Gli articoli più letti dell'anno. Febbraio: sono Rafa Nadal e mi scuso con voi

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Gli articoli più letti dell’anno. Febbraio: sono Rafa Nadal e mi scuso con voi

Vi riproponiamo gli articoli di maggior successo del 2016 di Ubitennis, quelli più apprezzati da voi lettori. A febbraio, il viaggio di Alessandro Stella nella mente di Rafa Nadal

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Ho assistito ad alcune confessioni e sto vivendo il grigio del mio declino, ma questo non mi impedisce di richiamare su di me la vostra attenzione

Ecco, mettiamola così: sono Rafael Nadal (cioè non proprio io, sono il Nadal che abita nelle mente di ognuno di voi) e siccome mi tocca frenare la discesa della mia popolarità mi scuso con voi. Insomma ha cominciato quello che per sei volte mi ha fatto da sparring a Parigi, poi è arrivata la lettera di “Mister 23-11” (stacce Ruggé, si fa per ridere) e che l’abbia scritta lui o meno ho deciso di farvi anch’io le mie confidenze. O quantomeno, ho delegato il Rafacito umile e laborioso che passeggia sinistro tra le vostre sinapsi; Dio non voglia lo scozzesello fresco di Davis (o peggio, il mio usurpatore Chatrieriano) decida di unirsi alla moda e riesca a precedermi, non la vivrei benissimo.

La verità? Di una cosa vorrei scusarmi. Io non ho servito il tennis, piuttosto me ne sono servito per costruire un impero. Avete presente nascere e sapere – sin dal primo istante – che da qualche parte c’è un qualcosa che aspetta di essere fatto da te, e solo da te? Tu sei lì con uno zio che prova a farti mangiare con la sinistra e non capisci perché, ma a un certo punto semplicemente lo sai. E vedi tutto. Vedi il tuo diritto terrificante, vedi i tuoi diciannove anni aver ragione delle prime sette partite parigine e poi delle successive ventuno, vedi i cinque set con i quali entri nella leggenda mentre accanto a te è quasi buio e il tuo avversario in bianco sembra più stupefatto che sconfitto. Torno in me, faccio un salto nel caldo boreale del 2016 e focalizzo un momento: tutto questo un giorno finirà. Servirà una dedizione folle, ossessiva, eppure non basterà per sempre; ci sarà un momento in cui la normalità tennistica inghiottirà la mia figura imperlata di vittorie per restituire un surrogato privo di èpos, battibile, sfiancato dai tempi. Questo è l’attimo in cui mi è permesso scegliere se ne vale la pena e non riesco a esitare: scelgo la grandezza al prezzo di una rovinosa caduta, il sacrificio per una gloria con la data di scadenza. L’orgoglio di sapermi l’unico a poter fare quello che farò mi impedisce una scelta differente.

Questo non significa che io stesso non odi profondamente il mio nuovo presente che mi costringe ad ammettere – per nobilitare le mie stesse stentate prestazioni – che uno come questo Djokovic non l’ho mai visto giocare, e mi fa perdere al quinto due partite solleticando invano il mio istinto alla lotta. L’altra verità è che io non ho mai realmente amato le vittorie, piuttosto ho odiato le sconfitte: ho imparato ad apprezzare ogni trionfo solo in quanto privo dell’onta di una delusione. I miei avversari non erano quelli di fronte a me in campo, sapevo di poterli battere più o meno tutti con confortante regolarità; il mio nemico era il senso di inadeguatezza che consegue al fallimento, con il quale non ho mai voluto imparare a convivere. Fu per me già rivoluzionario ammettere che dalle ceneri di alcune sconfitte potessero nascere le più sorprendenti vittorie: imparai a dare a Darcis quel che è di Darcis per poi firmare la migliore estate della mia vita, quando fui davvero grande per l’ultima volta.

Oggi però è diverso. Se esiste un margine entro il quale far navigare la mia nuova carriera non può contemplare una sconfitta al primo turno, specie quando non è al servizio di futuri successi ma piuttosto fluttua nei miei stessi dubbi di poter ancora sollevare, mordere, sorridere. Questa mia nuova mortalità non conferisce ulteriore lustro al passato come è accaduto ad altri, perché secondo le leggi del tennis bisogna cadere gradualmente per avere diritto alle attenuanti. Oggi mi sento inerme e quando dico che non ero pronto dico una verità, non potevo immaginare di essere così mortale. Di questo sono il primo a dovermi scusare: con me stesso per essermi ingannato, con i tifosi ancora inebriati dall’eco lontana del mio mito, con i miei avversari a cui sono servito sempre più di quanto loro siano serviti a me.

Se poi fossi più presuntuoso potrei esigere (sì, questa volta io da voi) delle scuse per una certa, reiterata, abitudine di mettere in discussione la legittimità del mio impero. In realtà la necessità – che molti tra voi hanno palesato – di cercare una giustificazione alle mie gesta fuori dall’ordinario mi ha parzialmente inorgoglito, per quanto mi è concesso dal mio scarso senso di soddisfazione. È in un certo senso la più grande dimostrazione del mio successo, per curioso paradosso proveniente proprio da coloro i quali mi hanno amato di meno.

Immagino ora che vi aspettiate da me delle certezze, qualcuno addirittura delle rassicurazioni, ma adesso che sono così nudo al cospetto delle mie debolezze non posso più nascondermi. Quello che ho visto, che in qualche modo già sapevo, si ferma a oggi: che sarebbe finita, in modo più inevitabile che sorprendente, e mi avrebbe proiettato in un realtà per me del tutto nuova. Non so però cosa sarà domani, perché se è vero che continuare così ancora a lungo non rispetterebbe i termini del mio patto con il campo, non posso ancora essere sicuro di non avere altro da chiedere al tennis. E a costo di ripeterlo per la decima volta, sarebbe imperdonabile riporre assieme alla racchetta il dubbio che qualcosa – di esclusivamente mio – possa ancora essere fatto.

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