Storica Serena. Batte la sorella Venus e supera anche Steffi Graf (Scanagatta). Serena, il lungo viaggio. Ancora un altro Slam per essere la più grande (Clerici). Serena senza fine. Ecco il 23° Slam: “Grazie a Venus” (Crivelli). La regina più vincente è l’obiettivo di Serena (Azzolini). Federer e Nadal, contasto di stili senza un favorito (Bertolucci). Roger e Rafa, “La sfida più inattesa” (Semeraro)

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Storica Serena. Batte la sorella Venus e supera anche Steffi Graf (Scanagatta). Serena, il lungo viaggio. Ancora un altro Slam per essere la più grande (Clerici). Serena senza fine. Ecco il 23° Slam: “Grazie a Venus” (Crivelli). La regina più vincente è l’obiettivo di Serena (Azzolini). Federer e Nadal, contasto di stili senza un favorito (Bertolucci). Roger e Rafa, “La sfida più inattesa” (Semeraro)

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Storica Serena. Batte la sorella Venus e supera anche Steffi Graf (Ubaldo Scanagatta, La Nazione)

Finalmente Serena si è liberata dell’incubo di Steffi Graf. Adesso il record dell’era Open degli Slam, dopo un inseguimento durato anni, è solo suo: sono 23. Steffi divideva con lei quota 22. Serena conosce a malapena (“Ci ho parlato due anni fa”) Margaret Court, oggi seriosa reverendo anglicano che a cavallo fra l’era del finto dilettantismo e del vero professionismo — l’ipocrita barriera fu infranta nel 1968 – conquistò 24 Slam, undici dei quali, però, conquistati “Down Under” e con avversarie così così, perché all’epoca le migliori giocatrici non se la sentivano di affrontare traversate d’un mese. Serena non ha mai visto Margaret praticare il suo serve e volley, perché non era ancora nata. Era un altro tennis, altre racchette, altre palle, molti più tornei sull’erba, tre Slam su quattro. Battendo 6-4 6-4 (82 minuti e ciascun set esattamente di 41) la sorella maggiore di un anno Venus, Serena a 35 anni, 4 mesi e 2 giorni ha vinto il suo settimo Australian Open ed è tornata anche in cima al ranking Wta, detronizzando la tedesca (come la Graf) Angelique Kerber, qui vittoriosa nel suo primo Slam 12 mesi fa. Serena era stata per la prima volta n.1 già nel luglio 2002. Dopo aver vinto Wimbledon e Roland Garros. Avrebbe potuto (forse dovuto) essere n.1 del mondo ininterrottamente da allora, se non avesse saltato per vari motivi otto Slam (sono loro a dare più punti) in questi 15 anni, se non fosse finita talvolta soprappeso, se non si fosse messa in testa di voler fare l’attrice e la produttrice a Hollywood, se non avesse avuto mille love-story non troppo fortunate con più campioni di più sport. Insomma se non si fosse un po’ troppo distratta. E anche se qualche volta — 11 su 28 — a fermarla non fosse stata proprio Venus, la sorella più grande e affettuosa che pure le ha spesso fatto quasi da vice madre dividendo con lei mille trasferte, ben prima del loro primo scontro “pro” ufficiale 19 anni fa qui. Papà Richard, che aveva loro pronosticato un sicuro avvenire da n.1 e n.2 del mondo — e sì gli davano tutti del pazzo — non aveva voluto che giocassero mezza gara junior. Ieri il sorellicidio finale è stato — come è accaduto quasi sempre – bruttino. E’ cominciato con quattro break di fila e qualche doppio fallo di troppo che suggeriva, più che tensione, il solito imbarazzo che due sorelle non possono non avvertire nel doversi dare battaglia più per il pubblico che per loro stesse. “Tanto noi vinceremo comunque” aveva proclamato fiera Venus. Serena, che i suoi “com’on!” stavolta li sussurrava, ha anche spaccato la sua Wilson, nei primi game, sbattendola di piatto a terra. Più un gesto rabbioso per essere scivolata che per altro. Sul 3 pari di entrambi i set fotocopia Venus ha perso il servizio e Serena è andata via liscia verso la vittoria, la prima da quando ha annunciato il matrimonio con Alexis Ohanian. Il fondatore di Reddit era commosso. Beh, per lui, era il primo Slam. Mica il ventitreesimo. Più forte di tutti i tempi Serena, Steffi Graf o Martina Navratilova? “Io per ora non smetto davvero di giocare. Alla fine lo scriverete voi” ha risposto Serena. Ma il confronto tra diverse epoche è solo un divertissement. Senza essere attendibile.

