Davis stregata, l’Argentina conta su Del Potro (Mario Viggiani, Corriere dello Sport)
Da oggi a Zagabria, contro la Croazia, l’Argentina va in campo per cercare di chiudere quello che si chiama “asunto pendiente”, cioè una questione aperta, un conto in sospeso. La questione e il conto sono quelli relativi alla Coppa Davis, trofeo tanto discusso, almeno negli ultimi tempi (per la sua formula antica), quanto ambito. Sì, perché nessuna nazione ha un record negativo come quella sudamericana: quattro finali, nessuna vittoria. È andata così nel 1981 negli Stati Uniti, nel 2006 in Russia e nel 2008 e 2010 contro la Spagna, prima in casa poi in trasferta; è, questo, un cruccio tremendo per i tanti appassionati argentini, onnipresenti in ogni trasferta dei loro beniamini (erano numerosi anche a Pesaro nei quarti contro l’Italia). La Croazia sa invece come si conquista la Coppa, per esserci riuscita nell’unica volta in cui è approdata in finale: nel 2005, battendo la Slovacchia a Bratislava. Allora l’impresa fu siglata da Ivan Ljubicic e Mario Ancic, adesso ci proveranno il ritrovato Marin Cilic e l’eterno Ivo Karlovic, che va per i 38 e che torna in nazionale dopo quattro anni di assenza (è stato lasciato fuori il giovane Borna Coric, non ancora al meglio dopo l’operazione al ginocchio). L’Argentina conta moltissimo su un altro ritrovato, Juan Martin Del Potro, oltre che su Leonardo Mayer. E si affida soprattutto ai precedenti con i croati: tre su tre a loro favore, con i sudamericani sempre vittoriosi in occasione dei quarti, una volta proprio a Zagabria. In tribuna anche la fan più affezionata di Cilic, Svjetlana, cieca dalla nascita ma sempre presente quando ne ha l’opportunità. E’ annunciato anche Diego Maradona, che però non portò bene ai connazionali nel 2006 a Mosca…
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Sogno Croazia, Tabù Argentina. Cilic e Del Potro, a voi la Davis (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)
Il precedente non è benaugurante, malgrado la grandezza del personaggio, perché Maradona stava in tribuna a tifare anche in un’altra finale, quella in Russia del 2006, e l’Argentina perse. Come sempre, del resto. La Davis, per i Gauchos, è infatti una maledizione trasformatasi in ossessione: quattro volte all’epilogo e quattro sconfitte, nel 1981 (Usa), nel 2006 (Russia, appunto), nel 2008 e nel 2011 (sempre con la Spagna), il non invidiabile record di squadra con più finali e nessun sorriso. Non che la quinta, nonostante il supporto del Pibe de Oro, si presenti agevole: trasferta, calda, a Zagabria, in un’arena da 15.000 posti esaurita da tempo che cercherà di compensare il canto continuo della torcida argentina e proverà a dare una spinta probabilmente decisiva al fattore campo. Anche la Croazia detiene un primato, ma lei ne può andare fiera: è stata la prima squadra a vincere la Coppa senza essere testa di serie, nel 2005, quando batté la Slovacchia fuori casa. Perciò: bis della Croazia o fine dell’incubo albiceleste? La risposta, dopo le garbate polemiche dei sudamericani alla vigilia per la presunta, eccessiva rapidità della superficie scelta dagli ospitanti, poi smentita dal test effettuato dalla Federazione internazionale, risiede nelle mani dei due leader delle finaliste, Cilic e Del Potro. I ragazzi dell’88 che si sfidano fin da adolescenti e poi capaci, soli con Wawrinka, di interrompere l’egemonia Slam dei Fab Four con gli Us Open vinti rispettivamente nel 2014 e nel 2009, nonché giocatori torridi in questo finale di stagione: Marin ha vinto Bercy, ha giocato il Masters ed è arrivato al numero 6 in classifica, il suo meglio; Juan Martin è tornato al successo in un torneo (a Stoccolma) dopo due anni e mezzo, ha recuperato 1007 posizioni in classifica da inizio anno (1045 a gennaio, 