L’incertezza di Murray e l’occasione perduta del bambinone Raonic (Clerici). Murray suda, Djokovic scherza. Ora arriva il giorno del giudizio (Cocchi). Un Djoko da numeri uno: Nole-Murray in finale, chi vince sarà re (Gibertini). Murray vs Djokovic, la finale Numero 1 (Marcotti). Murray maratoneta da record, ma deve sprintare con Djokovic (Azzolini). Sono un uomo, non sono una scarpa, ma racconto le storie di chi le ama (Mastrolilli)

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L’incertezza di Murray e l’occasione perduta del bambinone Raonic (Clerici). Murray suda, Djokovic scherza. Ora arriva il giorno del giudizio (Cocchi). Un Djoko da numeri uno: Nole-Murray in finale, chi vince sarà re (Gibertini). Murray vs Djokovic, la finale Numero 1 (Marcotti). Murray maratoneta da record, ma deve sprintare con Djokovic (Azzolini). Sono un uomo, non sono una scarpa, ma racconto le storie di chi le ama (Mastrolilli)

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L’incertezza di Murray e l’occasione perduta del bambinone Raonic (Gianni Clerici, La Repubblica)

«Great match» afferma un giovane collega, mentre siamo incolonnati insieme ai ventimila spettatori, che se ne vanno dopo le tre ore e 38 minuti trascorsi ad assistere alla partita tra Andy Murray e Milos Raonic, terminata 5-7 7-6 7-6 per lo scozzese più amato del Regno Unito. «Non è stato un gran match», rispondo; poi, resomi conto di parlare italiano, mi correggo e «very exciting», gli sorrido. E stato, infatti, un match eccitante, e il lettore che non l’ha visto l’ha capito dal punteggio. La qualità del gioco, però, non è stata all’altezza dello score. Murray mi aveva affascinato nei giorni precedenti, facendomi supporre che, a trent’anni, avesse finito non solo di capirsi, ma di accettarsi. Aveva diretto i suoi match precedenti da vero numero Uno, dimostrandosi infinitamente migliorato non solo nei colpi, ma nella visione del gioco. Il rovescio bimane era divenuto trimane, includendo spesso un colpo tagliato, utilissimo non solo per attaccare con traiettorie basse, ma per impedire, spesso, il vincente avverso. Le scelte tattiche parevano venirgli misteriosamente suggerite dall’esperienza della panchina, dove sedevano l’impassibile coach Lendl, e l’allenatore spagnolo Delgado. Insomma, mi dicevo: forse ha il momento più felice della sua vita tennistica, forse supererà, almeno per qualche tempo, il fenomenale Djokovic. Mi sbagliavo, come spesso mi accade. Il Murray di oggi è stato eguale agli abituali aspetti negativi di se stesso, e non ha perduto un match importante soltanto perché il suo avversario, Milos Raonic, si è dimostrato ancora impreparato per una partita emotivamente impervia. So che Milos è assistito come meglio non potrebbe, da un team composto da Piatti capocoach, Moya allenatore, McEnroe consigliere, Caronti chiroterapista, Vercelli, psicologo. L’insolito numero di simili qualificati collaboratori potrà certo dare grandi risultati quando lo svezzamento del giovane tennista sarà terminato. Oggi il bambinone si è mostrato ancor digiuno della maturità utile a far suo un incontro nel quale ha a tratti dominato un avversario in giornata negativa. Ho forse ecceduto in quelle che sono le mie impressioni, senza riferire brevemente i numeri. Nel primo set è emersa l’incerta giornata di Murray, i cui schemi abituali si erano sorprendentemente rattrappiti sino a che, sul 5-4 in suo favore, una serie di punti positivi di Raonic hanno chiuso nettamente il set. La mediocre giornata di Murray pareva metterlo in viva difficoltà anche nel secondo, il tie-break sottolineava la minor abitudine di Raonic a match importanti, nei suoi due punti decisivi, seguenti il 5 pari, che riuscivano a mantenere in corsa Andy. Non diversamente si concludeva il terzo decisivo set, in cui il canadese ha avuto un matchpoint sulla racchetta a 9 punti a 8, con una battuta e un successivo attacco di diritto. Match point vanificato da una volée di Murray, e da una successiva prima di servizio dello stesso Andy, più un finale diritto errato del bambinone. «Ho perduto da chi è il migliore del mondo negli ultimi sei mesi», ha concluso Milos, mentre nell’ascoltarlo pensavo che aveva perduto un match che avrebbe dovuto vincere.