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Serena, il lungo viaggio. Ancora un altro Slam per essere la più grande (Gianni Clerici, La Repubblica)

Continuano, a Melbourne, le proiezioni di Amarcord. Giovedì quella con il Principe Marcello di Folco nei panni di Federer, venerdì di un Nadal travestito da tennista, e non meno commovente di Titta Biondi, ieri infine Serena Williams addobbata alla Magali Noël, la Gradisca. Non vorrei peccare di sentimentalismo, nel confessare che mi sono a tratti commosso, ma a tratti anche annoiato, nel rivedere le proiezioni di vicende alle quali avevo tante volte assistito. E stamani, per chi non ha già smesso di leggermi, avremo l’ultima, quella tra Federer e Nadal, già vista 34 volte (Rafa 23 a 11), che dovrebbe terminare con la vittoria del Roger. Oggi, dunque, ho assistito alla ventottesima partita tra Serena e Venus. Conosciute quasi trent’anni addietro, il giorno in cui il Padre Padrone Richard, le aveva mostrate al mio amico scriba Bud Collins, chiedendo, per l’intervista, 1000 dollari che Bud aveva rifiutate, non immaginandosi quale sarebbe stato il futuro. Ma torniamo alla proiezione odierna, con una Serena imbattibile, se non in una giornata inimmaginabile come quella contro Roberta Vinci a Flushing Meadows. Una Serena che aveva percorso gli incontri quasi si trattasse di una passeggiata sulla spiaggia di Melbourne, Santa Kilda, senza ostacoli, come dettata da un copione banalissimo. Per far sì che la finale fosse le copia delle ultime partite, ad apparire sua avversaria era addirittura sua sorella Venus, felicemente scampata al morbo di Sjögren che ne aveva addirittura messo in forse la vita. Venus, come sempre, dominava quella che è ormai la sua vecchia sorellina per l’aspetto da palcoscenico. Longitipo, gambe lunghissime fuoruscenti da una gonnellina multicolore, petto mirabile seminascosto da una canottierina bianca, capelli raccolti in una crocchia affascinante. Quanto a Serena, i suoi muscolacci non riuscivano a essere celati da una mezza tuta nera, mentre la sottana a zebra iniziava addirittura sotto le ghiandole mammarie non meno muscolose dei bicipiti. Il match, iniziato con quattro break, presunto effetto emotivo, è poi continuato con la prevalenza di Serena, che nell’ultimo game, quello del 6-4, chiudeva con due aces, come doveva averle suggerito il suo coach Mouratoglou, mentre un un fidanzatino, tale Alexis Ohanian, che pareva suo figlio, batteva le mani estasiato. Il secondo set seguiva la vicenda del primo, con equilibrio sino al 3 pari, e un decisivo sprint muscolare di Serena, che chiudeva il previsto copione con un nuovo 6-4, e con una lieve superiorità sottolineata dai suoi 27 colpi vincenti contro 21, e due errori in meno di Venus, 23 a 25. Attorniate dai dirigenti australiani, le due pronunciavano discorsi che non mi sembravano preparati, ma autenticamente sentiti, nell’ascoltare Serena affermare di trovarsi viva e felice, grazie alla indispensabile presenza di Venus, «mia ispiratrice». In tribuna applaudiva, non certo per l’inquadratura televisiva, Margaret Smith sposata Court, l’australiana che ancora detiene il record degli Slam vinti (24) e che Serena insegue da vicino, e penso supererà come ha superato la Graf (23 Slam a 22) a meno di nuove circostanze, quali l’affermazione tennistica di una simil Henin, o un matrimonio che la spinga verso un una nuova vita priva di racchette. Quel che abbiamo ammirato è stato insomma un felice déjà vu, ma non una vicenda della quale non si è felicitato Trump, mentre avrebbe certo suscitato il pubblico interesse di Obama. Un uomo che avrebbe forse sottolineato una frase di Serena in conferenza stampa: «Penso che sia l’amore, a permettere conquiste, non la guerra». Io che sono vissuto nel tennis ricordo la sorpresa della prima nera vincitrice di Wimbledon, Althea Gibson, quando, insieme al mio partner Orlando Sirola la invitammo a cena, perché gli altri tennisti bianchi non la frequentavano. Come la volta che tutte le giocatrici, al suo apparire negli spogliatoi di Forest Hills, ne uscirono indignate. Le Williams non hanno dovuto subire simile apartheid, e tuttavia ci sono state volte, come a Indian Wells, in cui il pubblico di casa ha preferito il razzismo all’identificazione. Ma quasi tutto è bene quel che finisce bene. Questa sera Venus e Serena non saranno certo sole in un gran ristorante di Melbourne, il Melba o il Box Seafood. Mi spiace solo esser tanto lontano.