38 oggi) lasciandosi definitivamente alle spalle le tre operazioni ai polsi e soprattutto ha battuto Murray nelle semifinali di settembre. Sarà il loro carisma a indirizzare la sfida, in attesa dell’incrocio di domenica, salvo improbabili 3-0: «Intanto devo battere subito Delbonis — frena Cilic — perché è vero che sono favorito ma la Davis è una competizione strana. Se vinco, metto un po’ di pressione a Del Potro. Il numero 6 del mondo si sorbirà di sicuro tre match, doppio compreso, una fatica che quasi certamente non verrà risparmiata neppure all’argentino: «Per noi è un momento speciale, sappiamo di essere vicini a qualcosa di meraviglioso e siamo concentrati sull’obiettivo massimo». Poi, potrà accadere come tante volte che siano i numeri due a cambiare sorti e volto alla sfida, e quindi osanna a Delbonis, l’uomo che ci ha distrutto a Pesaro nei quarti, o al redivivo Karlovic, mai troppo amato dalla sua federazione e richiamato dopo quattro anni di esilio dalla nazionale perché Coric soffriva per una fresca operazione a un ginocchio. Saltato Borna, il 37enne (e nove mesi) Ivo diventerà oggi il più vecchio a giocare una finale dal 1920, quando l’Australia schierò Norman Brookes con i suoi 43 anni: «Non so se è un bene o un male, l’importante forse è esserci. Avrò bisogno di tanti ace per tenere gli scambi molto corti, altrimenti Del Potro diventa favorito». E’ la Davis, bellezza.
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Davis, missione Del Potro. Per l’Argentina e la storia (Stefano Semeraro, Il Secolo XIX)
PER DIVENTARE leggenda a Juan Martin Del Potro manca solo alzare la Zuppiera e portarla per la prima volta nella storia nella sua Argentina, l’unica fra le grandi nazioni del tennis a cui manca. La finale numero 105 di Coppa Davis inizia oggi alla Zagreb Arena di Zagabria fra Croazia e Argentina, e i gauchos, soprattutto Palito, hanno di nuovo la chance di rompere il tabù. Quattro finali giocate, tutte perse, l’ultima nel 2011. A volte buttate via, spesso smarrite nei litigi fra i clan, nelle dualità irrisolte. Un tempo Vilas e Clerc, poi Nalbandian e Del Potro, che con la nazionale ha sempre avuto un rapporto tormentato. Lo accusavano di snobbarla, ma dopo tutti i suoi infortuni, le quattro operazioni al polso, e una carriera che sembrava due volte finita e che quest’anno invece è ripartita alla grande. Come capita ai campioni segnati dal destino, il «revenant» Del Potro è diventato il beniamino di tutti. Dopo 8 mesi di stop è rientra to nei top-50 e trascinato l’albiceleste in finale di Coppa. A Rio ha battuto fra le lacrime Djokovic e quasi strappato la finale olimpica a Murray, poi ha trovato 10mila persone ad aspettarlo a Tandil, più di quelle che lo accolsero il giorno dopo la storica vittoria agli Us Open del 2009. Lo stesso Slam che ha vinto (nel 2014) Marin Cilic, il n.1 dei padroni di casa, anche lui riemerso da anni difficili. La Croazia una Davis l’ha vinta, nel 2005 contro la Slovacchia a Bratislava; stavolta per il bis punta sui servizi di Marin e di Mister Ace, Ivo Karlovic. L’Argentina spera in un exploit di Leo Mayer in doppio e del secondo singolarista Delbonis, ma è più che mai aggrappata a Palito, il campione vissuto tre volte.
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“Flavia mio coach? No, fa già la moglie” (Marco Lombardo, Il Giornale)
Nuovo team, nuovo sponsor tecnico, nuova vita. «Mi fa piacere abbiano capito che sono un po’ cambiato» dice Fabio Fognini, che con lo sponsor Hydrogen e dopo un 2016 sull’altalena. Il bicchiere pienissimo è il matrimonio con Flavia Pennetta, che non sarà la sua nuova allenatrice dopo il divorzio tecnico con Josè Perlas: «Scherzavamo, anche se qualcuno ci ha creduto. Flavia è meglio che faccia la moglie, che mi deve già sopportare abbastanza».
