Robonole raccontato da Nole

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Robonole raccontato da Nole

Nole e RoboNole sono la stessa persona oppure no? Che cosa succede nella testa di Novak Djokovic quando domina qualunque avversario? E quando scopre il sapore della sconfitta?

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La prima volta che lo incontrai, capii subito che razza di tipo era. “Tu sei il più forte e ancora non lo sai”, mi disse. E invece sì che lo sapevo, solo che non riuscivo ad aggiustare il puzzle e quei due là mi complicavano maledettamente le cose. Ma per lui non erano loro il problema, ero io. Mi fidai. Era così sicuro di sé, così fiducioso, così sfrontato: impossibile guardarlo negli occhi e non provare della riverenza. Quando mi guardò dritto negli occhi e aggiunse: “Io e te diventeremo i più forti di tutti” non potei far altro che dire: “Sì”.

Aveva ragione lui. Eravamo i più forti. Cominciammo a lavorare. Dall’alba al tramonto, a volte anche oltre, il tennis e il numero uno erano sopra ad ogni pensiero. Costruivo, mattone dopo mattone, il Novak Djokovic che avevo sempre sognato. Vincente, dominante, imbattibile. Quando cominciai a vincere con così tanta facilità, rimasi sorpreso. Non mi aspettavo che le vittorie fossero a portata di mano. Avevo dimenticato quanto fosse facile. Ma lui non era affatto sorpreso. Anzi, era sorpreso della mia sorpresa e me lo rimproverava: “Queste vittorie non sono l’eccezione, sono la normalità. Ti ci dovrai abituare”. E vittoria dopo vittoria, settimana dopo settimana, mi cominciai davvero ad abituare. Scendevo in campo e il mio avversario sapeva già che avrebbe perso. Anzi, sapeva già che io avrei vinto. E anche quei due là si dovettero adeguare. Furono cinque mesi che scivolarono via velocemente. Lui mi diceva cosa dovevo fare e io lo facevo. Era tutto così facile, così perfettamente chiaro e limpido che scendere in campo diventava rilassante.

Quello che lui non mi aveva spiegato – e che io avevo colpevolmente dimenticato – è che non si può vincere sempre, nemmeno se sei Novak Djokovic. Forse lui nemmeno concepiva questa opzione, tanto era accecato dalla voglia di primeggiare. Però accadde. E accadde in una maniera così violenta ed inspiegabile che per qualche giorno non riuscivo nemmeno a sentire cosa mi diceva. Fu quella la svolta del nostro rapporto: perché quell’anno continuai a vincere a ripetizione ed erano finalmente quegli altri due a dovermi guardare mentre mi specchiavo nei miei amati trofei, ma da settembre mi dovetti praticamente fermare perché il peso di quelle vittorie mi stava schiacciando pian piano. Non osavo dirglielo, ma vincere era stancante per il fisico e per la testa. Lui non avrebbe mai capito quello che provavo e perciò non mi rimase altra opzione che riprendere a vincere.

 

In Australia, dove tutto era cominciato, chiusi un cerchio lungo dodici mesi. Non erano stati dodici mesi di sole vittorie, naturalmente, ma quando guardai il mio avversario, mentre sedevamo stremati dopo la partita più lunga della nostra vita, vidi nei suoi occhi un’ombra di rassegnazione e me ne rallegrai perché quell’ombra, io, l’avevo messa nel dimenticatoio. Lui me l’aveva detto: “Quando comincerai a vincere, non vorrai più smettere. E se gli altri non si faranno da parte, sarai tu a prenderti quello spazio”. L’unico spazio che mi mancava, ormai, era quello rosso parigino. Quasi uno spazio vitale. Lui mi continuava a dire che Parigi sarebbe stata mia e che gli altri non avrebbero potuto farci nulla. Ma Parigi è una città infida. È una città affascinante e misteriosa, sfuggevole e maliziosa. Non l’ho mai capita, Parigi, e forse lei non ha mai capito me, gli dissi, dopo una sconfitta che non avevo messo in conto. “Tutte scuse!” mi disse lui, incazzatissimo come non l’avevo mai visto, fuori di sé per colpa di una variabile impazzita che lui non riesce a calcolare nell’equazione della sua mentalità: un avversario più forte. Io, con il cervello ancora cotto, non riuscivo nemmeno a rispondere e non avevo coraggio di dirgli perché avevo perso. Lo sapevo, ma lui non lo avrebbe mai capito.

