Sefton A., Una vita sull’onda, Longanesi & C., Milano, 2006
Anche se il titolo italiano non è male, come spesso accade è quello originale a rendere nella maniera migliore quanto si andrà a leggere. “Sir Peter Blake, an amazing life”. Perché quella del biondo gigante neozelandese dai baffi spioventi è stata veramente una vita incredibile.
Formalmente questo libro è la biografia di un velista, scritta da un amico, un caro amico che ha condiviso con il protagonista trent’anni passati in gran parte sui sette mari con i capelli incrostati di sale, le dita cotte dall’acqua e ferite da scotte e drizze di governo. Terminata l’ultima pagina però qualche dubbio ci assale. Forse ci siamo imbattuti in uno splendido romanzo di avventura e formazione, con la sola differenza che quanto abbiamo letto non sgorga dalla fantasia di un Alexandre Dumas o un Robert Louis Stevenson ma corrisponde pienamente al vero. Signori, ecco a voi vita e opere di uno dei più grandi navigatori di tutti i tempi, che sarebbe stato più appropriato vergare su carta con la salsedine piuttosto che l’inchiostro. E non siate prevenuti, dimenticate l’aura lussuosa da jet set dei grandi yacht club internazionali, dei miliardari e delle loro barche da sogno. Qui si va per mare sul serio per settimane che diventano mesi, ventiquattro ore al giorno al massimo della velocità alle latitudini più inospitali del nostro pianeta, senza l’ombra di un conforto se non un paio d’ore di sonno rubate in cuccetta, una tazza di tè caldo o una ciotola di porridge stantio. È un grande libro, prosa chiara e diretta, fabula e poco intreccio perché nella narrazione di un’esistenza eccezionale sono i semplici fatti a parlare.
Qualche coordinata. Peter James Blake, neozelandese, classe 1948 è stato un grande campione, ha conquistato ogni tipo di alloro nelle più grandi competizioni veliche internazionali ma non è diventato ricco. Ancora pochi mesi prima di morire tragicamente nel 2001, al massimo del successo dopo due America’s Cup consecutive, non possedeva i soldi necessari all’acconto per riacquistare l’amatissima “Ladybird”, il trentaquattro piedi che era appartenuto al padre. Però era Knight Commander of the Order of the British Empire e con il progetto BlakExpeditions, a bordo del Seamaster, si occupava di monitorare lo stato degli oceani di tutto il mondo per conto delle Nazioni Unite. A volte i soldi non sono tutto, e quando questo accade è magico. Tante grandi vittorie dicevamo, ma scordatevele. Riteniamo più invitante per il futuro lettore citare un paio di episodi al fine di rendere al meglio il fascino di questa narrazione senza rovinare la sorpresa di una lettura davvero coinvolgente e ricca.
Considerate innanzitutto che la vela oceanica è uno sport pericoloso. Si rischia la vita ma soprattutto una brutta morte, assiderati nelle verdi acque dell’Antartico o sbalzati fuoribordo e annegati da un’ondata notturna. Non si gareggia al caldo di un palazzetto o su un circuito con vie di fuga e ambulanze ad ogni curva. È roba da marinai veri, eredi dei Vasco da Gama, dei Francis Drake, dei James Cook. E in quelle condizioni, come recita un antico adagio di mare “Il capitano è secondo solo a Dio”. Nel 1981 Blake è skipper di Ceramco New Zealand alla leggendaria Whitbread Ocean Race, regata per equipaggi intorno al mondo. Il percorso è questo: si parte da Portsmouth, ci si getta a capofitto nell’Atlantico, si doppia il Capo di Buona Speranza alla volta della Nuova Zelanda e poi il terribile Capo Horn prima di risalire nuovamente verso l’arrivo in Inghilterra. Vi siete fatti una vaga idea? Tenete conto che là sotto il vento supera i 50 nodi, si sfiorano gli iceberg e quelle barche sono dei mostri di velocità. Bene, il 21 settembre Ceramco è poco sotto la Sierra Leone, questo il giornale di bordo:
“ore 04.00: fiocco n°3, due terzaroli. Navigazione piacevole.”
“ore 06.00: il mare è a chiazze e fa le ochette; filiamo come razzi.”
“ore 08.00: vento a 25 nodi da sud-est, mare increspato. Andatura veloce.”
“ore 12.35: è caduto l’albero – cazzo.”
La tappa termina a Città del Capo, mancano 2500 miglia di mare aperto. Nessuno vuole ritirarsi ma l’albero è spezzato in tre parti. Chiedere soccorso significa squalifica e allora Blake e il suo equipaggio decidono di continuare. La barca viene ri-armata utilizzando il moncone rimasto e le settimane di navigazione che seguono vengono descritte come “uno degli esempi di abilità marinara più degni di nota della storia delle gare veliche”. Peter Blake compie 33 anni nel bel mezzo di questa vicenda.
E ne aveva da poco compiuti 53 quando il 5 dicembre 2001 viene assassinato a bordo del Seamaster a Macapà, Brasile, dove si trovava per un’indagine sulle acque del Rio delle Amazzoni e i suoi affluenti.L’imbarcazione all’ormeggio viene assaltata da otto malviventi armati e mascherati, Blake è sotto coperta. Imbraccia il fucile calibro 308 ma riesce ad esplodere solo due colpi, prima che l’arma si inceppi e lui venga centrato da due colpi mortali alla schiena. L’epitaffio più adatto all’assurda morte di un grande uomo è tutto nelle parole del suo fedelissimo Simon Gundry, un duro baffuto con la pelle cotta da mille soli che da allora organizza il raduno “Mast fall down” (caduta dell’albero), nel quale gli equipaggi di Peter periodicamente si radunano intorno a boccali di birra che mascherano qualche lacrima in onore del loro capitano.
“…Se Peter mi avesse detto “vieni con me, c’è una regata intorno alla luna” l’avrei seguito. Perché mi avrebbe comunque riportato indietro sano e salvo”.
Buon vento, sir Blake.
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