Wilander: “Che ricordi del Roland Garros dell'82: l'insulto di Connors, la vittoria su Lendl..."

Interviste

Wilander: “Che ricordi del Roland Garros dell’82: l’insulto di Connors, la vittoria su Lendl…”

“Il Roland Garros del 1982 rappresenta il mio passaggio all’età adulta” racconta Mats Wilander in un’intervista al sito dei French Open

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Mats Wilander compirà 50 anni quest’anno e celebrerà un mezzo secolo ampiamente influenzato dal suo rapporto col Roland Garros. Dall’ascesa verso una fama trionfante alla caduta che tutti i grandi personaggi dello sport devono subire, il tre volte campione degli Open di Francia ci espone una breve storia della vita di Mats Wilander mentre siede all’ombra del campo centrale alla Porte d’Auteuil.

Qual è il tuo primo ricordo del Roland Garros?
La mia prima immagine del Roland Garros viene dalla TV. Sono io che da bambino e da ragazzo guardo la finale di Bjorn Borg incollato allo schermo, non sono sicuro di aver visto la prima, contro Manuel Orantes. Comunque sono sicuro di aver visto le quattro successive. All’epoca c’erano solo due canali TV in Svezia, ma di sicuro non ci siamo mai persi un match di Borg.

Lui era più o meno l’unico svedese a giocare ad alti livelli, e poi subito dopo di lui sono arrivati Wilander, Edberg ed un gran numero di top 10. Questo è stato l’effetto Borg? Che cosa rappresenta lui per te?
L’intera Svezia è orgogliosa di quello che ha raggiunto. Lui non era una solo una star… lui era al di là di questo, troppo grande per provare a descriverlo. Era inarrivabile, irraggiungibile. Per noi in Svezia, lui era il più grande giocatore di tutti i tempi, il successo che ha avuto nei due più grandi tornei al mondo, Roland Garros e Wimbledon, era senza precedenti. E a chi importa se non ha mai vinto gli US Open. Personalmente non era il mio idolo, io preferivo Jimmy Connors, Ilie Nastase e altri giocatori meno leggendari come Adriano Panatta e Guillermo Vilas. Ma Borg era una spanna sopra gli altri, c’era qualcosa di irreale in lui.

Quando hai giocato il tuo primo Open di Francia, nei Juniores del 1981, i più famosi erano ancora lì…
… e io fui fortunato a sufficienza da vederli giocare dal vivo! Quell’anno vinsi il torneo juniores, incontrando una forte concorrenza. Se la memoria mi dice giusto, ho battuto Pat Cash, Miloslav Mecir e poi Henri Leconte in finale. Avevo già smesso di giocare in molti dei tornei juniores, ero stato a Wimbledon una volta l’anno precedente quando avevo 16 anni e persi al primo turno, e non giocai mai gli Australian Open o gli US Open. Per me fu una grande vittoria e l’assaporai di più sapendo che era il mio ultimo torneo juniores. Il mio allenatore Jan-Anders Sjorgen e io avevamo deciso di fare il passo successivo dopo il Roland Garros. E io ho questo ricordo dopo aver vinto la finale junior mentre lascio il campo numero 1 per andare al Campo Centrale per guardare gli ultimi set della finale tra Borg e Ivan Lendl. Che momento. Vedere Bjorn Borg, in carne e ossa, vincere il suo sesto Open di Francia. Era la prima volta che lo vedevo giocare dal vivo sul campo che fu da teatro del suo più grande traguardo, e lui sbrigò l’ultimo set della finale 6-1.

Quando tornasti l’anno dopo, nel 1982, Borg non era più lì*. Questo come ha cambiato le cose?
Per quanto mi riguarda non ha cambiato molto. Sapevo che c’era qualche storia complicata con l’ATP e l’ITF. Loro decisero di mandarlo a fare le qualificazioni per tutti i tornei. Quello che ho capito chiaramente è che la sua assenza scosse tutti, non essendo lui più lì, ora tutti avevano una possibilità per vincere: Vilas, Gerulaitis, Clerc, Connors, Lendl… tutte le sue solite vittime. Il loro tempo era finalmente arrivato. Solo che si sono tutti fatti prendere dal panico quando mi hanno visto arrivare (fa una faccia con la bocca divaricata e gli occhi spalancati). Loro non credevano che un diciassettenne appena arrivato avrebbe potuto fargli quello. Per tutto questo tempo avevano aspettato che Borg desse loro un po’ di spazio, e una volta che si erano finalmente sbarazzati di lui, avevano un altro svedese con il quale lottare!

