Tornei scomparsi. Bari, Genova e Firenze: l'altra Italia del tennis

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Tornei scomparsi. Bari, Genova e Firenze: l’altra Italia del tennis

La nostra rubrica sui tornei scomparsi fa tappa in Italia. Ripercorriamo con un po’ di nostalgia la storia dei tornei di Firenze, Bari e Genova

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Questa volta stiamo dalla parte dei più deboli. I figli di un dio minore, tre per l’esattezza e tutti nostri compaesani. Tre città che, chi più e chi meno, hanno caratterizzato una lunga primavera del nostro tennis. Quando al Foro Italico non ci si arrivava direttamente da Madrid bensì, per noi italiani, c’era già stato il ricco aperitivo invernale a Milano e, per gli amanti della vita all’aria aperta e della terra rossa, un paio di appuntamenti su e giù per la penisola che anticipavano e seguivano gli Internazionali di Roma.

Questa volta non parleremo di arene storiche e nemmeno di nomi leggendari ma, nel loro piccolo, questi luoghi dell’italica (e non solo) memoria hanno lasciato il segno e tanta, tanta nostalgia. Firenze, per durata e anzianità, e il binomio marittimo Bari-Genova hanno ospitato, tra i Settanta e i Novanta, due tappe del Grand Prix (allora si chiamava così) che rimpolpavano la lunga stagione del mattone tritato.

FIRENZE

In principio fu Firenze. A quel tempo, nel 1973, al Circolo Tennis Firenze mancavano ancora quindici anni per aspirare ad entrare nel “club dei centenari” ma i suoi campi in terra, costruiti a ridosso del Parco delle Cascine e all’ombra della palazzina donata al circolo da Cosimo Vittorio Cini, erano già stati calpestati da alcuni tra i migliori giocatori del mondo. Firenze dunque si ritagliò uno spazio nel sempre più fitto calendario del circuito principale e quell’anno si ebbe il primo torneo open. I primi due main-sponsor furono le sigarette Dunhill e un whisky, il VAT 69, che sarebbe tanto piaciuto a Maurice Castle, il protagonista de “Il fattore umano” di Graham Greene.

Ilie Nastase inaugura l’albo d’oro fiorentino battendo in cinque set Adriano Panatta in una delle finali memorabili del torneo ma il futuro vincitore di Roma e Parigi avrà modo di rifarsi l’anno successivo a spese del compagno di doppio Paolo Bertolucci. Una finale dall’esito piuttosto amaro per Paolo che però avrà un significato importante nella sua storia personale e in quella del torneo; con le tre successive, tutte vinte, Bertolucci stabilirà un record assoluto solo avvicinato da Muster e Ramirez (tre a testa).
Dunque, l’uomo dal braccio d’oro infila una tripletta di spessore dal ’75 al ’77 ma il torneo soffre inevitabilmente la concorrenza degli appuntamenti contemporanei (Denver, Dallas, Monaco) che hanno tradizione e, soprattutto, montepremi decisamente più appetibili. Tuttavia, con il suo tennis tutto braccio e classe Bertolucci fa divertire gli appassionati fiorentini; in particolare nell’ultimo atto del 1976, quando recupera due set e batte il francese Proisy 10-8 al quinto.

Dal 1978 e per quattro stagioni l’Open di Firenze vola sulle ali dell’entusiasmo e dell’Alitalia, che gli dà il nome. E il volo lo spicca pure un argentino di nemmeno vent’anni che passa le qualificazioni e mette in bacheca il primo alloro di un carriera felice: Josè Luis Clerc. Eppure, ai due estremi del tabellone ci sono altrettanti specialisti del rosso come Corrado Barazzutti (che di lì a qualche settimana arriverà in semifinale al Roland Garros) e Harold Solomon (che invece a Parigi ha già fatto una finale, persa come ben sappiamo contro Panatta), i quali però escono subito di scena, per la gioia immensa degli amanti del serve-and-volley. Corrado viene battuto con un doppio 6-4 dal connazionale Ocleppo; Harold rimedia sei giochi con il cileno di seconda fascia Prajoux, che avevamo incontrato nei giorni suggestivi di Santiago ’76. Ma torniamo al fratellino di Vilas, di cui replica piuttosto fedelmente il rovescio sia pur tirato con la mano destra. Clerc concede poco o nulla all’australiano Carter, qualcosa in più ai sudamericani Molina e Ycaza ma è John Alexander, l’uomo più temuto dagli italiani dell’epoca, a strappargli in semifinale l’unico set del torneo. In finale il pur brillante transalpino Patrice Dominguez non vede palla e perde tre set a zero.