Da allora, Parigi è stata al centro dei miei pensieri come nessun’altra città. Io e lui abbiamo lavorato con quel solo obiettivo in testa. Mi ripeteva che non avrei più sbagliato, che il mio tempo sarebbe arrivato e che finalmente avrei avuto quello che già mi apparteneva di diritto.  Non ha mai contemplato l’errore, la debolezza e la rassegnazione. Ed è per questo che ogni volta che torno a Parigi sento che qualcosa mi opprime. È lui: la sua immensa voglia di vincere, il suo irresistibile bisogno di sopraffare l’avversario, l’irrinunciabile richiamo a completare una bacheca che si fa sempre più pesante, pesante quanto il dovere di vincere Parigi, opprimente quanto il rifiuto di fallire. L’ultima volta, a Parigi, è stata la più dolorosa. Per i primi giorni, lui ha cambiato tattica: se n’è rimasto in un angolo, roso dalla tensione e dalla consapevolezza che questa era la volta buona. Quando ho rimosso l’incubo che mi aveva fermato negli ultimi tre anni, però, non fu più possibile metterlo da parte. Da quel giorno fino alla finale, si insinuò nella mia testa come mai aveva fatto prima. Forse io ero più debole, fiaccato dal dovere di vincere, o forse lui era più forte, rinvigorito dalla fine delle maledizione. Fatto sta che per me fu impossibile liberarmene. E poi lo sappiamo benissimo entrambi che senza di lui non riuscirei a vincere.

Dopo aver vinto il primo set, come l’anno scorso, il frastuono di RoboNole diventa assordante. Lo sa che siamo vicini all’obiettivo ed è fuori di sé. La vittoria lo dopa come nessun altro stimolante riuscirebbe a fare. I suoi occhi si dilatano, il respiro diventa più pesante, i muscoli si gonfiano. Comincia a ricordarmi incessantemente che cosa stiamo raggiungendo e che cosa abbiamo fatto per ottenerlo. Provo a tapparmi le orecchie e a chiudere gli occhi, pensando solo a colpire la palla più forte, sempre più forte. Quello che ho dimenticato, però, è che c’è un altro tennista dall’altra parte della rete. E mentre io provo a schiacciare sull’acceleratore per non sentire il peso delle mie responsabilità, il mio avversario gioca sempre più sciolto. Il dubbio, che in queste due settimane non mi ha nemmeno sfiorato, comincia a fare capolino. Conosco quella sensazione perché qui a Parigi è diventata la compagna delle mie sconfitte, eppure non riesco a sconfiggerla. RoboNole urla sempre più forte, così come i colpi di Stan diventano sempre più veloci. Sembra un brutto sogno ed è invece realtà, come tutte le altre volte. Provo a ribellarmi, faccio di tutto per annullare quella sgradevole sensazione di ineluttabilità, eppure alla fine, come l’anno scorso e quello prima ancora, perdo. Lui è una furia, schiuma di rabbia come poche ore prima schiumava per una vittoria che gli sembrava di toccare e che è invece si è volatilizzata di nuovo. Ma io non lo sento.

Di quel giorno non mi è restata l’amarezza. Perché io, Nole, mi sono goduto quell’interminabile applauso che Parigi mi ha tributato. L’ho ripagata nell’unico modo che mi era possibile in quel momento, sorridendo mentre piangevo, rialzandomi invece di crollare. Mi sono goduto quell’ombra di successo perché so che la sconfitta non è un disonore e sebbene anche questa volta non abbia il trofeo con me, porto con me il calore di Parigi. Se anche RoboNole imparerà ad apprezzare la dolcezza di una sconfitta, la prossima volta vinceremo. Insieme.

