Australian Open day 1, il video-commento di Ubaldo
Australian Open day 1, le impressioni di Ubaldo e Ben Rothenberg (video)
Rino Tommasi fece infuriare 30 anni fa il presidente della Federazione Australiana (’77-’89) Brian Tobin, che sarebbe poi diventato il presidente della Federazione Internazionale (‘91-’99), scrivendo che l’Australian Open era la “gamba zoppa del tavolo degli Slam”, “the limping leg of the four Slam”. A cavallo degli anni Ottanta l’Aus Open fu vinto due volte da Kriek, una da Teacher. E in finale ci arrivava uno come John Lloyd, meglio noto come… Mister Evert. Ma vi assicuro che l’Australian Open ha fatto passi da gigante in questi anni. Intanto era stato il primo Slam a dotarsi di un tetto nobile. E oggi è l’unico ad avere tre campi coperti. È anche il primo torneo che vende un piccolissimo gruppo di 12 biglietti a dei fortunati (ricchissimi o super VIP?) spettatori che siederanno sul campo, dalla parte opposta al seggio arbitrale, a meno di 8 metri dalla riga esterna del doppio. Con un nuovo viale sopraelevato, il Tanderrum Bridge, si arriva direttamente in città in circa 800 metri di cammino: questo è davvero l’unico Slam che vive nel mezzo della città e di cui la città non può non accorgersi. Fra le cose che mi sono piaciute di meno, però, che gli spot pubblicitari degli sponsor abbiano sostituito la musica al cambio campo.
Ben prima ancora che la serata australiana fosse monopolizzata dalla Svizzera (Wawrinka l’avrebbe sfangata in cinque set; sarà per questa imprevista fatica che ha scagliato una pallata da 2 metri nelle parti basse di Martin Klizan? Federer ha voluto dare giusto un set di hitchkokiano suspense, cedendo uno dei quattro set a Juergen Melzer: solidarietà fra coetanei della classe ’81?), la prima giornata dell’Australian Open è cominciata con il botto. Non tanto per il numero delle teste di serie cadute, cinque fra le ragazze e tre fra gli uomini. Ma perché la prima ad “esplodere” è stata la n.4 (best ranking n.2) Simona Halep non nuova a queste brutte esperienze, dopo due quarti di finale raggiunti nel 2014 e nel 2015 (ma perdendo da Cibulkova e Makarova e subendo da entrambe anche l’umiliazione di un 6-0): oggi ha preso una batosta, 6-3 6-1 dall’americana Shelby Rogers, n.52, ma anche l’anno scorso era uscita al primo turno, 6-4 6-3 con la cinese Shuan Zhang. La rumena, anni fa salita alla ribalta dei gossip-papers più per essersi fatta rimpicciolire chirurgicamente i seni troppo ingombranti che per i risultati, avrebbe avuto bisogno di un ginocchio sano per scavalcare la Rogers. Ma non ce l’ha da mesi. Pare giusto augurarle di rimetterlo a posto presto e ancor meglio dei seni (che vanno benissimo così). Sembrava una giornata pessima per il tennis rumeno, se la Begu non avesse passato il primo round con la sempre imprevedibile Shvedova, perché un’altra rumena, la Tig, era stata la prima a prendere una stesa, 6-0 6-1, e in tempi record (53 minuti), dalla portoricana… di Miami Monica Puig, tornata improvvisamente alla sua forma olimpica. Contento il mio vicino di banco belga, Yves Simon: il Belgio gioca a febbraio contro la Romania in Fed Cup di serie B.
Più che le sorti del tennis rumeno mi interessavano naturalmente quelle del tennis italiano. Ma me la sono vista brutta sullo 0-3 contro il resto del mondo. Infatti Luca Vanni, si è ritirato per uno stiramento inguinale dopo solo 40 minuti e un solo set, 6-1, davanti a Berdych. Quando ho chiesto a Berdych se non si sentiva Maramaldo ad aver ucciso un povero italiano mi ha risposto: “Non l’ho ucciso io, si è ucciso da solo!” prima di esprimersi – senti l’audio – sull’immediato futuro di Roger Federer che al terzo turno potrebbe riguardarlo molto da vicino. Poi hanno perso in due set sia Roberta Vinci – sì lei che qualche orribile sadico si diverte sempre a ricordare a Serena Williams – con la bionda californiana Coco Vandeweghe che pur vomitava in preda a nausea per eccesso di calore 6-1 7-6, sia assai più prevedibilmente Francesca Schiavone (6-2 6-4) cui i quasi 37 anni hanno evidentemente fatto dimenticare che la sua avversaria, Julia Boserup, era peggio classificata di lei, n.119 e sopravvissuta alle qualificazioni. Californiana pure lei. Insomma la West Coast americana, a nome di Serena, si è presa le sue belle rivincite. E Francesca non ha mostrato lo stesso stile ed eleganza di Kiki Bertens, l’olandese n.19 battuta dall’altra americana Varvara Lepchenko e tuttavia serenamente disponibile ad uscire dallo stadio di Melbourne Park per consentire al collega William Held di realizzare un’intervista video per il web del suo quotidiano “De Telegraaf” che l’esclusiva dei diritti tv altrimenti non gli avrebbero consentito. Mi ero appena chiesto se mai una tennista italiana si sarebbe comportata allo stesso modo con un qualsiasi giornalista italiano, quando – arrivato con tre minuti di ritardo alla conferenza stampa di Francesca – le ho chiesto mentre usciva dalla stanza (non fuori dallo stadio, ma da una delle minisalette qui nel centro Media) di scambiare una sola battuta. Non avessi mai osato. Respinto con perdite. Spalle girate e via. Se poi aveste visto l’aria triste, quasi funerea con la quale Roberta Vinci è venuta a parlarci, chiunque avrebbe capito che non sarebbe mai stato il caso di proporle un’intervista one-to-one fuori dello stadio, ma nemmeno nel corridoio. Lì per lì una magra consolazione: il pensiero che con l’altro solo olandese in tabellone Robin Van Haase (atteso, ahilui, da Sasha Zverev) era finita anche la “golden age” del tennis olandese degli anni Novanta (Krajicek, Siemerink, Haarhuis, Eltingh, Krajicek, Schalken, Sluiter, Verkerk, Van Lottum, Brenda Schultz, Oremans, Boogert). All’epoca sembrava incredibile: l’Olanda è più grande della Lombardia?
Segue a pagina 2: il buonumore di Seppi e Lorenzi, gli infortuni spagnoli, l’incontro con Bartoli