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Murray suda, Djokovic scherza. Ora arriva il giorno del giudizio (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

Una maratona di sudore, di corse e rincorse, di errori e miracoli, di continui colpi di scena. È dura la vita da numero 1 per Andy Murray, che nella prima semifinale delle Atp Finals contro Milos Raonic se l’è vista decisamente brutta. Gli ci sono volute tre ore e trentotto minuti (la partita al meglio dei tre set più lunga di sempre del torneo) per conquistare la prima finale Masters in carriera. Oggi lo aspetta l’esame di maturità contro Novak Djokovic, la sfida più attesa (anche da lui?), lo scontro finale. Ne rimarrà solo uno sul trono del tennis, e Andy dovrà recuperare da una fatica immensa. Il serbo invece si è limitato a un allenamento serale con un Nishikori inesistente, polverizzato 6-1 6-1 in un’ora e cinque minuti. Insomma, non proprio la stessa cosa. Una partita intensa e appassionante quella tra Murray e Raonic, ma tecnicamente non troppo esaltante. I continui cambi di inerzia della sfida, i break e gli immediati contro break sono stati più spesso frutto di errori che non di giocate spettacolari. Tanto che il tabellino presenterà un saldo negativo tra vincenti e gratuiti per entrambi i giocatori. Nel primo set è stato decisivo il break conquistato da Raonic nell’11 game. Nel secondo parziale la trama sembrava la stessa, con l’allievo di Riccardo Piatti e Carlos Moya avanti di un break, poi recuperato da Murray. Si arriva al tie break che Murray vince 7-5. Nel set decisivo le cose sembrano mettersi male per l’idolo della 02 Arena, in grossa difficoltà a tenere il servizio. Sul 4-4 pari Raonic ha un black out e Murray si prende il suo servizio a zero. Da lì in poi saranno montagne russe, con continui break e contro break. L’epilogo è ancora al tie break con Milos che annulla tre match point, scatena il panico dei britannici procurandosene uno sul 9-8, e poi cede le armi al quarto match point di Andy. Raonic questa settimana ha giocato con i due pretendenti al trono: nel round robin contro Djokovic e ieri contro lo scozzese. Una vista privilegiata sullo scontro finale di oggi: «Sicuramente Andy è stato il miglior giocatore al mondo negli ultimi sei mesi, Novak ha dimostrato la sua forza. Credo che la finale, per chi ama il tennis, sarà il miglior epilogo possibile». Murray si presenta alla stampa quando il rivale sta già triturando Nishikori: «Scusate il ritardo, ho dovuto fare qualcosa per riprendermi. Un bagno di ghiaccio e della fisioterapia, devo giocare ancora una partita importante». La stanchezza da recuperare è tanta, soprattutto mentale: «Non so come mi sentirò quando mi sveglierò domattina (oggi, ndr). Cercherò alzarmi il più tardi possibile e rilassarmi. Il match contro Milos è stato molto pesante anche mentalmente. Ma sono contento perché ho combattuto tantissimo e ne sono uscito vincitore». Sotto con la battaglia finale, ne resterà solo uno.

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Un Djoko da numeri uno: Nole-Murray in finale, chi vince sarà re (Vanni Gibertini, La Nazione)