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Match fixing, in Belgio riprende il processo alla rete criminale internazionale: sospetti su centinaia di match

Sull’Equipe le cifre impressionanti che risulterebbero dalle indagini degli inquirenti: complessivamente oltre otto milioni di euro

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Sull’Equipe di lunedì 21 marzo Alban Traquet è ritornato sulla vicenda dei match truccati e del processo all’organizzazione che avrebbe gestito scommesse e pagamenti. Una rete che vede accusato principale in un processo in corso in Belgio Grigor Sargsyan, detto “il Maestro”, personaggio a capo di una rete criminale armena che avrebbe approfittato delle falle del circuito internazionale per avvicinare e corrompere giocatori francesi e non.

Una piaga che si è propagata al di sotto dei radar e dei media (la maggior parte di questi tornei non sono ripresi dalla televisione) e grazie anche all’anonimato dei gradi più bassi del tennis professionistico. L’inchiesta avrebbe permesso di identificare, secondo l’accusa, 376 incontri sospetti tra il febbraio e il 2014 e il giugno del 2018, in una rete di corruttela che implicherebbe 182 giocatori di più paesi (alcune audizioni hanno avuto luogo in Belgio, in Francia, in Germania, in Slovacchia, Bulgaria e Stati Uniti) e l’apertura di 1671 conti per l’organizzazione criminale.

Presente all’apertura del processo, il 17 marzo presso il tribunale di Audenarde, in Belgio, Sargsyan, che ha scontato 8 mesi di carcerazione preventiva dopo l’arresto, continua a negare i fatti attribuitigli. Interrogato all’uscita del Palazzo di Giustizia, ha rotto brevemente il silenzio dichiarando: “i miei demoni per i soldi facili sono morti e sepolti. Mi rimetto alla giustizia”. La ripresa del dibattito è prevista per il giorno 24 marzo.

 

La vicenda ha avuto inizio nel 2015 dopo un segnale dato da più operatori all’interno della Commissione per i giochi d’azzardo, in Belgio. Gli attori principali sono tennisti dai bassissimi guadagni, in generale sotto la duecentesima posizione del ranking.

La vita di chi bazzica i tornei Challenger o Futures costa cara (alberghi, trasporti, pranzi) e non è granché redditizia. In queste condizioni può essere forte la tentazione di perdere un set o un game in cambio di qualche centinaia o migliaia di euro. Il pubblico ministero belga nelle sue conclusioni evoca “un esercito di soldati facilmente avvicinabili proprio per motivi di premi bassi e alti costi di partecipazione ai tornei”.

Tra questi soldati deboli ci sarebbero parecchi giocatori francesi. Alcuni sono già stati puniti come Mick Lescure e Jules Okala, sospesi a vita da dicembre. La testimonianza di uno di questi, interrogato nell’ambito dell’inchiesta francese sullo stesso argomento, ben figura nel dossier battezzato “Oryan”.

Il giocatore in questione ha spiegato di aver partecipato a dei match truccati su richiesta del “Maestro”, e che sarebbe ugualmente servito come intermediario tra Sargsyan e altri giocatori, servigio per il quale avrebbe ricevuto una somma di denaro. Avrebbe infine riconosciuto di avere ugualmente truccato dei match di doppio all’insaputa del suo compagno di squadra.

Ha poi raccontato dei pagamenti In banconote alla Gare du Nord a Parigi, all’aeroporto di Roissy o a Forest, a sud di Bruxelles. Ha parlato dei messaggi attraverso Telegram, dei codici utilizzati e delle tariffe: 400 euro per un game perduto in ogni set per il singolare, 2.000 euro per un match di doppio perduto in due set.

