La formula del Masters, assurda e logica allo stesso tempo

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La formula del Masters, assurda e logica allo stesso tempo

Dai tempi di Ivan Lendl e Jimmy Connors a quelli di Simona Halep e Serena Williams, con alcuni episodi controversi il Masters ha spesso fatto discutere per la sua formula anomala. Esistono soluzioni migliori?

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Per capire le ragioni della formula del Masters credo occorra innanzitutto un po’ di storia. Storia estremamente sommaria, perché per entrare nel dettaglio dell’evoluzione del torneo ci vorrebbe ben altro spazio. Bisogna tornare all’inizio degli anni settanta, quando l’ATP (fondata nel 1972) e la WTA (1973) erano ancora organizzazioni embrionali.
Al momento della riunione tra professionisti e dilettanti in un circuito aperto a tutti, la situazione era in continua evoluzione. Oggi il calendario è chiaramente definito, con tornei obbligatori (i Masters 1000 per gli uomini, i Premier Mandatory e i Premier 5 per le donne) in cui tutti i migliori si incontrano regolarmente; ma nella fase iniziale del circuito open gli eventi erano spesso in concorrenza gli uni con gli altri: gli organizzatori si contendevano i giocatori più conosciuti a suon di ingaggi che finivano per sparpagliare la presenza dei più forti. Così per lunghi tratti di stagione non tutti i migliori si incrociavano fra loro, a volte addirittura impegnati in continenti differenti.

Il Masters (prima edizione nel 1970) venne organizzato riprendendo una impostazione tipica dei tornei professionistici: pochi giocatori, ma tutti di alto livello. A differenza dei tornei pro, il criterio di ammissione utilizzato divenne presto oggettivo: basato sulla classifica, definita settimana dopo settimana attraverso i tornei riconosciuti da ATP e WTA (le prime classifiche ufficiali sono del 1973 e del 1975).
Selezionando i partecipanti in questo modo, l’associazione giocatori affermava la propria centralità (il ranking dipende da ATP e WTA), e contemporaneamente soddisfaceva la domanda di incontri tra i più forti: chi comprava il biglietto in anticipo poteva essere certo che, almeno sulla carta, avrebbe assistito a partite di primissima qualità.

C’è un altro aspetto da sottolineare a proposito di questa scelta: evitando intelligentemente di competere sullo stesso terreno con la storia e la tradizione degli Slam (che dipendono dalla ITF, la federazione tennis internazionale), si proponeva un’offerta del tutto differente, che si potrebbe sintetizzare con lo slogan “qualità invece che quantità”. Gli Slam hanno al via 128 giocatori? Allora il Masters ne schiererà solo 8, ma i migliori in assoluto. Il prestigio verrà raggiunto basandosi sulla massima esclusività. È questa la caratteristica fondamentale del torneo.
(Anche in questo caso sintetizzo: in realtà ci sono volute alcune edizioni di assestamento: la prima aveva 6 partecipanti, la seconda 7, ma si è arrivati anche a 16; però alla fine l’impostazione che ha prevalso è quella che prevede al via otto giocatori, sia per gli uomini che per le donne).

Queste sono le premesse storiche, che però hanno anche dentro di sé un problema difficilmente risolvibile: appunto quello della formula del torneo.
Con soli otto giocatori al via, solamente la competizione a gironi (round robin in inglese) garantisce come minimo tre match a tutti i partecipanti, per un totale di 15 partite. Ma la formula non è perfetta: l’ultima partita del girone può diventare superflua, o addirittura in alcune situazioni a un giocatore potrebbe convenire perderla, ad esempio per non sprecare energie in un match irrilevante o per eliminare un avversario considerato scomodo.

Nella storia dei Masters questa possibilità si è presentata diverse volte, e non occorre andare indietro nel tempo per ricordare una delle più discusse, quella capitata a Simona Halep nel 2014: per la combinazione dei risultati precedenti, anche se avesse perso in due set l’ultimo match di round robin contro Ana Ivanovic si sarebbe qualificata comunque, e avrebbe eliminato Serena Williams.
Chi legge Ubitennis da almeno un anno ricorderà che allora si erano formati due partiti: da una parte chi sosteneva che Halep avrebbe fatto bene a perdere volontariamente per aumentare le proprie chance di conquistare il torneo (“nello sport lo scopo è vincere, e con le vittorie precedenti si è assicurata la possibilità di decidere l’avversaria più conveniente in vista dell’obiettivo finale”).
Dall’altra chi sosteneva che Halep dovesse cercare di aggiudicarsi comunque anche la terza partita (“nello sport, per un fondamentale principio di lealtà, è obbligatorio giocare al massimo tutti i match con l’obiettivo di vincerli, anche se questo potrebbe risultare non conveniente”). Per quanto possa interessare: personalmente propendo per la seconda tesi, ma capisco che un giocatore prenda anche altre decisioni.

E siccome stiamo parlando di tennisti professionisti, segnalo che ci sarebbe potuta essere una ulteriore motivazione: se Halep avesse perso il match in due set, avrebbe fatto un favore anche al proprio sponsor; avrebbe infatti promosso Ana Ivanovic, giocatrice Adidas come lei, eliminando una avversaria Nike (Serena Williams). In questo modo in semifinale sarebbero arrivate tre giocatrici Adidas (Halep, Ivanovic, Wozniacki) e una Lotto (Radwanska). E sarebbero state eliminate le quattro giocatrici Nike (Williams, Bouchard, Sharapova, Kvitova).
Halep però decise di non fare calcoli, e nemmeno entrarono in gioco eventuali interessi dello sponsor: perse sì, ma in tre set (7-6, 3-6, 6-3), salvando Serena. Che finì per aggiudicarsi il torneo.

