Le contraddizioni pseudo-ideologiche del tennis: potere al popolo o al mercato?

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Le contraddizioni pseudo-ideologiche del tennis: potere al popolo o al mercato?

Caroline Wozniacki ha dichiarato apertamente di essere scesa in campo a Toronto solo perché obbligata dal regolamento WTA. Il problema si trascina da anni: meglio imporre alle giocatrici i tornei cui partecipare o lasciare libera scelta in modo da favorire una preparazione sempre al top?

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La scorsa settimana Caroline Wozniacki ha duramente attaccato la WTA per essere stata “costretta” a scendere in campo a Toronto, reduce dal problema al polpaccio avvertito al torneo di Stanford. La tennista danese ha criticato l’obbligo per le top-10 da parte dell’organizzazione che sovrintende il tennis femminile di prendere parte ad almeno quattro dei cinque tornei Premier 5 (i Premier 5 sono Dubai, Roma, Toronto o Montreal – alternativamente a seconda degli anni –, Cincinnati e Wuhan), pena multa e sanzioni legate a stampa e sponsor, più ai quattro tornei Premier Mandatory (di categoria superiore ai Premier 5: stiamo parlando di Indian Wells, Miami, Madrid e Pechino).

Ci chiedono di essere sempre al top, ed è la condizione in cui vorrei essere ogni volta che partecipo a un torneo, ma se devi prendere parte a tutti i tornei non puoi allenarti come dovresti e allora è difficile essere sempre al massimo della forma. In questo modo non si offre al pubblico uno spettacolo all’altezza. A Toronto sono scesa in campo dopo una sola settimana di allenamento e infatti non sono stata in grado di offrire una performance adeguata, dovendo peraltro rinunciare forzosamente ai WTA International”.

Se Caroline non fosse scesa in campo, sarebbe incorsa in una multa di 25.000 dollari. Fermo restando che chi ottempera a quest’obbligo WTA, cioè partecipa ad almeno quattro Premier 5, riceve un bonus di 100.000 dollari (che diventano 125.000 se li fa tutti e cinque), il lamento della Wozniacki risolleva l’annosa questione del sovraffollamento del calendario, dinnanzi alla quale si contrappongono due fazioni. Da una parte, chi pensa che le giocatrici di vertice sono professioniste lautamente pagate ed è giusto privilegiare i tornei più importanti imponendo la partecipazione delle giocatrici migliori, dall’altra chi sostiene che l’obbligo di partecipazione a troppi tornei garantisce sì la partecipazione delle tenniste più forti, ma a scapito della qualità del gioco per l’impossibilità di queste di programmare nella maniera migliore la loro preparazione. Chi ha ragione? Se ce l’avesse “il partito della Wozniacki”, ovvero “il partito del popolo dei giocatori“, assisteremmo a tornei in cui chi scende in campo sarebbe al massimo della forma ma spesso si troverebbe ad affrontare giocatrici di livello inferiore e lo spettacolo ne risentirebbe comunque. Se invece è nel giusto “il partito del professionismo”, per il quale ‘sei una professionista e non ti devi lamentare, cioè quello che di fatto sta dettando la linea, assistiamo non di rado a match in cui alcune giocatrici non sono al top e perdono di netto, oppure ai soliti certificati medici che derogano le tenniste da un torneo cui dovrebbero prendere parte, facendo mancare comunque la loro presenza.

La soluzione che metterebbe d’accordo tutti è programmare i migliori tornei in un modo più attento, senza costringere le migliori tenniste a spostarsi da un capo all’altro del mondo da un torneo a quello successivo. Soluzione che suona tanto di mondo perfetto, d’Iperuranio platonico nel quale la migliore programmazione delle giocatrici coincide con quella fissata per i tornei più importanti. Ma ogni giocatrice ha esigenze diverse in funzione della superficie a lei più congeniale e dei tornei nei quali deve difendere i punti WTA raccolti nella stagione precedente, senza contare l’appetibilità dei prize-money. Ecco allora che la dittatura del proletariato tennistico (laddove parlare di proletariato riferendosi a giocatrici professioniste milionarie autorizza chi legge a venire a cercare il sottoscritto, che si consegnerebbe senza opporre resistenza…) scatenerebbe la creazione di tornei giocati sempre dalle stesse giocatrici, magari di livello diverso, facendo implodere su se stessa la tesi della programmazione perfetta. Dall’altra parte, il partito liberista, sensibile alla logica della banconota, non è sempre sinonimo di spettacolo assicurato, nella misura in cui costringe le tenniste a forzare la propria preparazione deprimendo la qualità dello spettacolo.

Comunque la si guardi, la matassa non è così semplice da sbrogliare. Del resto, la politica e le ideologie hanno sempre fatto litigare cittadini, intellettuali e filosofi. Anche nel tennis, le discussioni non avranno mai fine: è il sale della democrazia o la desolante constatazione che l’equilibrio tra interessi economici, spettacolo e merito non troverà mai una sintesi finale?
Ma soprattutto, era così necessario coinvolgere i sotterfugi e le bassezze della politica nello sport che tutti amiamo…?

 

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