Due semifinali assolutamente diverse per arrivare alla finale che tutti volevano vedere, in primis gli organizzatori delle ATP finals. Prima Andy Murray che fra mille emozioni lotta per 3h e 38 minuti, un record di durata – 5-7,7-6 (7-5),7-6 (11-9) il punteggio – annullando anche un matchpoint nel tie-break del terzo set dopo esser stato a due punti dal baratro della sconfitta già nel tiebreak del secondo set contro il gigante canadese Milos Raonic. Match pazzesco. Per due volte Murray arriva a servire per il match nel terzo set, 5-4 e 6-5, ma perde inopinatamente il servizio. Poi Novak Djokovic che invece in 66 minuti sbriga la pratica giapponese, con un Nishikori irriconoscibile rispetto alle precedenti ottime esibizioni. Match da dimenticare. Per la prima volta in 46 edizioni del Masters di fine stagione la finale deciderà chi sarà il n.1 dell’anno in corso. Fra Murray, n.1 attuale e Djokovic, n.2 oggi ma n.1 per 122 settimane di fila fino a 10 giorni fa, il bilancio dei confronti diretti è di 24 a 10 per il serbo, che ha vinto anche l’ultimo scontro nella finale del Roland Garros. Raonic era stato avanti di un set e di un break, ma non gli è bastato. Per Raonic «E’ stata probabilmente la mia miglior partita di sempre sotto il profilo agonistico». Nel pomeriggio l’ATP ha annunciato che Milano ospiterà per cinque anni un torneo under 21, stessa formula del Masters, per i primi sette tennisti del mondo (più una wild card). Si giocherà alla Fiera di Milano dal 7 all’l1 Novembre, la settimana prima delle finali Atp di Londra. Montepremi 1.125.000 dollari. Partecipazione obbligatoria, nessun punto ATP.

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Murray vs Djokovic, la finale Numero 1 (Gabriele Marcotti, Corriere dello Sport)

La finale più attesa è servita. Giusto epilogo per il torneo che deve incoronare il Maestro dei Maestri. E che quest’anno, per la prima volta, consegnerà anche lo scettro di numero uno al mondo del ranking mondiale. Il dominatore del primo semestre tennistico contro il dittatore degli ultimi cinque mesi, Novak Djokovic contro Andy Murray. Il serbo, con brutale facilità, ieri sera ha superato Kei Nishikori in un match rapidissimo (doppio 6-1), nel quale sono state pochissime le occasioni che Nole ha concesso al giapponese. Nei precedenti tre match, fatta eccezione per il set smarrito all’esordio contro Dominic Thiem, ha sempre comandato, battendo Milos Raonic con un duplice tie-break e schiantando David Goffin. Il suo tennis non è ancora a livello dei tempi migliori, ma sicuramente lo spirito, la fame e la concentrazione sono quelli dei primi mesi dell’anno. Decisamente più complicato il successo di Murray: se per battere mercoledì Kei Nishikori aveva avuto bisogno di 3 ore e 20′, ieri lo scozzese contro Raonic si è addirittura superato, migliorando il precedente primato (3 ore e 38′). Un match non di altissimo livello, ma di grande intensità e incertezza fino all’ultimo punto, il quinto match-point dell’incontro. Murray vince così la 22a partita di fila. Perso il primo set, il numero uno al mondo trascina la seconda frazione al tie-break, dominato dai servizi ma infine vinto dallo scozzese. L’epilogo del match è un caleidoscopio di emozioni. Trovato il break che tutta la 02 Arena pensa decisivo, Murray va a servire per il match, ma Milos riesce a strappare il servizio e rimettersi in partita. Identico il copione nei due game successivi, due servizi perduti, e match deciso al tie-break. Murray scappa avanti, ma spreca tre match-point. Tocca a Raonic non sfruttare la sua occasione per raggiungere la finale, prima che lo scozzese possa festeggiare grazie al dritto in rete del suo avversario. «E’ stata una partita estremamente difficile ma non mi aspettavo nulla di diverso – le parole di Murray – Milos è stato molto solido al servizio, con lui è sempre difficile avere occasioni. Ma sono stato bravo a restare in partita, anche quando ero in svantaggio. La stanchezza? Nessuno a questo punto della stagione è al meglio della condizione. Non ho accusato stanchezza per il match con Nishikori, spero pero di avere abbastanza tempo per recuperare per la finale». L’ennesima di una stagione lunga e ricca di successi, tante finali e otto titoli che finalmente, dopo 76 settimane sul secondo gradino, lo hanno portato sulla vetta del ranking mondiale. «Sono molto contento perché non ero mai arrivato in finale qui – ha aggiunto il campione di Dunblane -. Adesso però voglio vincere. Non solo per la classifica, ma soprattutto per il torneo. Sarebbe una fantastica conclusione di una stagione già meravigliosa». Che sogna di chiudere sul tetto del mondo, come suo fratello Jamie, premiato ieri per il suo primato nella graduatoria di doppio. Sarà la 35a sfida tra i due, con Djokovic nettamente in vantaggio, non solo nel totale (24-10) ma anche nei match di finale (11-6). Anche nell’unico confronto disputato nelle ATP Finals (2012) si era imposto il serbo, che si è aggiudicato 3 dei 4 incontri disputati quest’anno. E alla partita di oggi arriva dopo aver giocato 6h31′ contro le 9h54′ del rivale.