Il fatto che tu eri il nuovo volto del tennis in Svezia ha cambiato qualcosa in te?
No, nonostante la mia vittoria nel torneo juniores l’anno precedente e la mia semifinale a Roma, iniziando il torneo nessuno pensava che avessi potuto vincere Parigi quell’anno. Certamente ero orgoglioso di rappresentare l’eredità di Borg, ma quello era tutto, è lì che si è fermato. La pressione era sulle spalle di altre persone. Io ho solo fatto quello che so fare meglio, mi sentivo a casa sulla terra, io non mi stancavo mai e ho giocato allo stesso livello dal terzo turno fino alla finale. Il fatto che il mio livello non sia sceso significa che i miei avversari devono aver pensato di star giocando contro il fantasma di Borg, e non riuscivano a controllare le loro emozioni quando affrontavano la situazione. Loro semplicemente non ci riuscivano. Stavano giocando con me, ma per loro doveva essere come affrontare Borg junior, con tutti i ricordi spiacevoli che questo comportava! Soprattutto per Guillermo in finale, dovrà aver pensato di esser rimasto bloccato in un incubo, rivivendo le sconfitte subite da Borg.

Come hai reagito a questa vittoria inaspettata nel tuo primo Open di Francia?
Fu più di una vittoria. Il Roland Garros del 1982 rappresenta il mio passaggio all’età adulta. Ero un ragazzino quando arrivai, ma dopo due settimane ero diventato un uomo. Ad essere precisi, il cambiamento iniziò ad arrivare durante il torneo. Arrivai da Roma dove avevo perso in semifinale da Andres Gomez. Io e il mio coach viaggiammo in macchina durante la notte a causa di uno sciopero dell’Alitalia quindi arrivai a Parigi domenica mattina, giusto in tempo per affrettarsi verso il Roland Garros, dove potei allenarmi sul centrale per la prima volta in vita mia. E sorpresa, sorpresa, il giocatore che mi stava aspettando dall’altra parte della rete era Jimmy Connors. Io ero stanco, dopo il viaggio e tutto il resto, ma a lui non importava. Abbiamo palleggiato per mezz’ora, dopo abbiamo giocato un set e presi il controllo e mi ritrovai 4-1 sopra. Improvvisamente Connors si fermò, venne verso di me, mi indicò e urlò: “Tu sei un ******* ****-******!” Io mi voltai verso Jan-Anders e dissi: “Lo hai sentito?”, “L’ho sentito, ignoralo e basta!” Come avrei potuto ignorarlo? È così che tutto ebbe inizio: un ragazzino insultato da Jimmy Connors (pausa, un sorriso come di vendetta appare sulle sue labbra). E due settimane dopo vinsi il Roland Garros. Questo torneo mi ha fatto crescere al doppio della velocità. Ci fu l’insulto di Connors, la vittoria su Lendl… come son riuscito a batterlo? Non credevo di avere una possibilità! Il mio match al quarto turno contro Ivan fu l’ultimo pezzo del puzzle. Dopo quell’incontro mi sono detto che avrei potuto battere Gerulaitis, poi Clerc in semifinale, e poi Vilas in finale… e vinsi.

L’anno seguente eri dall’altra parte della rete quando Yannick Noah vinse davanti al pubblico di casa. Come ti sei sentito?
Ci sono poche sconfitte nella mia carriera dopo le quali non mi sono sentito depresso. È stato il caso della finale degli Australian Open del 1985 contro Edberg, e poi c’è Yannick. Certamente ho pensato di poter vincere, all’epoca ero il giocatore più forte sulla terra. Nel giro di un anno, dall’inizio del Roland Garros del 1982 fino alla finale del 1983 avevo perso solo due match, quindi ovviamente ero deluso della sconfitta, ma non depresso. Yannick era… diverso, per molte ragioni. Lui aveva una passione per quello che faceva, era sempre un bravo ragazzo negli spogliatoi, pieno di sorrisi. Dopo scoprii che condividevamo l’amore per la musica. Lui non era solo un giocatore di tennis, non che questo gli abbia impedito di essere straordinario sul campo. Era un ragazzo a posto. Quindi quando ci siamo incrociati in un night-club chiamato Le Duplex la sera dopo la finale, non ero affatto triste. Persi da un ragazzo fantastico. E quando qualcuno gioca meglio di me, io non vedo dove sia il problema. Si meritò la vittoria. Al contrario: col senno di poi, io imparai molto da quel match e dal modo in cui Yannick giocò sulla terra. Vedendolo giocare capii che se volevo vincere non potevo restare sulla linea di fondo trascurando troppe opportunità interessanti: slice di dritto e di rovescio e venire a rete quando l’avversario non se lo aspetta. In un certo qual modo devo a lui tutte queste cose che mi hanno aiutato a vincere altri sei titoli dello Slam, nonostante il fatto che ci fosse una forte concorrenza a quel tempo.

