Quando ci si assenta dal tennis per qualche giorno è inevitabile focalizzare l’attenzione sul primo scambio che si riuscirà a sbirciare in diretta, come rimedio all’astinenza. Se questo scambio – cornice un prato verde e lo sguardo attonito di Berdych – si conclude con un rovescio lungolinea in back (vincente) ci si può ritenere fortunati. Se poi il braccio è quello di Marcos Baghdatis alla fortuna si può aggiungere una certa dose di affetto, perché il cipriota è uno di quei giocatori che se non ami difficilmente puoi odiare.
Marcos è un tennista dai due volti. Nato a Limassol ma divenuto tennista sotto lo sguardo francese di Patrick Mouratoglu, ha iniziato la carriera sospinto da gambe veloci e si è ritrovato, quasi trentenne, a doverle destare da un’eccessiva pigrizia. Il braccio però è sempre stato magico, quando sul suo tennis splende il sole. E quando c’è quel sole il viso paffuto è condito da un sorriso che contagia almeno quanto la sua mania delle palle corte, che non è mai irrisione ma soltanto il suo modo di comunicare con gli avversari. C’è chi si esprime con scambi di puro logoramento, chi piazza il mirino nel quadrato del servizio e fa fuoco, chi ordina alla pallina di ruotare ferocemente nell’aria: Baghdatis affetta la pallina di qui e di là, a volte cercando la linea di fondo, altre chiamando beffardamente l’avversario a rete.
Contro Tsonga a Parigi il cipriota ha giocato qualcosa come sessanta smorzate. Poi ha perso, ma è un dettaglio che davvero c’entra poco con questa storia. Dal francese non sono mai partite occhiate di stizza, con innegabile pazienza ha percorso il campo in verticale così tante volte da trovarsi quasi spaesato quando il cipriota colpiva profondo e gli concedeva una tregua. Tsonga ha poi trovato delle contromisure, ma l’incontro ha lasciato la piacevole sensazione che sia ancora possibile pensare a una partita in modo differente, svegliarsi una mattina ed esclamare: “Oggi batterò Tsonga con le smorzate”. Baghdatis aveva perso con il francese sei volte su sette, unica affermazione nel remoto Challenger di Cordoba del 2004. Ci aveva perso anche una finale juniores agli Us Open, quando sognava di portare a Cipro quel che in un’isola così piccola non c’era mai stato.
E ci è andato davvero vicino. Nel 2006 ha appena vent’anni quando a Melbourne mette in fila Roddick, Ljubicic e Nalbandian e si presenta in finale al cospetto di Roger Federer, entrambi pronti a vivere la stagione migliore della carriera. Marcos vince il primo set e nel secondo sta per costringere lo svizzero a un passivo di 3-0: un diritto lungolinea in partenza da Basilea trafigge però Limassol e cambia l’inerzia della partita, degli Australian Open e delle due carriere. Federer vincerà altre 80 partite in stagione e giocherà altre 20 finali Slam, vincendone le metà. Baghdatis porterà sì Cipro nella top 10 mondiale ma non avrà più una simile occasione, stritolato da un’epoca con troppi campioni.
Nella stagione successiva comunque Marcos si conferma su buoni livelli. Vince il torneo di Zagabria, si ferma in finale ad Halle e raggiunge i quarti a Wimbledon dove si arrende in cinque set a un giovane Djokovic; poi dà battaglia a Nadal nella semifinale di Parigi-Bercy e chiude l’anno in 16esima posizione. Nel 2008 lo tradisce il polso, salta la parte finale della stagione e precipita in fondo alla top 100. Il 2009 è la volta dei legamenti del ginocchio, ma la tenacia riporta il cipriota tra i primi 20 del mondo soltanto un anno più tardi: nel 2010 Baghdatis ha 25 anni e tutto il tempo per puntare ancora in alto.