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Murray maratoneta da record, ma deve sprintare con Djokovic (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Gli ultimi cento metri della volata saranno in salita. Il numero uno è sulle spalle di Andy Murray, ma occorre portarlo lassù, sulla vetta. E serviranno braccia e gambe. Ventitré match vinti consecutivi non bastano, nemmeno il sorpasso in corsa, quando è sfrecciato di fianco a Djokovic ed è andato in testa. Nole è sempre lì, agganciato, ed è lui ora a meditare il ribaltone. Resta una montagna da scalare e se l’immagine vale una metafora sullo sport di vertice, sulle fatiche che richiede, c’è un richiamo più terreno alla storia di una sfida che in questi ultimi mesi è diventata spartiacque del tennis. Djokovic è da sempre la montagna con cui Murray si è dovuto confrontare. E lo scozzese lo sa: la montagna ha quasi sempre avuto ragione. Ma è uno scalatore, Andy. Lo è diventato in questo strambo Master indoor che propone match infiniti, nemmeno si giocasse sulla terra più lenta e sabbiosa che sia dato conoscere. Era un passista, un cronoman da progressioni impetuose, e con quelle aveva conquistato una meta che solo sei mesi fa sembrava impossibile. Dopo Parigi erano 8.000 i punti di vantaggio per Djokovic. Ma in questi ultimi giorni hanno cambiato il tracciato al povero Murray. E lui, Andy, s’è messo a scalare, di buona lena ma incredulo per gli intralci che è stato chiamato a superare. Tre ore e venti contro Nishikori, e ieri contro Raonic tre ore e trentotto minuti. Devastanti. «Sono incapace persino di festeggiare, non credevo che sulla superficie più rapida si potessero giocare incontri così lunghi». Semifinale incredibile. Bella e brutta senza una trama che ne spiegasse i motivi, le esitazioni miste alle invenzioni, i nobilissimi colpi alternati ai più orribili sprechi. Fino a rendere i due talmente insicuri da ritrovare il coraggio solo dopo aver toccato il fondo. Un match concluso da una girandola di errori tale da sotterrare di volta in volta i vantaggi acquisiti. Un match condotto e riagguantato ora dall’uno ora dall’altro contendente, fino al tiebreak finale, con tre match point sprecati da Murray e uno dal gigante canadese, fino al 10-9 per Andy quando, al diritto in rete di Raonic, Murray s’è guardato in giro quasi ad averne conferma. «Ho vinto davvero?». Sì, 5-7 7-6 7-6, ed è la prima volta che giunge in finale nel Master. Ora manca 1’ultimo atto. Djokovic guida 24-10, 3-1 il conto 2016. Ma non s’incrociano dalla finale di Parigi. Murray lo ha superato senza bisogno di incontrarlo, e forse il tennis doveva al dominatore degli ultimi 2 anni quest’ultima chance di riprendere i possedimenti.

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Sono un uomo, non sono una scarpa, ma racconto le storie di chi le ama (Paolo Mastrolilli, La Stampa)

«Per me era solo una scarpa. Bella, comoda, di grande successo, mi aveva fatto guadagnare soldi e ne ero orgoglioso. Però comunque una scarpa. Poi un giorno un ragazzo si avvicinò, e mi disse che si era sposato indossandola, perché la portava quando aveva conquistato la sua fidanzata. Allora capii che era diventata una roba diversa, un’icona della nostra generazione». Questa illuminazione fece venire a Stan Smith un’idea: «Scrivere un libro con tutte le storie più singolari legate alla mia scarpa». E cosi è stato. Il prossimo 14 dicembre Stan compirà 70 anni, e nel quarantacinquesimo anniversario dell’endorsement dell’Adidas che ancora porta il suo nome, ha cominciato a raccogliere le memorie: «Non solo le mie, ma soprattutto quelle della gente. Ho chiesto a tutti di mandarmi le storie più curiose che hanno sulla mia scarpa, e conto di pubblicare il libro alla fine dell’anno prossimo». Smith ride, mentre spiega il suo progetto dalla Hilton Head Island della South Carolina, dove oggi vive gestendo un’accademia di tennis.