Quello mezzo vuoto è una stagione che lo ha visto vincere un torneo ma anche saltare un terzo della stagione per infortunio: «Ma l’ho gestita bene, sono ancora tra i primi 50 del mondo».
Insomma Fabio, che tennis sarà?
Spero buono: a giorni comunicherò la mia nuova squadra e comincerò ad allenarmi duro. Devo tornare numero uno d’Italia e provare ad entrare in Top 10. Prometto di rimettermi sotto.
E allora che Fognini sarà, soprattutto?
Di sicuro il matrimonio mi ha cambiato: mi sono molto calmato in campo. Diciamo che non sono più un bambino e sono contento che si noti.
Ora è cambiato anche il vertice della classifica.
Murray se lo merita, per tutto quello che ha fatto negli ultimi mesi. È il suo momento. Però aspettiamo prima di dare per morto Djokovic. La sua flessione è normale, succede a tutti gli sportivi che arrivano all’apice. Arriva il momento in cui la testa non regge e il fisico comincia a dare segnali di stanchezza. Ma vorrei dire solo una cosa. Per Nole essere in declino vuol dire arrivare in finale al Masters. Non so se mi spiego.
Nel 2017 torneranno anche Federer e Nadal: differenze?
Sono due grandi campioni, difficile dire però cosa può succedere. Mi sbilancio un po’: faccio fatica a dire che rivedremo Rafa lottare per il numero 1. Siccome però stiamo parlando di uno che ha vinto 9 volte Parigi ed è resuscitato più volte, non si sa mai. E Roger, beh, beato lui, a 35 anni ha ancora voglia di lottare. Da suo collega posso solo dirti che sono molto contento: è l’unico per cui pagherei il biglietto per vederlo giocare.
Fognini invece di anni ne ha un po’ meno: sarà ancora lì a lottare a lungo?
Confesso: in campo a 35 anni non mi ci vedo. Penso all’anno che viene, che è meglio.
Magari poi invece vedremo Fabio insegnare tennis…
Io allenatore? Guarda, per come sono fatto non mi ci vedo proprio. Però venisse fuori un altro pazzo come Kyrgios, chissà: avrei tante cose da spiegargli…
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Il brutto delle bellissime del tennis (Emanuela Audisio, La Repubblica – Il Venerdì)
Ha denudato il mondo della moda e delle riviste patinate, ha mostrato il lato brutto del bello e le occhiaie dell’impero della bellezza. Ora passa ai campi rettangolari, al sudore dello spogliatoio, a tutte quelle che, come Serena Williams, prendono a schiaffi il mondo. Il Diavolo ora veste completi da tennis, sempre firmati. Lauren Weisberger è la ragazza che dopo aver passato 11 mesi a Vogue come assistente personale della direttrice ,Anne Wintour, scrisse il libro (2003) su un mondo «dove non si era mai abbastanza magre, dove si andava al lavoro in stiletto, ombelico nudo e pelliccia» e dove, come mostrò il successivo film con una strepitosa Meryl Streep nel ruolo di Miranda Priestly, si complottava con il tacco 13 e ci si pugnalava in Louboutin. Perché anche lassù dove tutto luccica, si gioca sporco. Ora Lauren, 39 anni, si è sposata, è madre di due figli, 4 e 5 anni, e si è ricordata della sua grande passione, il tennis, che ha giocato, anche se non ad alti livelli. E pubblica Il Diavolo vince a Wimbledon dove si parla di Charlie, una giocatrice professionista che si rompe polso e tendine d’Achille nel celebre torneo inglese, e che al suo rientro dopo la lunga rieducazione cambia: allenatore, look, comportamento. Tutto pur di vincere. Ma qual è il prezzo del successo? Lauren sembra si diverta a far vedere che fama e celebrità non sono sempre in funzione. È un falò delle vanità che brucia e spreca vite. La novità è che stavolta è il mondo dello sport a essere frugato e soprattutto il tennis che ti illude con la sua magia e poi ti stravolge con il suo cinismo. L’importante è vendere e far circolare la tua immagine. E pazienza se a te fa male. Lauren sembra avere un debole per chi sta dalla parte giusta, ma finisce per fare le cose sbagliate e diventa vittima. «Forse un po’ è vero. Ma non c’è