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Serena senza fine. Ecco il 23° Slam: “Grazie a Venus” (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Lo spettacolo non è in campo. Perché non può sgorgare dallo stesso sangue, dai ricordi condivisi, da un legame che il tempo ha reso addirittura più intimo e saldo. Lo spettacolo è nel sorriso placido e pacifico di Venus la risorta, tornata a giocare una finale Slam dopo nove anni e addirittura a quasi venti dalla prima, gli Us Open del 1997; è nell’abbraccio con cui Serena la stringe, emozionata e riconoscente, dopo il punto che consegna a lei, la Williams minore e più forte, la gloria e la leggenda del 23 Major, uno in più della Graf finalmente sganciata e a uno soltanto dal record di Margaret Court, che peraltro ne vinse 13 prima dell’Era Open, quando i viaggi in Australia erano ancora per avventurieri più che per tennisti. Soprattutto, lo spettacolo è in quel comune sguardo all’indietro, a due decenni di trionfi familiari, a un evo infinito che i posteri dedicheranno al nome delle figlie del signor Richard, che il loro sport l’hanno cambiato per davvero, ma anche rivolto alla vita che dispensa fortuna dopo averti travolto di lacrime. L’Australia è di Serena Williams, per la settima volta, e senza perdere un set, perché neppure la sorella ha nelle corde il ritmo giusto per mantenere in bilico la loro 28^ sfida. Manca lo show tecnico: i servizi balbuzienti, specialmente all’inizio, sono il sintomo della tensione, ma alla vincitrice basta non forzare gli scambi rovescio contro rovescio, la diagonale che soffre di più, per portare senza strappi il match dalla sua parte. Le cronache racconteranno che si è trattato della finale Slam con l’età combinata più alta, 71 anni e 351 giorni (36 e 35 anni), perché è chiaro che le Kerber, le Muguruza, le Pliskova potranno vivere qualche settimana da leonesse, ma non possiedono un’unghia del carisma, della personalità, dell’ambizione delle due ragazze cresciute nel ghetto di Compton. Il tennis femminile sono ancora loro, aspettando la redenzione primaverile della Sharapova. Con il successo, Serena torna al numero uno del mondo (settimana 310) e, considerato il livello delle altre, se non il Grande Slam (pessimo ricordo), inseguirà a breve proprio quel 24^ della Court: «Sono dove volevo essere, è un traguardo che tante volte ho visto così vicino e finalmente sono riuscita a raggiungere. E’ bello vincere il primo Slam della stagione, perché ti dà più tempo per assaporare il successo: e poi qui, nel 1998, era cominciata la mia avventura in un Major. Ma non ci sarebbe stato il 23° Slam, e nessun altro Slam, se accanto a me non avessi avuto Venus, che è sempre stata la mia unica ispirazione. La vedo allenarsi tutti i giorni, e la sua forza mi stupisce ogni volta, se penso a quello che ha passato». Da morte a vita, e non è una frase fatta: per lei l’embolia polmonare nel 2010, per Venus la Sindrome di Sjoegren dal 2011, una malattia che per tanti è addirittura invalidante. Eppure sono sempre qui, imperiture, cuore e acciaio: «L’importante è che sulla coppa ci sia il nome Williams», dicono all’unisono. E Venere ci altro amore: «Lei è la mia sorellina, ogni sua vittoria è anche una mia vittoria». E’ facile scadere nella retorica della ripartenza dopo la caduta, ma da quel misterioso episodio del ricovero, Serena ha vinto 10 Slam. O forse bisogna davvero applaudire coach Mouratoglou, che la sta accompagnando in questa parte del viaggio: «Se gioca come sa, non perde mai. Neppure per i prossimi due o tre anni. Ma deve sempre essere motivata, e sicuramente l’obiettivo dei 24 Slam o, perché no, del Grande Slam, è qualcosa che la renderà ferocemente desiderosa di continuare a vincere». C’era del metodo, nella lucida follia agonistica di papà Richard quando mise ad entrambe una racchetta in mano, e Serena ne è consapevole: «A suo modo, è stato un genio: ci ha insegnato cose che nessun altro conosceva, non saremmo qui senza di lui». E finalmente anche l’argomento tabù per definizione scioglie lo spirito di Serena: «La più grande di sempre? Sicuramente sono tra le prime tre. La questione riguarda soltanto me, la Graf e la Navratilova». Solo che le altre hanno già smesso di ruggire.