Clerc concederà il bis tre edizioni più tardi e, da primo favorito del torneo, farà ancora meglio lasciando alle sue cinque vittime una media appena superiore ai due giochi per set e una frustrante sensazione di impotenza. L’ultimo a fare le spese della elegante regolarità di Josè Luis è il messicano Ramirez, che se potesse si nasconderebbe dietro i baffoni neri. Eppure Raul è alla sua terza finale consecutiva dopo aver vinto col brivido la prima nel ’79 (recuperando una situazione quasi disperata con il tedesco Karl Meiler) e aver lasciato l’anno successivo a Panatta l’ultimo alloro importante della sua vita tennistica.
Già, Adriano. Il suo rapporto con la città dantesca è, sul piano dei risultati, di amore e odio. Nelle sue personali montagne russe, il maggiore dei Panatta alterna settimane strepitose o quasi a clamorose eliminazioni precoci. Ma nel 1980 non ce n’è per nessuno, nemmeno per lo stesso Clerc che nei quarti conosce la prima sconfitta in terra di Firenze per mano sua (6-4 7-5). Adriano diventa così campione battendo i campioni delle ultime due edizioni mentre in semifinale aveva regolato Ocleppo, uno che alle Cascine si trova davvero a suo agio.

La buona tradizione degli italiani si perpetra per buona parte degli ’80. Ci sarà il tricolore ad accompagnare i finalisti in quattro occasioni e in una di queste sarà monopolio. Accade nell’88, quando a contendersi il titolo saranno Max Narducci e il fratellino di Panatta, Claudio. Ma andiamo per gradi. Prima c’è il perugino, nella città di Giotto. È Francesco Cancellotti, finalista nel 1983 e vincitore l’anno seguente. Il 1983, l’anno in cui un sorteggio beffardo mette di fronte due totem come Adriano Panatta e Eddie Dibbs nella rievocazione di quella che in gioventù fu addirittura la semifinale degli Internazionali di Francia. L’americano si prende la rivincita, se la possiamo chiamare così, ma la sua corsa terminerà in semifinale proprio al cospetto di “Cancella” che a sua volta dovrà arrendersi a Jimmy Arias, uno statunitense anomalo a cui piace la terra.

Va meglio l’anno dopo. Cancellotti è il settimo favorito di un tabellone che non annovera nomi altisonanti anche se, ad esempio, il suo primo avversario visse le sue settimane di notorietà cinque anni prima quando raggiunse la finale al Roland Garros a spese di Jimmy Connors. Il paraguayano Victor Pecci, dotato di un servizio temibile e buona predisposizione al gioco di volo, riuscì poi a strappare un set e mettere una certa angoscia pure all’intoccabile Borg ma si trattò di un episodio isolato tanto che non riuscì più a ripetersi a quei livelli. Oltre al sudamericano, alle Cascine c’è spazio pure per qualche giovane interessante come l’indiavolato svedese Kent Carlsson (che elimina subito Miloslav Mecir) o lo spagnolo Emilio Sanchez. Cancellotti emerge dalla parte alta in cui il n°1 Arguello è subito uscito dai giochi, batte l’immancabile Ocleppo in semifinale e nell’atto conclusivo si impone all’americano Jimmy Brown, uno che arrivò ad essere n°42 del mondo e perse tutte le quattro finali che disputò nel circuito ATP, di cui due in Italia.

Nelle due edizioni successive, Firenze boccia gli italiani. Un solo azzurro, Luca Bottazzi, supera il primo turno nel 1985, per poi racimolare un paio di giochi contro lo stesso Brown. Quell’anno si impone a sorpresa il qualificato Sergio Casal, uno spagnolo che otterrà risultati migliori in doppio sia insieme a Emilio Sanchez che a Raffaella Reggi, con la quale vincerà gli US Open l’anno successivo. Nell’86 i quarti di Cancellotti (ottenuti proprio a spese del campione in carica) sono il miglior risultato dei nostri portacolori ma il torneo rispetta le gerarchie grazie all’ecuadoriano Andres Gomez, già due volte vincitore al Foro Italico e che coronerà nel 1990 una carriera da top-5 conquistando il titolo al Roland Garros.

L’italico digiuno viene interrotto nel 1987 quando un cagliaritano di 24 anni arriva clamorosamente in finale; il suo nome è Alessandro De Minicis. Quella del sardo non è però l’unica impresa perché un altro italiano pressoché sconosciuto, Corrado Aprili, si ritaglia i suoi dieci minuti di meritata celebrità eliminando al primo turno il campione in carica Gomez, in quel momento decimo giocatore della classifica mondiale. Aprili non riesce a confermare il risultato e perde al secondo turno proprio da De Minicis, qualificato e autore dell’eliminazione all’esordio di Peter Lundgren, uno svedese che preferisce le superfici rapide ma che è già stato n°25 del mondo. Lundgren diventerà maggiormente famoso come coach di Federer al tempo in cui lo svizzero inizierà a vincere ma anche come giocatore si toglierà le sue soddisfazioni e proprio in quel 1987 otterrà il successo più prestigioso della carriera imponendosi a San Francisco dopo aver battuto il n°1 del mondo Lendl in semifinale. De Minicis continua la sua corsa fino alla finale eliminando poi lo statunitense Mark Dickson e l’argentino Eduardo Bengoechea ma nell’atto conclusivo trova semaforo rosso al cospetto di Andrei Chesnokov.

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