paragone tra il mio ultimo personaggio, Charlie, e Andy, l’assistente schiavizzata, che correva su e giù a portare il caffè alla sua terribile direttrice. Andy non sa ancora verso quale direzione muoverà la sua vita mentre Charlie, la tennista, sa esattamente dove vuole arrivare. Sa che dovrà affrontare sacrifici e quali dovranno essere le sue priorità. Sceglie un coach brutale, che non ha mai allenato le donne, si mette a dieta, smette di bere caffè e di essere amichevole. Diventa antipatica. Si sottopone a un restyling della sua immagine: diventerà la Principessa Guerriera. Con tanto di addetta allo stile che le dice cosa deve indossare e come truccarsi anche quando esce». Quindi è come dire che anche lo sport è falso, costruito solo per vendere magliette? «No. La fatica delle ragazze è vera. Ho girato per mesi nei tornei, e ringrazio la Wta che mi ha fornito accrediti e mi ha permesso di vivere da vicino alcune situazioni. Quella che mi ha assistito e che mi ha raccontato vizi e virtù del circuito è Daniela Hantuchová, slovacca, una giocatrice vera, una bellezza da un metro e 81, cresciuta nell’accademia di Nick Bollettieri». Daniela è stata sempre considerata da tutti tra le più belle giocatrici del circuito. Sports Illustrated nel 2002 la nominò «best supporting actress», miglior attrice non protagonista dietro la diva Serena. «Non credo che il peccato delle star sportive sia quello di essere false o di fare attenzione a cosa indossano, però in quest’epoca l’immagine conta e va curata. Io ho un grandissimo rispetto per Serena Williams, mi piace la sua aggressività quando gioca e come sia capace di prendere posizione sulle cose che a lei interessano. Sa rispondere alle critiche. Né voglio smontare i sogni di tutte quelle ragazze che vogliono diventare campionesse, m’interessa solo dire: attenzione, perché per salire in alto non serve solo determinazione, disciplina, energia, ma anche rinuncia a un po’ di umanità. Certo incontrerete molta gente famosa, ma alla fine il luccichio sparirà e vi ritroverete sole in una stanza con davanti una partita da giocare». Scusi, Lauren, ma se questo non è smontare un sogno ci somiglia molto. «Non c’è solo la lotta in campo tra le giocatrici, ma anche quella fuori campo tra gli sport per avere visibilità. Non voglio impedire a nessuno di giocare a tennis e di provare a diventare numero uno. Lo sport aiuta ad avere identità e dignità, basti pensare a quello che hanno fatto tenniste come Billie Jean King e Martina Navratilova, per avere parità di diritti e di salario. Ma di sicuro oggi il gioco richiede uno sforzo fisico notevole: vinci, vai a letto, perché domani devi rigiocare, ma sei ancora così piena di adrenalina che non riesci a dormire e a recuperare energie. Quello che non immaginavo è che una tennista viaggia 48 settimane l’anno, è sempre in tour, in tante rinunciano anche ad avere una casa perché tanto a cosa serve se non ci possono mai stare?». Sorpresa dalla vittoria di Flavia Pennetta agli Us Open dello scorso anno? «Non ero a Flushing Meadows, ho visto la finale in tv, come anche il successo in semifinale di Roberta Vinci che ha impedito il Grande Slam a Serena Willams. Si, molto sorpresa dalla bella favola. Non perché sia made in Italy, ma perché si tratta di una ragazza di 33 anni, che in vita sua non aveva mai vinto un grande torneo, che finalmente ce la fa, e contro un’altra ragazza, sua amica, con cui giocava da bambina. E nel momento in cui alza il trofeo ha il coraggio di dire: lascio. Grazie, ma basta cosi, il cerchio si chiude. È quello che fa nel libro anche la mia Charlie, che però non si sa se vincerà, ma che non vuol continuare per sempre a fare la girovaga con la racchetta, soprattutto quando il suo cuore troverà qualcuno a cui pensare. Gliel’ho detto, qui il diavolo veste l’ambizione, ma Charlie sa come rispondere e non si fa rubare la partita e la vita»