L’ipotesi di un nuovo punto di partenza non si trasforma però nell’attesa maturazione. Marcos diverte e sorride come ogni volta, ma i risultati tornano a farsi cupi. Riecco il tennista dai due volti, che sorride ma non vince, ha il braccio lesto ma le gambe a volte troppo pigre. Ed è terribilmente altalenante. Il 2011 va maluccio, il 2012 appena meglio ma i cattivi risultati nei grandi tornei oscurano le quattro semifinali raggiunte a Stoccolma, Tokyo, Zagabria e Sidney. Nel biennio 2013-2014 Baghdatis tocca il fondo: esce dai primi 100 ed è sul punto di abbandonare il tennis.
Proprio dai challenger di fine 2014 riparte però la carriera di Baghdatis. Nella decisione di ripartire dai tornei minori il cipriota ritrova fiducia, una buona condizione atletica e riesce a riallacciare il sorriso alla racchetta, che si era fatta capricciosa. Il 2015 segna ufficialmente la rinascita del cipriota, che torna a calcare palcoscenici a lui più consoni: si issa in finale ad Atlanta, coglie una nuova semifinale a Stoccolma e soprattutto rimette piede tra i primi 50 del mondo. Il naturale proposito per questo 2016 – come dichiarato a Ubitennis – è quello di salire ancora più in alto. E non sembra affatto irrealizzabile. Grazie ai quarti appena raggiunti nel torneo di Halle il fresco 31enne potrebbe agguantare la posizione 40, a una manciata di punti dall’ambita top 30.
Baghdatis però non ha smesso di essere un tennista a due facce. L’ottima vittoria contro Berdych sull’erba tedesca fa il paio con la finale raggiunta a Dubai e conferma un grande agio sulle superfici rapide, dove si attenua la sua difficoltà negli scambi prolungati. La sconfitta patita solo qualche minuto fa da Zverev sullo stesso campo è il chiaro segnale che il feeling con la superficie non basta e la tenuta di gara va ancora perfezionata, specie in ottica Wimbledon dove i set da vincere diventano tre. L’incontro ha visto Marcos prodursi, tra un dropshot e l’altro, in un bizzarro tentativo di evitare un warning: il cipriota si è infilato nel tunnel degli spogliatoi per rompere la sua racchetta al riparo da sguardi indiscreti ma tornato in campo è stato ugualmente sanzionato dall’arbitro. Meglio come tennista, che come stratega.
Un aneddoto – che tratta sempre di racchette rotte – fotografa però alla perfezione “l’essere Baghdatis” e per questo va svincolato dalla cronologia della sua carriera. Siamo agli Australian Open 2012, 6 anni dopo la sua prima e unica finale Slam, Marcos sta per congedarsi dal “suo” torneo con un’inusuale accesso di rabbia: ha appena rotto 4 racchette in fila e ognuna in modo diverso, con certosina applicazione. Il pubblico australiano (che lo aveva “adottato” nella finale del 2006 e ancora stravede per lui) addirittura lo incita nel suo slancio distruttivo, lui impugna la quinta e sembra pronto a riservarle la stessa sorte ma improvvisamente rinfodera l’ira, come a riconoscerne l’inutilità, e sfodera assieme alla nuova racchetta un sorriso, l’ennesimo, con il quale torna in campo per perdere la sua partita di secondo turno contro Wawrinka. A fine incontro il pubblico lo acclama come avesse vinto, nonostante il gesto ampiamente fuori dai suoi schemi.
Ecco, se potessi rinascere tennista mi peserebbe troppo essere Djokovic e dover dominare, crescere come Federer ed essere costretto a stupire, vivere una vita da Nadal schiavo di un diritto imprendibile. Io sceglierei di essere Marcos Baghdatis, per portare la fascia tra i capelli e indossare una maglietta senza fronzoli, per giocare un vincente un back e poi tirare il fiato sul punto successivo. E mia moglie a Capri ce la porterei subito.