La Schiavone fallisce il record di Slam consecutivi. Fa bene a continuare? Assolutamente sì

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La Schiavone fallisce il record di Slam consecutivi. Fa bene a continuare? Assolutamente sì

L’ennesima delusione dell’ultima parte di carriera di Francesca Schiavone suggerirebbe un ritiro per evitare altre dolorose sconfitte, che ne offuscherebbero i giorni da campionessa vera. Una come lei però è ancora capace di giornate memorabili: davvero ne faremmo a meno?

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Che peccato Francesca, con tutto quello che ci hai messo per tentare l’impresa, cuore, orgoglio, passione, fatica e molto altro, te lo saresti davvero meritato. La sconfitta al secondo turno delle qualificazioni dell’Australian Open contro la francese Virginie Razzano, avversaria esperta ma tranquillamente alla portata, ha spento il sogno di eguagliare il record della giapponese Ai Sugiyama a 62 Slam consecutivi disputati, con la pressoché certa prospettiva di superarlo al Roland Garros (dove se necessario gli organizzatori avrebbero immediatamente concesso una wild card a una ex-campionessa del torneo). Un boccone amarissimo da mandare giù, specie in una fase finale della carriera in cui le soddisfazioni sono davvero poche e le delusioni veramente tante.

A questo punto ritorna la domanda che già da qualche tempo serpeggia tra gli appassionati e i tifosi: davvero fa bene la Schiavone a continuare imperterrita la sua lunghissima e malinconica parabola discendente? Non rischia di lasciare un ultimo ricordo sbiadito e sofferente, capace di offuscare in parte le sue gesta più grandi? Proprio lei, la prima italiana della Storia a conquistare una prova del Grande Slam al Roland Garros 2010. D’accordo la passione, quell’inarrestabile voglia di calcare l’amata terra rossa, di salutare e magari regalare ancora qualche emozione al pubblico di Roma e a quello di Parigi, di far vedere che può ancora trovare colpi e soluzioni tattiche ignote alle prime del mondo. O anche, più semplicemente, la passione e l’amore incondizionati per questo sport, talmente forti da farle superare delusioni sempre più frequenti, pur di continuare ad assaporare il gusto della sfida, il trasporto di chi è sugli spalti, la mania di controllare la tensione delle corde prima del match, la gioia più pura di giocare a tennis nel modo (anzi nei molti modi) che poche altre sanno fare. Tutto ampiamente comprensibile, ma non basta: il campione non può appellarsi solo alla passione, anche se continua a divertirsi un mondo deve saper essere “meno egoista” degli altri e capire quando è ora di lasciare. Per chi ha dato gioie così grandi il modo migliore di smettere è proprio all’apice della carriera o quasi, proprio perché altrimenti è altissimo il rischio sciagurato di lasciare nei tifosi un ricordo crepuscolare e triste, che di certo non cancella le imprese più belle ma, proprio per la presenza di queste, l’immagine di una Schiavone triste e delusa, che ben che vada passa solo il primo turno dei tornei maggiori, è una mazzata micidiale, che lei per prima non merita.

L’immagine irripetibile dell’italiana che solleva la Coppa dei Moschettieri con un sorriso raggiante, quella epica di Francesca all’Australian Open 2011 che batte Svetlana Kuznetsova dopo una battaglia di 4 ore e 44 minuti 16-14 al terzo set, dopo aver annullato 6 match point a suon di vincenti, diventando la giocatrice italiana col ranking più alto di sempre (n.4 WTA, record tuttora imbattuto), anche quella della milanese che sempre nel 2011 a Parigi torna di nuovo in finale, dimostrando che il titolo dell’anno prima non era certo frutto di un tabellone fortunato, come possono conciliarsi con la Schiavone di oggi, che fuori dalle prime 100 perde spesso da giocatrici molto più indietro di lei (la Razzano è la n.209 del mondo, l’azzurra n.115)?

Chi scrive la ricorda da inviato allo scorso US Open, quando relegata come conferenza stampa in un minuscolo tavolino con tre sedie era circondata da noi giornalisti italiani e il suo volto faceva trasparire in tutta la sua evidenza l’immane delusione per l’eliminazione al primo turno (battuta nettamente da Yanina Wickmayer). A fare più male, a suscitare vero dolore nel cuore di chi l’ha tifata e ammirata, erano il tono dimesso e gli occhi bassi e spenti, quasi rassegnati: ma è davvero questa la Leonessa? Un’immagine durissima da digerire, tanto è vero che la mente del sottoscritto ne ha rimosso molti dettagli.

Non ha forse fatto meglio Flavia Pennetta, che dopo 4 Fed Cup, dopo essere stata la prima italiana di sempre a entrare nelle prime 10 (nel 2009 dopo gli US Open), dopo aver conquistato il Premier Mandatory di Indian Wells nel 2014, dopo aver compiuto l’impresa più bella e insperata con il trionfo a Flushing Meadows l’anno scorso, ha preferito smettere sul più bello? Per fare un piccolo parallelo con un altro sport, anche Alberto Tomba secondo molti avrebbe dovuto fermarsi prima di quando l’ha fatto (nel ‘98), magari nel ’96 dopo le due medaglie d’oro ai Mondiali in Sierra Nevada sia in slalom speciale che in slalom gigante, unici due successi che ancora mancavano alla sua eccezionale bacheca. Probabilmente negli ultimi anni lo pensava anche lui stesso, che ha però avuto la bravura e la fortuna di chiudere comunque da vincitore, aggiudicandosi l’ultima gara della stagione di Coppa del Mondo del ’98 a Crans-Montana: l’Albertone nazionale, disteso sulla neve, pianse come fosse stata la sua prima vittoria e forse quella gioia, così apparentemente esagerata e certamente insolita per chi era abituato a esultare in modo ben più esuberante, era proprio figlia della felicità di lasciare da vincitore.

