Quando superò Svetlana Kuznetsova al Roland Garros, in un epico terzo set concluso 10-8, Francesca Schiavone invertì i ruoli in conferenza stampa, interrogando i giornalisti con un solo quesito: “Avete visto quella demi-volèe?”. Come si fa al circolo, quando con l’asciugamano sulle spalle chiacchieri con l’avversario di turno del match appena terminato. Il sorriso stanchissimo ma contento di chi ha giocato milioni di colpi, macinato chilometri e vinto partite (e tornei, magari uno Slam), ma riesce ancora ad emozionarsi e godere di quanto di buono riesca a fare. Aveva 35 anni. Oggi ne ha due di più, e nel discorso di ringraziamento a fine torneo ringrazia il pubblico colombiano con un “La vita è bellissima, ed è emozionante sentire il calore di chi viene a cercare il mio tennis”. Quasi commossa. Non è certo per il torneo appena vinto a Bogotà, che le si dovrebbe rendere merito: il tabellone era oggettivamente mediocre, e nel cammino fino al trofeo Francesca ha superato una sola top 20, l’olandese Kiki Bertens (20 WTA). Non batteva un’avversaria di tale classifica proprio da quella tregenda a Bois de Boulogne contro Kuznetsova, allora 18 del mondo. Quella stessa russa con cui diede vita al match più lungo della storia del tennis femminile, 6-4 1-6 16-14 in 4 ore e 44 minuti, negli ottavi degli Australian Open: una follia, ancora un volta con il sorriso.
Figuriamoci se è per le sue qualità da telecronista socialdipendente, con quel turpiloquio gioviale puntualmente ripreso da Elena Pero su SKY, o le apparizioni sul suo neonato SchiavoChannel su Youtube, dove a inizio anno si è esibita in una sorta di spot per se stessa in cui davanti alla telecamera smetteva i panni civili per calzare scarpette e mimare gesti da tennista. Perché il suo mondo è quello e non si discute, farebbe meglio a non contaminarlo con attività che per quanto attinenti, non appartengono alla sua sfera, intesa come indole, come habitat. Ed è meglio così, perché abbottonata e contenuta nei ritmi e nei volumi della televisione non potrebbe dare sfogo a quella impulsività naturale e spontanea, ma rarissimamente condannabile, con cui continua a trascinare pubblico e addetti ai lavori. Un telecronista anglofono, nel commentare il suo meraviglioso passante in corsa contro Larsson, si domandava “How could you retire, Francesca?“. Come fai a ritirarti, se giochi così? E ancora non è possibile, per quanto sarebbe inutile, dire se è per le sue buone attitudini da coach: sono anni che afferma la volontà di voler avviare un’accademia a Miami, tenendo sulle spine anche i colleghi, quelli veri. A Londra, durante le ultime Finals, nel corso di un giro in battello per SKY Filippo Volandri confessava che “io mi ritiro, ma Francesca non vuole dircelo. In ogni caso un altro anno se fossi in lei lo farei, atleticamente è in condizioni perfette”. E si è visto anche sull’altopiano colombiano: 2640 metri sopra il livello del mare, e non sentirli. Tutte vittorie in due set, gestendo respirazione, pioggia, interruzioni. In finale, mentre Arruabarrena, di tredici anni più giovane, si faceva fasciare il quadricipite, lei era già a fondo campo a saltellare.
E anche se può sembrare un concetto indigesto, non è per i suoi risultati: otto titoli, quel Roland Garros di sette anni fa con cui fece letteralmente innamorare il mondo del tennis a troneggiare fiero. Le labbra rosse dopo il bacio alla manciata di terra raccolta dal Philippe Chatrier dopo la vittoria su Stosur, la chimerica cavalcata fino alla finale dell’anno successivo persa senza affatto sfigurare contro Na Li. Tutto questo a fare da apripista per la successiva arrampicata di Errani, nel 2012. Quattro Fed Cup conquistate. Da protagonista contro il terribile Belgio (seppur orfano di Kim Clijsters) nel 2006 con il successo su Flipkens e nel doppio; con la lievissima macchia della polemica nel 2013, quando rinunciò alla finale (o almeno è quello che si dice) contro la rimaneggiatissima Russia che collassò 0-4. Nemmeno dopo il trionfo di Parigi mancarono le tirate di orecchi, quei 400.000 euro di premio gettarono un’ombra materialistica sulla favole più bella che si potesse narrare.
Per la classe e l’educazione con cui si è sempre mostrata, in campo come in conferenza (qualche sua collega ne ha sciorinata ben meno, oggettivamente). Per la concezione del tennis come sport, e quindi come amore per la disciplina e per se stessa, che si sono tradotti nel continuo prefissare obiettivi da raggiungere e distruggere, con la carta d’identità a prendere polvere in un cassetto, perché chissenefrega. Per l’eleganza, non solo del suo gioco classico e spettacolare, quanto piuttosto del suo essere genuina e praticamente mai sopra le righe al di fuori del campo: pur lasciandosi andare a gestualità evidenti durante le pause di gioco, diventando un tormentone virale. Per l’onestà e l’orgoglio con cui ha rappresentato il tennis azzurro, diventandone simbolo e punto di riferimento, con la virtuale fascia di capitano con cui ha trainato le compagne verso la consapevolezza di potercela fare. Non è certo grazie a lei che Errani ha fatto finale a Parigi, o Pennetta ha vinto New York, ma vedere una amica connazionale raggiungere certi traguardi, da sicuramente un’iniezione di grinta e fiducia importanti. Per la figura iconica che Francesca Schiavone ha impersonato in questi anni, per il tennis italiano: per questo avrebbe meritato ben altre parole da chi sui suoi successi ha tutto sommato costruito e portato avanti un’immagine. Per questo quel “gliel’abbiamo sempre data la wild card, ora largo ai giovani” suona non tanto come irriconoscenza, quanto come scarsa comprensione di umanità. E per questo Francesca Schiavone sarà superiore.