Tu vincesti il secondo titolo qui nel 1985 nonostante Lendl fosse il favorito…
Gli Open di Francia del 1985 sono forse il mio titolo più importante. Prima di tutto per al qualità degli avversari: Thierry Tulasne per iniziare, Boris Becker al secondo turno, Tomas Smid ai sedicesimi, Henri Leconte ai quarti, John McEnroe in semi e Lendl in finale. Il tabellone difficile. Durante la finale ho totalmente cambiato la mia tattica per la prima volta, lasciando la linea di fondo per venire a rete. Andai a rete così tante volte. All’epoca, sulla terra, nessuno degli specialisti della superficie si prendeva quel rischio. Forse Victor Pecci, ma Pecci non poteva giocare sulla linea di fondo quindi doveva avanzare. Ma per uno con una reputazione da giocatore da fondo scegliere di andare a rete, sulla terra… Fu così inaspettato che funzionò. Dovetti aspettare altri tre anni prima di vincere un altro Slam (fa una smorfia). Ma ho scelto la via giusta per farlo. Ivan era diventato più forte di me da fondo campo, aveva iniziato ad infliggermi pesanti sconfitte, al Roland Garros, agli US Open… Avevo perso terreno e dovevo ritornare con qualcosa di diverso.

Hai affrontato Ivan Lendl in innumerevoli occasioni, soprattutto al Roland Garros dove voi due eravate i principali protagonisti durante gli anni ’80. Com’era la rivalità dal tuo punto di vista?
Ivan era il mio rivale principale e l’avversario più interessante che abbia mai incontrato. Molti hanno detto che i nostri match erano molto lenti ma parlando di tattica, fu la mia sfida più grande per quanto mi riguarda. Per prima cosa perché non mi interessa cosa pensano le persone, e poi perché quando giochi il meglio, è lì che il gioco comincia a diventare interessante. Giocare con Ivan o Vilas significava giocare lunghi incontri, i quali ti danno il tempo per pensare, lavorare sulla strategia e forse cambiarla durante il match. Era una cosa piuttosto intellettuale. Ricordo di aver visto Lendl giocare gli European Junior Championship in Repubblica Ceca nel 1978 sulla terra. Lui aveva 18 anni, io 14. E poi lo vidi tre anni dopo tirare fuori il meglio da Borg nella finale del Roland Garros. Egli fu il primo grande giocatore che battei durante la mia strada per il mio primo titolo a Parigi, e dopo ci affrontammo molte volte. Anche sull’erba in Australia, sul duro agli US Open, indoor nei Master… in pratica era la persona che stava nel mio specchietto retrovisore, colui che dovevo battere se volevo vincere il titolo. Quindi se guardi ai miei avversari all’inizio della mia carriera, lui è decisamente il più duro. Lui ha rappresentato una sfida per me; io dovevo sviluppare nuova abilità altrimenti sarei tornato a casa col piatto dello sconfitto. In questo modo la sua presenza fu una cosa positiva per me. Mi ha spinto a migliorarmi.

E tu credi di essere stato il suo rivale principale?
Non penso, no

Hai mai pensato che la tua rivalità fu l’unica ad essersi estesa per una decade dopo il ritiro di Borg e prima degli anni ’90 quando comparirono Sampras e Agassi?
Effettivamente è vero… Forse. Quello che so è che lui aveva paura di affrontarmi, perché sapeva che non mi stancavo mai e sarebbe stata una giornata lunga, che io gli avrei rimandato un sacco di palle e lo avrei obbligato a uscire dalla sua comfort zone. A lui non piaceva giocare con me ma io lo amavo. La soluzione era semplice: se lui non giocava bene io avevo una possibilità. Ho sempre avuto molto rispetto per Ivan, molto più di quanto gli hanno mostrato certe persone. È una persona buona.

