Quell’Italia che fece la storia. Davis, un trionfo lungo 40 anni (Semeraro). “Quella Coppa completò il mio riscatto” (Ferrero). Una Coppa e due Italie: quella che vinse in Cile e l’altra che perse a casa (Tauceri)

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Quell’Italia che fece la storia. Davis, un trionfo lungo 40 anni (Semeraro). “Quella Coppa completò il mio riscatto” (Ferrero). Una Coppa e due Italie: quella che vinse in Cile e l’altra che perse a casa (Tauceri)

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Quell’Italia che fece la storia. Davis, un trionfo lungo 40 anni (Stefano Semeraro, La Stampa)

Quarant’anni, un’altra vita. E un altro tennis. Il 18 dicembre 1976 a Santiago del Cile l’Italia alzava la sua prima – e unica – Coppa Davis. Le foto sono fossili in bianco e nero, i colori li vedi comunque: la maglietta rossa di Adriano Panatta e Paolo Bertolucci (e chissà se il «boia» Pinochet capì la protesta cromatica), l’azzurro degli occhi di capitan Pietrangeli che saettavano felicità. Il viso abbronzato di Tonino Zugarelli, i capelli castani di Corrado Barazzutti. Un gruppo favoloso. Tre su quattro – l’eccezione è Zugarelli – sono poi stati stati a loro volta ct. Con Panatta e Bertolucci in panchina è cresciuto Andrea Gaudenzi, che con la spalla sdrucita ci trascinò all’ultima finale, persa nel ’98 a Milano contro una Svezia crepuscolare. In panca Barazzutti ha vissuto una semifinale in Davis e soprattutto da capitano di Fed Cup un ciclo da urlo con Pennetta, Schiavone e Co.. Brividi e sofferenze, in campo e fuori. Il suo tennis era sacrificio, il suo messaggio semplice: come la nazionale non c’è niente. «E’ il filo che lega quella Davis vinta da giocatore e i successi in Fed degli ultimi anni da capitano», spiega. «Fare parte di un gruppo. Vincere per un ideale. Perché possiamo anche fare i distaccati, dire quello che vogliamo, smitizzare la Davis e la Fed Cup. Ma alla fine rimane la gara che ti dà più emozioni». Effetto setaccio. Lo ha sempre detto «Barazza»: la coppa è il setaccio che divide il mondo del tennis in due insiemi raramente comunicanti. Nei tornei viene fuori il giocatore, in nazionale l’uomo (e la donna). «E poi non è vero che oggi i più forti la snobbano: chiedetelo a Del Potro, a Maradona che era a tifarlo nell’ultima finale vinta dall’Argentina a Zagabria. A Nalbandian, che avrebbe dato l’anima per vincerla, e non ci è mai riuscito, o a Fognini, che quando gioca in Davis si trasforma. Qualcosa vorrà pure dire, no?». All’Italia è andata bene una volta su sette, comprese le due finali perse da Pietrangeli e Sirola (’60 e ’61), le altre tre (’77, ’79 e ’80) lasciate per strada dai ragazzi di Belardinelli. Adesso l’insalatiera vogliono cambiarla, mutilarla, adattarla ai voleri delle tv che chiedono tempi e spazi certi. «Tre set su cinque, vince chi è più forte, chi regge tre giorni a questi ritmi. Roba per superatleti. Per me la Davis è questo. Ma forse sono discorsi da vecchio». O forse ideali senza tempo.

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Quella Coppa completò il mio riscatto” (Federico Ferrero, L’Unità)

Il quarto uomo della Coppa Davis 1976 ha ancora i baffi, è vicino ai 67 anni ed esce di casa, tutte le mattine, per guadagnarsi la giornata, ovviamente col tennis. Tonino Zugarelli, aveva un gioco brillante, gagliardo. Essersi fatto spazio tra due fenomeni come Panatta e il capitano non giocatore Pietrangeli, e due campioni come Barazzutti e Bertolucci, fu un’impresa. Una storia nata in borgata, tra disagio e piccola criminalità: una storia che lui chiama «riscatto, perché a casa mia era un successo se non mancava il necessario».

Il pubblico ha ancora negli occhi la foto con Pietrangeli, Panatta e l’insalatiera in primo piano.

Però se non si fosse passato il turno in Inghilterra, credo che non si sarebbe mai parlato di magliette rosse, del boicottaggio al boia Pinochet e di tutto quello che la gente ricorda ancora dopo quarant’anni da quella Davis.

