito rovescio per lui banalissimo e poi ha fatto anche il secondo doppio fallo del suo match. Ma sul 4 pari ecco di nuovo Tsitsipas, evidentemente teso come una corda di violino, sbagliare un quarto dritto! Djokovic non se l’è fatto dire due volte e dal 4 pari al 7-4 è stato un gioco da ragazzi.
Qualcuno poteva illudersi che dopo il toilette break e l’unico servizio perso da Nole all’inizio del terzo set le cose potessero cambiare? Forse neppure l’irriducibile Tsitsipas.
Dal 2 a 2 in poi Djokovic – che ribadisco essere il miglior ribattitore del mondo – tiene per 4 volte consecutive il servizio a zero: 17 punti di fila (contando l’ultimo che gli aveva dato il 2-1 in un game vinto a 15). Cui seguiranno gli altri primi tre del tiebreak che decide l’ultimo tiebreak in cui, giusto per non illudere Tsitsi e le migliaia di fan greci che non smettevano di gridare “Tsitsipas, Tsitsipas” – mentre fuori dal centrale la stragrande maggioranza nel garden davanti al mega schermo era invece serba (mica facile procurarsi i biglietti…) – Djokovic sale sul 5-0, subisce dopo 20 punti conquistati con il servizio un mini-break, ma poco dopo chiude con un dritto vincente sul terzo matchpoint.
Sì, mi scuso, ho riscritto una cronaca che Cipriano Colonna aveva già scritto brillantemente chiudendola su Ubitennis nei 5 minuti successivi alla conclusione, ma solo per sottolineare come oggi perfino un Djokovic che ha giocato senza fare troppe cose straordinarie, è stato assolutamente ingiocabile in 12 turni di servizio su 14 (salvo che sul 4-5 e sul primo gae del terzo set) ed è sempre stato fortissimo – sì, proprio come sempre – quando doveva rispondere.
I suoi record li abbiamo già ricordati dappertutto. Non credo serva scriverli ancora, prima di cominciare a pensare a che cosa potrà accadere nel regno di Nadal al Roland Garros. Novak ha perso un solo set nel torneo, ma perché con Couacaud al secondo turno gli faceva male la coscia sinistra. Però se fossi stato a Melbourne tutti i suoi dieci trionfi, i 22, i 93, le 374 settimane da n.1 (verso le 377 di Steffi Graf) magari avrei trovato un modo per ricordarglieli in conferenza stampa.
Qua dico soltanto….davvero not too bad! carissimo fenomeno Djokodiecivic.
Australian Open
Australian Open: Sabalenka sugli scudi. Ha vinto il miglior servizio o il miglior dritto? E l’assenza di inno e bandiere bielorusse ha senso?
Hanno vinto…gli studi biomeccanici della regina 2022 dei doppi falli. Ma fra dritto e rovescio, quale è il colpo da fondo di solito più decisivo? Il duello Djokovic-Tsitsipas suggerisce una risposta sbagliata

La nuova campionessa dell’Australian Open, Aryna Sabalenka, è una ragazza che l’anno scorso aveva vinto…la classifica di chi aveva fatto più doppi falli fra tutte le prime 100 tenniste della WTA.
Roba da far arrossire Sascha Zverev. Aryna, che diventa la seconda bielorussa a vincere uno Slam in Australia dieci anni dopo Vika Azarenka, di doppi falli ne aveva commessi ben 427 nel 2022, a una media di 8 a match. Ma lo scorso anno, durante lo US Open, subito dopo aver perso dalla Swiatek, lei che ama farsi chiamare “Tigre” –e che si è fatta fare un tatuaggio di una tigre sull’avambraccio sinistro “perché mi deve ricordare di lottare sempre come una tigre…”- aveva deciso di mettersi a studiare la tecnica della sua battuta con uno specialista di biomeccanica, con due obiettivi: 1) ritrovare percentuali migliori sulle prime palle di servizio 2) servire seconde palle meno aleatorie.
Prima della finale il coach della Rybakina Stefano Vukov aveva dato l’aria di mettere le mani avanti, quasi anche a voler mettere maggior pressione su Aryna: “Il risultato dipenderà da chi servirà meglio”.
E quello della Sabalenka, Anton Dubrov: “Vincerà chi saprà controllare meglio le proprie emozioni”. Anche questo, per la verità, sembrava più un messaggio rivolto alla sua “assistita” piuttosto che a Elena Rybakova, ragazza piuttosto introversa che sembra spesso anche fin troppo in controllo dei suoi nervi. Almeno all’apparenza, perché oggi l’ho vista spesso parlare con se stessa dopo alcuni errori.
Beh, in questa finale vinta 4-6,6-3,6-4, Aryna ha perso il primo set della finale e il primo dell’anno, ma dopo è riuscita abbastanza bene a controllare le proprie emozioni fino a quando – a seguito dell’ennesimo dritto lungo della Rybakina (decisamente il colpo più incerto della kazaka) sul suo quarto matchpoint e dopo che sul primo aveva commesso un doppio fallo – si è lasciata andare lungo distesa sul campo centrale della Rod Laver Arena coprendosi il volto e piangendo come un vitellino, con tutto il petto percorso da sussulti irrefrenabili.