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La regina più vincente è l’obiettivo di Serena (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Non sono più i derby arruffati di una volta. Le sfide Familiari di casa Williams sono diventate adulte, più posate, meno emotive, ma non diverse nel risultato. Serena è diventata più forte di Venus, sa gestire meglio i momenti importanti del match, non butta via punti già fatti, sa come e dove colpire. Voleva vincere e l’ha fatto, 6-4 6-4, senza concedere molto allo spettacolo, ammesso che fosse la giornata giusta per farlo. Venus, piuttosto, è rimasta la tennista capocciona come nessun’altra, e questo suo amore per le complicazioni, per lo spreco organizzato, si nota anche di più, emerge fra colpi mai tenuti a freno come servirebbe, ma liberi di viaggiare verso lidi lontani. Del resto, come avrebbe potuto combattere la sua malattia, Venus, se non fosse stata una così amabile testona? Di certo non vi sarebbe riuscita continuando a giocare per tutti questi anni come se nulla fosse. Alla fine ha avuto ragione lei, e se non è uno Slam vinto, forse è un’impresa anche più grande. Così, non è stata la finale che il pubblico si aspettava, ma è stata ugualmente una finale storica. Venus dovrà accontentarsi di esservi giunta, non è poco. Aveva giocato l’ultima finale australiana 14 anni fa, quasi un’altra vita. Serena invece s’è presa tutto. La vittoria e il n. 1, che aveva lasciato in affitto quattro mesi alla tedesca Kerber; che proprio a Melbourne l’anno scorso l’aveva battuta annunciando che il tennis femminile stava per cambiare. Non del tutto, come si vede. Serena è qui, e ha voglia di andare avanti, almeno fino a quando sarà salita sulla cima di uno Slam. Il suo 7 Australian Open, un torneo che l’ha spesso aiutata nei momenti difficili, porta il conto a 23 vittorie, una in più di Steffi Graf, una in meno di Margaret Court, che ha assistito dalla tribuna. Altri due e Serena sarà in testa. Può agguantarli ovunque, non le mancano i colpi e nemmeno le risorse fisiche. Può vincere Wimbledon e Us Open. Persino Parigi. Poi, si vedrà. C’era un giovane signore, nel box del suo team, che l’aspetta. Alexis Ohanian, creatore di app di successo, molto compreso nella parte e molto commosso, al primo Slam da fidanzato ufficiale. Il match si è risolto con i break del sesto gioco, in entrambi i set. E tutti a favore di Serena. L’avvio è stato da brivido, le Sister dovevano smaltire un pizzico di emozione. Quattro break, prima dell’inizio vero della finale. Ma di gioco ce ne è stato poco, gli scambi raramente hanno superato i tre o quattro colpi. Restano partite ai confini del tennis, questi derby familiari. Le due sorelle hanno troppo in comune, troppe storie private e personali da condividere, troppi allenamenti assieme, perché non si creino ostacoli a una partita normale. Serena ha tenuto meglio gli scambi, perciò ha vinto. Venus non ne ha fatto un dramma. «Erano anni che non giocavo una finale, ma non penso di aver dimenticato come si fa. Come in bici, quando impari, è per sempre». Aggiunge una riflessione su Serena: «E una giocatrice ancora in evoluzione, ed è incredibile per questo. Sa sempre cosa fare, riesce a trovare soluzioni facili dove altre nemmeno ci provano. Ora è migliore di me. Comunque, è bello che sulla coppa ci sia scritto il nome Williams, non vi pare?». «Ventitré e un bel numero e tutto questo lo devo a Venus», chiude Serena, «ma 24 sarà ancora più bello. Melbourne è una città che mi ispira. Mi sento cresciuta, mi piacciono le sensazioni che provo. Da piccola volevo vincere uno Slam. Ora voglio vincere sempre». Lo farà. Il tennis resta suo.

