Il brutto pasticcio di Maria Sharapova

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Il brutto pasticcio di Maria Sharapova

Il mondo del tennis è sotto shock dopo le rivelazione di ieri di Maria Sharapova a proposito dell’uso di un farmaco proibito dalla WADA, l’agenzia internazionale contro il doping. Ma il mondo dello sport è territorio di lotte senza quartiere, e non è impossibile che alla fine Masha sia meno colpevole di quanto possa sembrare

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Inutile girarci troppo attorno, la botta è stata molto forte. Una delle ambasciatrici del tennis mondiale, un concentrato di talento, esplosività fisica, caparbietà, che per la gioia di sponsor e di avvilenti guardoni abbinava a tutto questo anche glamour e avvenenza, a quanto pare – usiamo pure tutte le cautele del caso – ha barato ed è stata scoperta.

Maria Sharapova naturalmente non è soltanto la numero 7 delle classifiche mondiali, una delle 5 a completare il career slam in era open, più volte numero 1 del mondo, la terza giocatrice più giovane ad aver vinto Wimbledon e tante altre medaglie al merito, ma è stata il tennis degli ultimi dieci anni. Più di Serena Williams, per tutta una serie di non troppo nobili motivi, la ragazza di Njagan’, uno sperdutissimo borgo della Siberia occidentale, ha avvicinato al tennis come poche ragazze prima di lei. Se andate a vedere un torneo vi salterà subito agli occhi la differenza che c’è tra una partita con Maria e una senza di lei. Attenti anche sul 6-0 5-0 nel primo caso, distratti dopo i primi tre quindici nel secondo, la siberiana ha regalato agli spettatori un miscuglio di algidità e passione. In effetti algida, Maria, lo è stata solo nelle conferenze stampa o nelle noiosissime interviste alle quali è stata costretta a sottoporsi da quando surclassò proprio Serena Williams nella finale di Wimbledon del 2004. Ma in campo la quasi ventinovenne Maria è sempre stata un concentrato di emozioni, una “fighter” che i lineamenti aggraziati non avrebbero mai potuto fare intuire. Adesso, sembrerebbe che dietro questa straordinaria, caparbia capacità di lottare partita dopo partita ci fosse un aiuto non troppo lecito.

Sì, sicuramente uno shock, non solo per tifosi e semplici spettatori ma anche per gli addetti ai lavori, che nel corso di questi anni hanno imparato ad apprezzare, ammirare, voler bene a Maria. Del resto questo è uno dei problemi di questo “lavoro”. A differenza che nel calcio – sport che agevolato dall’enorme diffusione fa apparire i protagonisti come lontanissimi – il tennis, anche in questi anni di iper-professionismo è rimasto uno sport tutto sommato di nicchia, in cui si finisce per conoscersi. Il che non è un vantaggio se si deve cercare di essere equilibrati, perché simpatie e antipatie rischiano di farti sorvolare su alcune cose e di rendere enorme un peccato veniale.

Ma a parte questo, il problema del doping nel tennis e nello sport non è semplice come a volte si pensa. Di fatto è praticamente impossibile darne una definizione condivisa, e il confine tra cosa e lecito e cosa non lo è ha spessissimo l’aria di essere decisamente discrezionale. Per questo, qualsiasi cosa accada, ci saranno sempre pareri diversi sulla questione. Alcuni sosterranno che anche il caffè fa male, altri che in ogni caso l’assunzione di farmaci non cambierebbe i risultati, altri ancora che tutto andrebbe liberalizzato. La cruda realtà è che parliamo di una convenzione: la WADA – e i vari ordinamenti nazionali – hanno le proprie definizioni dei comportamenti leciti e illeciti e a quelli ci si deve conformare. E come abbiamo visto a volte la WADA consente comportamenti che sono proibiti da alcune legislazioni nazionali e le legislazioni nazionali non sono tra loro omogenee, come nel caso di Maria. Il farmaco è illegale in USA ma legale in Russia. Inoltre su moltissime questioni non si può che essere discrezionali, come ad esempio la percentuale di ematocrito nel sangue.

Infine varrà forse la pena di ricordare che gli atleti dell’antichità pare usassero miscele di erbe e funghi e che gli aztechi sostanze prodotte dal cactus. Che alle olimpiadi del 1904 si usavano le iniezioni di stricnina e che il brandy veniva considerato dopante. Insomma, cos’ha combinato veramente Maria Sharapova? Semplice, non ha rispettato il regolamento. E quindi va squalificata. Da qui a darle della dopata ce ne corre a meno di non voler banalmente considerare che tutti quelli che fanno sport sono, sostanzialmente, dei dopati che però non hanno violato il regolamento.

Al di là di questi sofismi la botta, terribile in termini di immagine, rimane. E se qualcuno spera che i prossimi giorni possano aiutare a far chiarezza sarà il caso che non riponga troppe speranze in questa eventualità. Certo, si cercherà di comprendere perché mai per prevenire il diabete si debba usare un anti-ischemico o se sia stata una mossa intelligente “confessare” di utilizzare il farmaco da dieci anni; probabilmente salterà fuori la storia della provenienza della famiglia Sharapov da Gomel, un villaggio nei pressi di Černobyl’, con la mamma di Maria incinta quando ci fu la disastrosa esplosione e chissà cos’altro.

Sommessamente tra le altre cose è però forse il caso di ricordare che è in corso una specie di guerra tra le federazioni britanniche e statunitensi da una parte e quella russa dall’altra. La posta in palio sono le olimpiadi brasiliani e probabilmente i campionati del mondo russi del 2018. Testate giornalistiche russe hanno ripreso la questione dicendo che la WADA è essenzialmente un organismo troppo legato agli interessi di queste potenze occidentali, tant’è che non avrebbero messo in elenco – nel 2016 – farmaci che servono per sviluppare gli ormoni delle ghiandole tiroidee.  E già nell’ottobre 2015 i russi lamentavano il fatto che i due loro rappresentanti in seno alla WADA non avessero nessuna influenza nei processi decisionali e di come semplici vitamine, a parer loro, potessero servire a stroncare carriere. Se districarsi in questi meandri è certamente più complicato che stabilire se un’atleta abbia violato o meno il regolamento, si può ugualmente immaginare quanto conti la possibilità di inserire nell’elenco delle sostanze proibite un farmaco al posto di un altro.

Ciò non toglie che la difesa di Maria è stata tutta quanta improntata sul “ho fatto un errore scusatemi”. La sensazione è che per quanto questi atleti siano ormai delle vere e proprie multinazionali da fatturati più grandi di quelli di interi PIL regionali ci si dimentica molto spesso che il loro controllo su molte cose che hanno attorno è quasi insignificante. Non è certo Maria a scegliere quali medicine prendere, non è certo Maria a stabilire la propria linea di condotta di fronte alle accuse. In fondo, le vere vittime sono proprio loro.

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