Nel 1988 hai avuto un altro francese come ostacolo in finale: Henri Leconte. Ma questa volta vincesti…
In un certo modo quella fu la vittoria più aspettata tra i miei sette Slam. Tutti quanti dicevano che avrei battuto Henri. Avevo già vinto gli Australian Open quell’anno e sentivo che avrei potuto aggiungere il Roland Garros alla lista. Soprattutto quando Lendl perse presto nel torneo da Jonas Svensson, “Signor Drop-shot” (imita il colpo). Drop-shot, drop-shot e ancora drop-shot. Ma trovo ancora difficile analizzare la finale. La gente non capisce che se Henri avesse vinto il primo set, e ci andò parecchio vicino, ci sarebbero state buone possibilità che il match avrebbe avuto 5 set. E a quel punto, chi lo sa? Henri stava giocando estremamente bene all’epoca, e anche se io giocai un buon match e restai solido per tre set, Henri collassò del secondo set in poi.

Quel terzo titolo fu anche l’ultima volta che tu brillasti al Roland Garros. Avevi solo 24 anni, cosa accadde?
Quello rappresenta un momento della mia carriera come nella mia vita. Le cose non possono restare le stesse per sempre. Tu cresci, perdi le persone che ti sono state vicino, diventi tu stesso un padre… Le priorità cambiano e improvvisamente il tennis non ha la stessa importanza, non ti importa di vincere o perdere.

C’è stato anche Lockerbie*…
Sì, ma non mi piace parlarne, delle persone sono morte. Resta il fatto che dall’età di 15 anni il tennis è stato per me la cosa più importante nella mia vita, ma con l’andare avanti del tempo ero guidato più dalla vittoria che dal piacere di giocare, i risultati divennero più importanti del modo in cui giocavo. Quando divenni numero 1 nel 1988 avevo raggiunto il mio obiettivo e non avevo più motivazione per rimettermi in corsa. Quindi ho deciso di riscoprire il semplice piacere di colpire la palla e la sensazione quasi infantile di giocare un bel punto. Il risultato non era più l’aspetto principale. Questi anni mi hanno aiutato a crescere, sono stati una parte importante per la mia vita e la mia carriera anche se non si può misurare in termini di titoli vinti. Ho imparato molto quando il mio status è cambiato da star a un giocatore qualunque. E credo di aver guadagnato il rispetto delle persone comportandomi allo stesso modo sia quando ero al centro dell’attenzione che dietro le quinte.

Quindi se dovessi scegliere un ricordo dei tuoi ultimi Open di Francia quando non guardavi più alla vittoria, quale sarebbe?
Il mio ricordo preferito come giocatore viene dalla seconda parte della mia carriera, verso la fine a dir la verità. Siamo nel 1995. Ho perso da Wayne Ferreira sul Suzanne-Lenglen 8-6 al quinto. Abbiamo giocato per circa 5 ore, ho solo il tempo per tornare negli spogliatoi, fare una doccia, mettermi un altro paio di pantaloncini, un t-shirt e tornare di nuovo in campo per il doppio con Karel Novacek. Battemmo Tomas Carbonell e Francisco Roig 15-12 al terzo! Ero esausto. Tornai nello spogliatoio ed erano tutti in piedi ad applaudirmi, urlando “Ben fatto, Mats!” Devo dire che mi tolse il fiato. Un primo turno perso e un primo turno vinto… non aveva importanza, è stato bello ed andò oltre il futile concetto di risultato. Tutto ciò che ricordo sono i ragazzi intorno a me che si congratulano.

 

*Nel 1982, l’ATP e la International Tennis Federation introdussero una regola che richiedeva ad ogni giocatore di prendere parte ad almeno 10 tornei all’anno più gli Slam. Tuttavia Bjorn Borg annunciò che ci sarebbero stati solo 7 tornei nel suo calendario per il 1982. La nuova regola lo obbligava a passare per le qualificazioni a Monte Carlo, e dunque lo svedese pose fine alla controversia dicendo che non avrebbe più giocato quella stagione. Successivamente, annunciò il suo ritiro.

*Il 21 dicembre 1988 Mats Wilander doveva volare sul Pan Am Boeing 747 che si abbatté sul paese scozzese Lockerbie. Tuttavia lui aveva un infortunio alla gamba e per riposarsi qualche giorno in più, cambio volo.

 

Traduzione a cura di Paolo Di Lorito

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