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Federer e Nadal, contasto di stili senza un favorito (Paolo Bertolucci, La Gazzetta dello Sport)

Gli immortali sono di nuovo tra noi. Roger Federer e Rafa Nadal hanno stupito per primi loro stessi e ancor di più i milioni di tifosi che, sia pure a malincuore, avevano riposto i sogni nel cassetto e mai avrebbero pensato che nella prima prova Slam dell’anno avrebbero potuto assistere alla «reunion». Questa non è una finale come tutte le altre, questa è «la partita», per l’attesa che suscita negli appassionati di tutto il mondo, e non soltanto tra i tifosi dei due giocatori. Uno scontro nel segno del classico, perché lo sport a questi livelli di eccellenza non ha età. Aggiungiamoci anche che fino a qualche mese fa, se non addirittura settimana, era più facile pensarli sulla via del ritiro, afflitti da serissimi infortuni, piuttosto che in una finale così importante. Si affrontano due fenomeni che si nutrono di motivazioni speciali, frutto di tanto lavoro, del semplice gusto per il gioco, dell’amore per il tennis. Vedremo, ancora una volta, il talento e l’eleganza di Roger alle prese con la fisicità e la solidità di Rafa. Un contrasto di stili che ha infiammato e diviso milioni di fan, una rivalità che ha contribuito a sdoganare definitivamente il tennis allargandone i confini e che ha finito per trascendere lo sport puro e semplice. I due, dopo le mille battaglie sostenute, si conoscono a memoria ma credo che in questa occasione potremmo assistere a qualche leggera modifica tattica. Nadal, quando riesce a far partire lo scambio e a mettere nell’angolo sinistro l’avversario con il micidiale gancio mancino, è ancora un bel vedere. A volte affiorano alcune titubanze, il braccio perde leggermente in scioltezza ma le esecuzioni a sventaglio dal lato destro del campo colpiscono nel segno al momento opportuno. La difesa è tornata a essere ermetica, la tenuta mentale non preoccupa e la classe emerge con prepotenza quando alza il rendimento nei momenti decisivi della partita. Non poteva scegliersi uno sparring partner migliore (il bulgaro Dimitrov in semifinale) per testare lo stato di forma e simulare azioni e schemi di gioco simili a quelli che abitualmente propone Federer. Lo svizzero, però, si affida a soluzioni più ardite, comanda con disinvoltura le azioni e possiede la risposta corretta anche di fronte alle domande più scomode. Rispetto al passato e per sfruttare la velocità del campo, sono convinto che in questa occasione Roger apporterà alcune modifiche al consueto piano tattico. Al di là della scontata superiore aggressività nella ribattuta, potremmo assistere anche ad una maggior ricerca del dritto dello spagnolo in modo da liberare lo spazio necessario per l’affondo sul lato scoperto. La superiore varietà di soluzioni tecniche e tattiche potrebbe bilanciare lo svantaggio che inevitabilmente risiede nella lunga distanza. Non c’è un favorito, che vinca il migliore ma, soprattutto, cosa faremo noi quando non avremo più la possibilità di applaudirli?