Tutto giusto, ma nonostante questo Francesca Schiavone fa benissimo a continuare a giocare. Non solo per arrivare al Roland Garros, dopo aver salutato il pubblico del Foro Italico, disputando si spera due tornei all’altezza del suo nome sulla superficie prediletta, ma anche oltre. Non all’infinito, ma almeno tutta questa stagione e se il fisico e la passione saranno d’accordo anche la prossima. A questo punto il lettore penserà a una palese contraddizione con tutto quanto sostenuto finora, ma non è così perché la Schiavone può permettersi un deroga alla “regola del campione altruista”, quello che rinuncia al divertimento che ancora prova in nome di conservare perfettamente inalterato il ricordo degli appassionati. Chiaramente la milanese non può più ambire ai risultati di un tempo, ma in alcune giornate è ancora capace di imprese epiche, come le 3 ore e 50 minuti contro la Kuznetsova al RG 2015 (curiosamente la stessa avversaria dell’ottavo di finale di Melbourne 2011, del resto un’impresa per essere tale non può avere solo una lunga durata o bei colpi vincenti, ma anche dall’altra parte della rete una grande giocatrice, campionessa a Porte d’Auteuil nel 2009), 10-8 al terzo con match point annullato. Il match dello scorso anno (parliamo di meno di 8 mesi fa) racconta benissimo cosa significhi vivere un match epico di Francesca Schiavone: livelli qualitativi altissimi, alternanza di colpi ormai rarissima tra rovesci lungo linea perfetti, smorzate, gioco di volo e soprattutto la classe cristallina di chi sa giocare al meglio i punti vitali: match point annullato con un rovescio lungo linea di controbalzo seguito da una volèe a rete, poi match point a suo favore ottenuto con un dritto in ciop favoloso. È vero che più passa il tempo più è difficile aspettarsi un livello di quella levatura, ma colpi, soluzioni tattiche e battaglie indimenticabili, se pur solo per un giorno, la milanese ce le può ancora regalare. Tuttora in certe giornate la Schiavone torna ancora la Leonessa, gioca match da cuore in gola mettendo in mostra la sapienza tattica e il vastissimo bagaglio tecnico che sono immuni allo scorrere del tempo (perché a questi livelli, soprattutto se vai per le 36 primavere, il cuore e l’orgoglio sono imprescindibili ma non saranno mai da soli sufficienti, neanche per l’impresa di un giorno). Lo aveva confermato lei stessa nel post-partita con la russa l’anno scorso a Parigi: “Penso che ogni partita sia una grande storia per me”.

Lo stesso discorso vale, tra gli altri, per uno come Tommy Haas, che il prossimo 3 Aprile soffierà su una torta da 37 candeline, è professionista dal 1996 (ossia 20 anni fa!), è stato nel 2002 n.2 del mondo e, tanto per intenderci, ha centrato a 35 anni i quarti di finale al Roland Garros 2013 (perse da Djokovic, allora n.1, che aveva due mesi prima battuto agli ottavi di Miami), prima di estromettere da Wimbledon uno specialista del gioco di volo come Feliciano Lopez al terzo turno e di far vedere le streghe a Federer nella finale di Halle e soprattutto a Cincinnati (perse al terzo turno in tre set, gli ultimi due molto tirati). Nel 2014 a Roma ha regolato l’allora n.3 Wawrinka al terzo turno, poi è visibilmente calato, ma non è lecito aspettarsi da uno così un’altra grande giornata?

Davvero, in nome dell’importanza – peraltro in molti casi corretta – di lasciare al top della carriera, faremmo a meno di gente come Schiavone e Haas e dei tanti canti del cigno che ci hanno regalato (perché con questi incalliti innamorati del tennis e dotati di grande tecnica il bello è anche che a quello che sembra il canto del cigno, l’ultima grande impresa della loro lunga carriera, ne fa seguito un altro, poi un altro ancora…)? Queste prove indimenticabili hanno come contropartita non indifferente una miriade di match incolori, trascinati e persi anche con carneadi mai sentiti e che mai risentiremo. Ne vale la pena? Il bilancio resta in positivo? Vivaddio sì, tutta la vita: il dolore per le inopinate sconfitte non sarà mai superiore alle prodezze inattese, ormai insperate, che come tali ci entusiasmano ancora di più oltre a consentirci a pieno titolo un tuffo nel passato più glorioso, come se per un giorno anche il tiranno Crono, campione di crudeltà senza eccezione alcuna, s’inchini al fascino e alle palpitazioni che solo grandi interpreti dello sport possono regalare. Davvero, vai avanti Francesca!

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