Cominciamo dal principio. Dicono che lei fosse piuttosto goffo. Alto e scoordinato. Avevo cominciato tardi a giocare, vincendo il primo torneo a 16 anni, ma ero così goffo che avevano rifiutato di farmi fare il raccattapalle durante una partita di Coppa Davis a Los Angeles fra Usa e Messico. Dicevano che ero un pericolo per i giocatori.

Quando ha capito che invece aveva il talento per diventare il numero uno del mondo?

Vinsi il campionato nazionale juniores quasi senza allenarmi, e allora mi resi conto delle mie potenzialità. Poi ebbi la fortuna che il tennis divenne open proprio nel 1968, l’anno in cui mi laureai, e questo mi consenti di diventare subito professionista. La svolta della mia carriera fu il Masters del 1970 a Tokyo, il primo mai giocato. Andai senza troppe speranze, ma cominciai a battere tutti. Poi il 14 dicembre, giorno del mio ventiquattresimo compleanno, capitarono due cose: battei Rosewall, assicurandomi la vittoria nel Masters, e ricevetti la cartolina militare, che mi ordinava di presentarmi in caserma due giorni dopo a Los Angeles.

Erano anni difficili, c’era la guerra in Vietnam. Come la prese?

Sapevo di essere nelle liste della leva, ma non feci nulla per oppormi. Non ero come Muhammad Ali, non potevo rifiutarmi di partire. Molti ragazzi che avevano fatto l’addestramento di base con me finirono in Vietnam, ma io fui fortunato. Mi mandarono a Fort McNair, vicino Washington, e mi lasciarono giocare a tennis per l’esercito. Vincemmo due Coppe Davis e ne sono orgoglioso, anche se molti mi accusarono di essermi imboscato, dicendo che non era giusto tenermi a giocare invece di andare in Vietnam.

Così vennero le vittorie agli US Open e a Wimbledon, e la scarpa.

Horst Dassler aveva sviluppato la prima scarpa da tennis di pelle, e l’aveva intitolata a Robert Haillet, il miglior giocatore francese. L’Adidas però voleva espandersi nel mercato americano, e quindi pensarono a me, che ero diventato il numero uno al mondo. Per tre anni produssero la scarpa con la mia faccia sopra, e il nome di Haillet. Poi divenne solo la Stan Smith.

40 milioni di paia in tutto il mondo. Si rende conto che questa scarpa l’ha trasformata in un’icona?

All’inizio no. Poi ho cominciato a sentire le storie incredibili da chi l’aveva usata, e ho capito. Non era solo un prodotto. Ci scherzavo su, dicendo che ero un giocatore di tennis, però alcuni pensavano che fossi una scarpa. In realtà ne sono orgoglioso, e ora comprendo la responsabilità che viene con queste fortune. Da qui l’idea del libro. Ho pensato che fosse un peccato perdere tutte queste storie curiose. Chi ha qualcosa da raccontare mi contatti, perché le sto ancora raccogliendo.

Dopo la carriera si è dedicato all‘insegnamento del tennis: perché?

Ho avuto grandi maestri, mi è sempre piaciuto insegnare, e credo di dover restituire un po’ della mia fortuna.

Le piace come è diventato il tennis oggi?

Sul piano tecnico l’evoluzione delle racchette ha dato molto più controllo ai tennisti, rendendo difficile il gioco a rete. Però ci sono molti più giocatori bravi che ai miei tempi, e da molti più Paesi. Alcuni, come Usa e Italia, soffrono perché non hanno buoni programmi di sviluppo e c’è molta concorrenza. Il tennis è diventato un business, ma questo non è un male: è sempre più popolare su scala mondiale, e spero di averlo aiutato.

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