Gli inquirenti hanno analizzato minuziosamente le entrate sospette sul suo conto, e hanno trovato 40.000 euro da aprile 2016 a giugno 2018, soldi provenienti da 9 conti correnti diversi.

Il Parquet Federal ha concluso che più di 560000 euro “sporchi” sono stati redistribuiti ai giocatori coinvolti, in cambio dei loro favori “racchetta in mano”. Se la combine per qualche motivo non poteva essere effettuata, il giocatore implicato dichiarava forfait, annullando così la scommessa. In totale più di 8 milioni di euro sono transitati tra giugno 2016 e il marzo 2018 su un conto numerico utilizzato dell’accusato numero 2 nel dossier belga, Andranik M. , presunto responsabile finanziario della rete criminale.

Secondo le conclusioni dell’inchiesta Sargsyan utilizzava diversi metodi per evitare di essere smascherato. Tra marzo e agosto 2017 avrebbe utilizzato 18 numeri di telefono e 8 cellulari diversi, consegnando ai giocatori con cui comunicava diverse schede SIM.

Si sono costituite parte civile la ITF, l’ITIA (International Tennis Integrity Agency) e la FFT. “E’ un grosso affare, dentro il quale si possono trovare parecchie prove; ben organizzato e con tantissimo denaro circolante” – commenta il rappresentante dell’ITIA – “la punta di un iceberg, dalla quale si ha una buona vista d’assieme del fenomeno”.

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ATP

Insider Expeditions sceglie i fratelli McEnroe come icone per un viaggio in Tanzania

I fratelli McEnroe ambasciatori del tennis in Tanzania: la storia

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John McEnroe - Commissioner Eurosport

Un progetto di integrazione tra sport e conoscenza dei territori sarà attuato da Insider Expeditions nel prossimo dicembre. L’azienda, leader nell’organizzazione di viaggi internazionali per lavoro o divertimento, ha annunciato una partnership con John e Patrick McEnroe per portare queste due leggende del tennis in Tanzania. In collaborazione con il governo, i fratelli McEnroe saranno accompagnati da ben 120 appassionati di tennis durante uno speciale viaggio di otto giorni che includerà l’inaugurazione di un nuovo campo da tennis nella pianura di Serengeti.

“Siamo entusiasti di dare il benvenuto a John e Patrick McEnroe e ai loro ospiti in Tanzania per questo evento speciale di dicembre 2023”, ha affermato Samia Suluhu Hassan, la presidente della Tanzania. “Il nostro paese – prosegue – continua a crescere grazie a sforzi come questo, tesi a mettere in evidenza i territori e le tipicità locali. L’aggiunta di un elemento speciale come il tennis ci aiuterà anche nel diffondere altre discipline sportive oltre al calcio. Serve dare nuove possibilità ai giovani, fornire loro testimonianze di altri stili di vita . E’ il calcio a farla da padrone in quelle fasce d’età, ma ovviamente l’esperienza di queste leggende potrebbe aiutarci tantissimo a far crescere uno sport come il tennis”.

John McEnroe si dice entusiasta dell’iniziativa: “Io e la mia famiglia non vediamo l’ora di fare un viaggio molto emozionante in Tanzania, dove avremo la possibilità di far consocere il tennis ai giovani, probabilmente per la loro prima volta”.

 

Il viaggio di lusso includerà una partita di tennis tra i fratelli McEnroe nel mezzo del Serengeti, una delle destinazioni più iconiche dell’Africa. L’itinerario comprende i migliori parchi nazionali della Tanzania tra cui il cratere di Ngorongoro e il Serengeti che ospitano numerosi uccelli e rettili.

Fauna selvatica impareggiabile, culture locali e paesaggi mozzafiato si uniscono per produrre quella che viene spesso descritta come la vacanza da sogno. Realizzare questo percorso accanto a leggende del tennis arricchirà l’esperienza in maniera esponenziale.