Ma non sempre è andata in questo modo: in passato ci sono stati giocatori che hanno perso (volontariamente?) l’ultimo match del girone a qualificazione acquisita. Famoso il caso del Masters 1980 (giocato in realtà nel gennaio 1981), in cui si verificarono situazioni che fecero discutere, mettendo in dubbio la validità del format.
Bjorn Borg aveva vinto un incontro tesissimo contro McEnroe (6-4, 6-7, 7-6, partita in cui Borg per contestare una chiamata stette fermo quattro minuti sotto il seggiolone arbitrale, subendo due penalty point); con quella vittoria era ormai promosso, anche se doveva ancora disputare il terzo match del girone: fu battuto molto nettamente da Gene Mayer (6-0, 6-3).
A quel punto nell’altro gruppo rimaneva da giocare Lendl contro Connors.
Per effetto della vittoria di Mayer, chi avesse perso tra Ivan e Jimbo avrebbe evitato Borg in semifinale: vinse Connors 7-6, 6-1. Lendl affrontò quindi Gene Mayer, vincendo; e Borg toccò a Connors, che perse. In finale Lendl fu sconfitto da Borg.
Borg, dopo avere raccolto tre soli game contro Mayer, disse: “Ho cercato di fare il massimo, ma non avevo niente da dare”. Lendl spiegò la sconfitta contro Connors, e in particolare il quasi cappotto nel secondo set come la conseguenza di un “cambio di tattica che non ha funzionato”. Connors invece, alla domanda se Lendl avesse perso apposta, replicò a suo modo: “Non ho intenzione di darvi una risposta” e intanto faceva sì con la testa. E poi definì Ivan un “chicken“.

È evidente che la formula a round robin ha connaturati questi problemi, e non sembrano essere sufficienti i punti in palio e la differenza del premio in denaro tra chi vince e perde il singolo match a cancellare i sospetti.

E quindi? Quali possono essere le alternative?
C’è chi sostiene sia comunque meglio, anche con soli otto partecipanti, affidarsi all’eliminazione diretta: una manifestazione breve, ma senza ombre e sospetti. Ma quanto può reggere in termini economici e di spettacolo un torneo di sole sette partite? I costi organizzativi sarebbero male ammortizzati, la presenza di grandi protagonisti poco valorizzata (quattro giocatori disputerebbero appena un match); e nella sua assoluta brevità un torneo del genere rischierebbe di non riuscire a costituirsi come un evento in grado di essere raccontato con il giusto respiro dai media.

C’è chi propende sempre per l’eliminazione diretta, ma con sedici giocatori (già utilizzata in passato sia dagli uomini sia, soprattutto, dalle donne). Anche in questo caso non mancano le obiezioni: allargando i partecipanti ai primi 16 la qualità media delle partite si abbassa; e l’esclusività, che è la caratteristica fondamentale del torneo, viene annacquata; in fondo oggi al Masters ogni partita, anche quella che sulla carta può apparire meno interessante, è comunque uno scontro tra top ten. E la fase di selezione, la cosiddetta Race, finirebbe per essere sminuita nel momento in cui la soglia di accesso si abbassa drasticamente.

Sembra dunque impossibile trovare una formula che possa soddisfare del tutto.
Personalmente preferisco ancora la soluzione attuale. Non la considero certo perfetta, né un modello da utilizzare altre volte in stagione, ma se teniamo presenti le premesse storiche penso che in via eccezionale valga la pena di sacrificare lo spirito dell’eliminazione diretta a vantaggio dell’esclusività dei partecipanti, attraverso un torneo comunque in grado di occupare una intera settimana.
Per quanto mi riguarda, e per una sola volta all’anno, finisco anche per apprezzare i conteggi al limite dell’assurdo che a volte sono necessari quando ci si trova con più contendenti a parità di vittorie. Ricordo a questo proposito come nel 2009 arrivarono talmente vicini Federer, Del Potro e Murray che fu addirittura un solo game a fare la differenza tra Del Potro e Murray, eliminato.

Allora tutto dovrebbe rimanere così com’è?
Se dipendesse da me, alla formula attuale farei una piccola modifica: introdurrei il giorno di riposo tra la fase a gironi e le semifinali. In alcune situazioni è troppo avvantaggiato chi non gioca l’ultimo giorno (perché il suo girone si è concluso prima) e si trova poi di fronte qualcuno che magari ha lottato sino a qualche ora prima per raggiungere la semifinale.
Ricordo ad esempio Radwanska nel 2012 finire esausta il proprio round robin (dopo un match decisivo di 3 ore e 29 minuti contro Sara Errani vinto 6-7, 7-5, 6-4) poi obbligata a giocare dopo poche ore contro Serena Williams che invece era reduce da un giorno di riposo, proprio perché per calendario aveva iniziato prima.
Non solo: avere 24 ore in più per recuperare limiterebbe sostanzialmente anche il rischio di scarso impegno nel terzo match da parte di chi è già matematicamente qualificato e si preoccupa di non sprecare energie.

Questa è la mia posizione, ma mi rendo conto che i detrattori dell’attuale formula hanno ottimi argomenti per rifiutare il principio del round robin e desiderare che il tennis non tradisca mai un aspetto fondamentale, quello dell’eliminazione diretta: chi vince un torneo deve sempre farlo da imbattuto, e chi perde è fuori.

P.S. Ringrazio Mario T, che ha segnalato un errore nella prima stesura dell’articolo in cui avevo scritto che Halep aveva vinto il suo match contro Ivanovic. Ora il dato dovrebbe essere esatto.

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