Lei batté Taylor sull’erba di Wimbledon, giocando al posto di Barazzutti. È vero che voi due facevate comunella mentre, di là, c’erano Panatta e Bertolucci e non vi rivolgevate la parola?

Pietrangeli ha detto che correvamo a coppie, due da una parte e gli altri due nella direzione opposta. Non era così: magari vedevamo la vita in maniera diversa, Adriano e Paolo bazzicavano il night al sabato, mentre Corrado e io non frequentavamo quegli ambienti. Se davvero ci fossero stati due clan, se non ci fosse stato rispetto tra noi, non saremmo diventati una grande squadra.

In quel dicembre del ‘76, la sinistra vi spingeva a restare in Italia. Lei aveva 26 anni, cosa ne pensava?

Sapevamo bene delle dittature militari. Pietrangeli ebbe il grande merito di portarci a disputare la finale, aveva anche conoscenze politiche per sostenere la sua scelta. Ma la finale l’abbiamo conquistata noi, giocando e vincendo, eravamo adulti, sapevamo cosa si doveva fare. E poi ci tengo a dire anche che il nostro vero punto di riferimento, in squadra, era Mario Belardinelli: era lui il nastro coach.

Non vi prendevate proprio, lei e il capitano?

No, è che la mia estrazione era semplice e povera. Mettermi in mostra non è mai stato nella mia indole: per lui, invece, valeva esattamente l’opposto. Quindi non era facile andare d’accordo. Ora siamo amici, ci vogliamo bene, ma a quei tempi c’erano attriti. Lui amava andare a cena da Caltagirone, ad esempio. Io preferivo stare a casa con mia moglie e i miei figli: rifiutavo tutte le cose che per lui erano normali, forse ce l’aveva un po’ con me.

I due romani, a parte Nicola, eravate lei e Adriano. Lui alto, bello, famoso anche se si definiva uno del popolo, uno di sinistra. Ma quello non era già il suo, di ruolo?

Lui era il figlio del custode, sì, ma mica del campetto in periferia, stava ai Parioli. Perciò il padre aveva una casa, uno stipendio: niente di lussuoso, ma non dovevano controllare se il giorno dopo pioveva, come me che stavo in una specie di villaggetto costruito alla buona a fianco del Tevere. Adesso lì ci sono i locali; negli anni Sessanta trovavi solo il tizio che vendeva le cozze col limone e i cocomeri d’estate. Come tutti i ragazzi di borgata, tiravo calci al pallone. Giocavo da attaccante o ala destra. Fui acquistato dalla Roma, che però mi girò all’Almas in serie D. La presi talmente male che smisi, subito. E intanto, per portare a casa due soldi, facevo il raccattapalle e il palleggiatore: quando uno dei signori che prenotavano l’ora non veniva, lo sostituivo e mi davano la mancia. Sicuramente, rispetto agli altri giocatori, ho perso tanto tempo.

Gli altri tre sono stati capitani di Davis, hanno avuto e hanno incarichi, li si vede in tv. Lei è fuori dal giro.

Mi mandarono via una prima volta dalla federazione perché un funzionario aveva preso di petto una mia frase sull’organizzazione del lavoro e mi cancellò dalla rubrica. Non mi chiamò mai a firmare il rinnovo del contratto e mi ritrovai, letteralmente, col sedere per terra. Quando Adriano diventò direttore tecnico, poi, lavorai con lui tre anni: facemmo crescere Pistolesi, Gaudenzi, Furlan, Pescosolido, Camporese, Nargiso. Mica male, no? Poi, quando Adriano fu mandato via, fecero lo stesso con me. Viviamo in un Paese di prevaricatori.

Forse lei ebbe anche la sfortuna di avere davanti tre campioni negli stessi anni: lei è stato 27 al mondo, oggi sarebbe il migliore degli italiani.

Se giocassi adesso e rimanessi, come ho fatto allora, per sette-otto anni nei primi trenta del mondo, sarei milionario. Invece devo alzarmi alle sei e mezza, ed esco di casa per andare a lavorare. Abito a Trevignano, sul lago di Bracciano; al mattino magari vado a Roma, do qualche lezione. E sono il supervisore della scuola dove lavorano i miei due figli: un agriturismo con campi da tennis a Sutri, in provincia di Viterbo. Non ho rimpianti, però: il tennis mi ha dato tanto e, in realtà, non mi interesserebbe neanche avere un sacco di soldi. Solo un po’, per stare più tranquillo e rallentare il ritmo.