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Roger e Rafa, “La sfida più inattesa” (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

Sembra il remake sportivo di un film indimenticabile, “Il giorno della marmotta’; dove il meteorologo Bill Murray si svegliava sempre nello stesso giorno, costretto in un infinito deja-vu a ripetere gli stessi gesti, gli stessi spostamenti, a incontrare sempre le stesse persone alla stessa ora. Roger Federer e Rafa Nadal non fanno che perdersi e puntualmente ritrovarsi, sia dentro sia fuori dal campo. La finale di stamattina è il loro 35° giorno da marmotte – il primo fu a Miami nel 2004 – ma, contrariamente al film, tutti, loro compresi, sperano che non sia l’ultimo. Perché dopo essere stati semplicemente rivali, da più di un decennio ormai i due fenomeni sono fan dichiarati l’uno dell’altro. I clan riuniti si trovarono anni fa nel ristorante di famiglia dei Nadal, a Manacor: una cena di pesce come si usa da sempre per sancire un’alleanza. Rafa in passato ha partecipato alle esibizioni di beneficenza organizzate da Roger, nel prossimo settembre a Praga entrambi faranno parte della squadra europea di Laver Cup, una via di mezzo fra Coppa Davis e Ryder Cup creata e organizzata anche dalla società di management di Federer, Team8. Quando nello scorso ottobre si è trattato di tagliare il nastro alla Rafa Nadal Academy a Manacor è arrivata una telefonata da Basilea: «Ciao, sono Roger, se ti fa piacere vengo all’inaugurazione». Il peggiore dei rivali, il miglior testimonial possibile. «Sei uno dei più grandi tennisti di sempre – ha spiegato Roger in quell’occasione, completo scuro e microfono in mano – e quello che mi ha influenzato di più, che mi ha costretto a reinventare il mio gioco. E ora so dove mandare i miei figli se vorranno giocare a tennis». Amicizia e marketing, per due fuoriclasse che a tratti sembrano un marchio comune – il Fedal come lo chiama qualcuno – una joint venture destinata a distribuire dividendi anche in futuro. Nadal, che da tempo ha confessato il suo paradosso di ammiratore («se non dovessi giocarci contro tiferei anch’io per Federer…») ha ricordato l’episodio anche dopo la semifinale vinta su Dimitrov. «All’inaugurazione era previsto che io e Roger ci affrontassimo in un’esibizione, ma io avevo male al polso, lui al ginocchio, così abbiamo lasciato perdere. Nessuno dei due avrebbe mai pensato di poter arrivare in finale qui in Australia. Sarà la partita dei sogni, per me è un privilegio giocarla contro di lui». Lo strano caso di due fuoriclasse abituati a darsi reciprocamente scacco su una scacchiera infinita, perché se Federer è il Più Grande, Nadal è l’avversario che lo ha battuto quasi sempre – 23 volte in 34 incontri, 6volte su 8 nelle finali dei major – e che Federer non riesce a battere in uno Slam da dieci anni. Federer il Migliore, Nadal il Più Forte? Il segreto sta nel non rispondere, e continuare a vivere all’infinito la partita dei sogni. Proprio come in un film.

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