Direi che lo studio ha pagato – soprattutto in percentuale di prime palle, il 65% contro la Rybakina che si è fermata al 59%; la seconda palla invece secondo me necessità di studi ulteriori: è troppo piatta, c’è poco lift – perché durante tutto l’Australian Open di doppi falli Iryna ne ha fatti “soltanto” 29 in 7 partite. Quindi è scesa a 4 di media a match.
Vero, però, che le prime sei Aryna le ha vinte tutte in due set e sempre perdendo pochi game, così come aveva vinto in due set tutte le partite giocate al torneo di Adelaide. Oggi che la partita è durata 2h e 29 minuti per 3 set, i doppi falli sono stati 7, non pochissimi, però sono stati bilanciati da 17 ace (mentre la Rybakina ne ha fatti 9 e un solo doppio fallo: insomma la forbice dice +10 per gli ace a favore della ragazza bielorussa, + 6 a favore per i doppi falli a favore della kazaka) e poi non so dirvi quanti siano stati i servizi immediatamente vincenti, ma in quelle 70 volte in cui ha messo direttamente la prima ha fatto 50 punti. Sospetto che i servizi vincenti che siano stati parecchi.
Quindi il servizio ha svolto un ruolo importante in un match caratterizzato da pochi break, cinque in tutto in 29 game, come vediamo di solito accadere più in un match di uomini piuttosto che di donne.
D’altra parte le due ragazze finaliste hanno un fisico non così comune per il tennis femminile: un metro e 84 centimetri la Rybakina, un metro e 82 la Sabalenka che ha anche due spalle e una potenza che non tanti tennisti di sesso maschili possono vantare e disporre.
I servizi della Sabalenka sfiorano i 200 km orari e fanno male. Se un numero sufficiente di battute le sta dentro, strapparle il servizio è tutt’altro che semplice. Infatti la Rybakina c’è riuscita solo due volte pur essendosi procurata 7 pallebreak, entrambe nel primo set. E poi più.
Con le sue possenti, fracassanti risposte, invece la Sabalenka di palle break ne ha conquistate 13 e dopo l’inutile break del primo set per risalire dal 2-4 al 4 pari, un break a set nei due set successivi le sono bastati per vincere il match e conquistare il suo primo Slam alla sua prima finale e dopo tre stop in tre precedenti semifinali Slam.
Di solito, se fra due giocatrici di simile livello (ma vale forse ancor più per i giocatori) una ha un grandissimo dritto e l’altra ha un grandissimo rovescio, dai tempi di Steffi Graf (anche se Chris Evert potrebbe aver argomenti validi per obiettare), vince quella con il miglior dritto.
Il dritto, in genere, procura più punti. Tant’è che salvo poche eccezioni se a un tennista si offre una palla a mezza altezza e a metà campo, è più normale che il tennista giri attorno alla palla per schiaffeggiarla con il dritto piuttosto che con il rovescio. Il dritto è un colpo più dirompente. E’ più normale schiacciarlo dando anche una spallata. Ma su questa tesi sono più che aperto ad aprire un fronte di discussione e contradditorio…
Ora ci sarà chi, alla vigilia della finale maschile fra Djokovic e Tsitsipas mi obietterà che Djokovic è il favorito anche se il greco ha il miglior dritto e il serbo il miglior rovescio, ma io a mia volta potrò controbattere che Nole fa comunque di solito più punti vincenti con il dritto che con il rovescio. Vedremo domani (ore 9,30 su Discovery-plus).
Intanto chiudo il discorso sulla finale femminile osservando che la bielorussa Sabalenka non ha potuto godere né dell’inno nazionale a celebrare il suo trionfo, né della bandiera bielorussia sul tabellone e sul palmares dell’Australian Open accanto al suo nome. Magari fra qualche anno ricomparirà al posto di una bandiera bianca. E chissà poi che cosa deciderà Wimbledon quest’anno. Molti auspicano un ripensamento. Non i tennisti ucraini. La Kostyuk, sconfitta in semifinale nel doppio femminile, ha chiesto agli inglesi di non fare marcia indietro.
Io ripenso con piacere a quando l’indiano Bopanna e il pakistano Qureshi si sono messi a giocare il doppio assieme.
Ma fra Russia-Bielorussia e Ucraina la guerra è ancora purtroppo così terribilmente virulenta, orribile oggi perché possano essere dei tennisti i primi a soprassedervi, a non farci caso. Anche se potrebbe essere un gran bel messaggio.
La newsletter Slalom.it di Angelo Carotenuto ha riportato un articolo del Sydney Morning Herald secondo cui “Sopprimendo le loro bandiere (di russi e bielorussi), i dirigenti maldestri offrono solo più fiato al loro vittimismo. Che si tratti di Australia, Parigi, Londra o New York, l’anno scorso ha dimostrato che più bandiere vengono bandite dagli eventi sportivi, maggiore è la sfida che producono. Quanto più il mondo condanna il nazionalismo, tanto più acquistano forza coloro che ci credono. Chiediamolo agli ucraini”
Comunque sia quando hanno chiesto a Aryna Sabalenkaq, nuovamente n.2 del mondo “nel giorno più bello della mia vita” (la Rybakina sarà top-ten, ma sarebbe stata top-five se avesse potuto contare anche i 2.000 punti di Wimbledon 2022) se non le sembrasse strano aver vinto uno Slam senza una sola bandiera bielorussa e neppure una menzione alla bielorussa, lei ha risposto con un sorriso: “Credo che tutto il mondo sappia che sono bielorussa, non vale la pena di aggiungerlo”.