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ATP

ATP Rotterdam: Omar Camporese nel 1991 unico italiano vincitore in Olanda, fu il primo titolo del bolognese

Prima di Jannik Sinner, solo il bolognese aveva raggiunto l’ultimo atto. Memorabile la finale vinta contro l’allora n. 3 mondiale Ivan Lendl. L’azzurro rimontò vincendo due tie-break consecutivi con tanto di match point cancellato nel terzo set

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Omar Camporese - Rotterdam 1991

Nella storia del torneo di Rotterdam (qui l’intero albo d’oro), denominato ufficialmente con la dicitura ABN AMRO Open e appartenente alla categoria dei ‘500’, solo un tennista azzurro si era spinto sino all’ultimo atto prima di Jannik Sinnercome abbiamo già ricordato anche sulla nostra pagina Instagram. Si tratta di Omar Camporese, al quale non solo l’impresa nel 1991 riuscì ma addirittura fu enfatizzata dalla conquista del titolo. Per il bolognese, quella in terra olandese fu la seconda finale della carriera a livello ATP; la prima l’aveva disputata un anno prima vicino casa a San Marino perdendola contro l’argentino – nativo di Tandil come Juan Martin Del Potro – Guillermo Perez-Roldan. Successivamente, l’ex n. 18 ATP – suo best ranking – ottenne fino al termine della sua vita di professionista della racchetta – che appese nel 2001- una sola altra finale: nel febbraio del 1992, quando a Milano sconfisse Goran Ivanisevic alzando al cielo meneghino il secondo ed ultimo trofeo della sua carriera.

All’inizio dell’evento orange, Omar era n. 54 del ranking mondiale: vinse il primo turno in tre parziali contro il tedesco Eric Jelen, a cui invece seguirono due successi senza perdere set ai danni dell’austriaco Alex Antonitsch e del ceco Karel Novacek. Dopodiché fu la volta della grande battaglia in semifinale con l’idolo di casa Paul Haarhuis, che attualmente ricopre il ruolo di Capitano di Coppa Davis dei tulipani, sconfitto al tie-break del terzo.

 

In finale ad attenderlo, c’era il n. 3 del mondo e prima testa di serie del tabellone Ivan Lendl, già vincitore delle sue 8 prove dello Slam: l’ultima nel 1990 in Australia contro Stefan Edberg. Perso il primo set, Camporese vinse il secondo 7 punti a 4 nel sempre dirimente dodicesimo gioco ed infine dopo aver anche cancellato un match point sul 5-4 e servizio; si aggiudicò pure il tie-break finale – ancora per 7-4 – che suggellò il suo primo storico trionfo in carriera sublimato dall’essersi dimostrato superiore nel confronto, valevole per il titolo, con uno dei mostri sacri della storia di questo sport.

Ma soprattutto, quello storico successo italico maturato a Rotterdam 32 anni fa assunse connotati emotivamente ancora più intensi grazie alle voci che accompagnarono le gesta di Camporese nel suo straordinario cammino e che fanno riecheggiare tutt’oggi il ricordo delle emozioni vissute nel cuore di quelli appassionati che ebbero la fortuna di poter assistete all’evento o che l’hanno recuperato successivamente tramite la piattaforma di YouTube – per quei pochi che non l’avessero fatto, potrete rimediare a fine articolo -. Al commento, infatti, di quell’incredibile finale contro il campione ceco in postazione telecronaca, rigorosamente dal vivo sul posto e non da tubo – come si suol dire in gergo giornalistico – per Tele+ c’erano il Direttore di Ubitennis Ubaldo Scanagatta e il compianto Roberto Lombardi.

(match completo con commento lo trovate nel video in basso)

I followers Instagram di Ubitennis potranno seguire il “Punto di Ubaldo” in un minuto a caldo appena conclusa la finale odierna.
Circa 30 minuti dopo la conclusione, Ubitennis pubblicherà sul sito e sul canale YouTube di Ubitennis un commento più articolato del direttore.

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