Ha un ricordo più vivo degli altri, pensando a Santiago del Cile? La finale o la semi la giocavamo quasi tutti gli anni. Per cui non capimmo immediatamente la portata dell’evento, a parte la gioia naturale di tutti. E poi in Cile eravamo partiti con le mogli e i figli: se non ricordo male, quella sera facemmo cena, aprimmo una bottiglia e poi tutti a nanna. Non pensavamo certo che quel giorno avrebbe cambiato la storia del tennis italiano.

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Una Coppa e due Italie: quella che vinse in Cile e l’altra che perse a casa (Silvano Tauceri, Il Giornale)

Passano gli anni, quaranta, ma sembra ieri: la Davis azzurra. Il 18 dicembre 1976 resta una data storica per il trionfo dello sport sulla nostra politica che voleva sfruttare la finale di Santiago contro il regime di Pinochet. L’Italia è divisa. Una parte mobilita la piazza contro la trasferta cilena intonando slogan come «non si giocano volèe nel Cile di Pinochet». Conta su un largo appoggio mediatico sensibile ai richiami della sinistra e ricorda spesso che due mesi prima l’Unione Sovietica s’era rifiutata di giocare la semifinale contro i cileni. L’altra parte guarda all’aspetto sportivo, la grande occasione forse irripetibile per conquistare la coppa Davis sfuggita già due volte ai tempi di Pietrangeli e Sirola. La situazione è politicamente difficile. Si assiste a un lungo gioco di passaggi decisionali, da Andreotti presidente del Consiglio al Coni e da questi alla Federtennis, tutti cercano di prendere tempo. La squadra attende, il divario tecnico è tutto azzurro, alla fine si parte perché la rinuncia favorirebbe l’immagine di Pinochet. Si va. Ed è il primo successo di Nicola Pietrangeli, strenuo difensore dello sport, e che stavolta vuol toccare con mano l’insalatiera d’argento che da giocatore aveva sognato due volte. La finale è salva, due anni prima l’India non l’aveva giocata contro il Sudafrica ancora in pieno regime di apartheid. Il pronostico è obbligato. Adriano Panatta ha vinto Roma e Parigi, con Paolo Bertolucci fa un doppio a livello mondiale, Corrado Barazzutti in coppa non ha perso un colpo, Tonino Zugarelli ha fatto il miracolo londinese. Dall’altra parte Jaime Fillol è il migliore, gioca bene ma vince poco, Patrice Comejo è buon doppista. Il Cile tennistico è tutto qui. L’altro Cile, quello di ogni giorno, è mascherato dalla facciata alzata dal regime, e sembra un Paese tranquillo. L’attenzione è rivolta all’evento, occasione importante anche per Pinochet per dimostrare la sua “democrazia”. E questo benché ci siano migliaia di desaparecidos e qualche centinaio di rifugiati in tenda nel giardino dell’ambasciata italiana. Nessuna provocazione dai nostri media. La libertà di muoversi per la capitale è solo apparente, al tramonto la città diventa deserta anche per l’incombere del coprifuoco. Per un equivoco rischiamo l’arresto. Con i colleghi Daniele Parolini (Corriere della Sera) e Rino Caccioppo (La Stampa) veniamo fermati dalla polizia mentre stiamo rientrando all’albergo sulla collina San Cristobal. Un ufficiale mi prende la macchina fotografica e veniamo portati in caserma. Un capitano ci chiede se sia un teleobiettivo oppure un’arma. Restiamo sei ore chiusi in una stanza, poi gli agenti si scusano e ci accompagnano in albergo. La finale vera gli azzurri l’avevano vinta a settembre contro l’Australia di Newcombe, questa dovrebbe essere solo una formalità. Si comincia di venerdì 17, nessuna scaramanzia. Barazzutti parte incerto e lascia a Fillol il secondo set, poi va liscio. Panatta travolge Cornejo. Due a zero, la coppa è più vicina. Tutto come previsto. Tocca al doppio conquistare il terzo e decisivo punto. C’è una novità non solo cromatica: Panatta e Bertolucci indossano magliette rosse e non blu come al solito, Adriano ha deciso il cambiamento. Un piccolo schiaffo a Pinochet. Dopo il terzo set, c’è il riposo, i due azzurri cambiano ancora colore e tornano al blu. Il prosieguo diventa una formalità, al quarto match-point Fillol manda in rete la risposta al servizio di Panatta: la Davis è vinta. In Italia per la differenza di fuso orario è già notte. La notizia viene data via radio da Mario Giobbe.

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