Wimbledon: tabellone maschile – tabellone femminile
Avevano vinto il loro ultimo torneo, il numero 112, un anno fa a Roma. Le leggende del doppio, i recordmen incontrastati che da quasi vent’anni sono protagonisti nel tour come forse nessuna altro specialista prima di loro. Bob e Mike Bryan, i gemelli d’oro: uno mancino e uno destro, come se la natura avesse voluto renderli adatti a coprire il campo senza lacune, fisicamente prima ancora che grazie al talento tennistico. Sono tornati a vincere sull’erba di Eastbourne, rimpolpando il loro record di successi ATP: con Wimbledon alle porte, non poteva esserci migliore iniezione di fiducia. Li avevamo incontrati a Roma, quando tutti sudati dopo le interviste con le televisioni ci avevano raggiunto all’ingresso del corridoio che porta ala sala stampa, nella pancia del Campo Centrale: due transenne scavalcate come se fossero gradini, e due strette di mano calorose, a dir poco. “Who’s who?”, niente scherzi da gemelli, fuori i nomi e cominciamo. Qualche giorno prima avevamo parlato con Henri Kontinen, finlandese attuale numero uno di specialità, che a gennaio in coppia con Peers li ha battuti in finale agli Australian Open. Praticamente come prima cosa ci aveva detto quanto i Bryan siano considerati i modelli per ogni giocatore di doppio. “Questo ci fa sentire molto bene; siamo rimasti integri fisicamente per vent’anni, e siamo riusciti ad essere abbastanza continui in termini di risultati. Siamo soddisfatti di quello che abbiamo fatto, ma abbiamo ancora sogni e speranze. Forse adesso sta iniziando a diventare un po’ strano sapere che noi siamo gli anziani del tour, e un ragazzo come Kontinen era un giovanotto mentre noi vincevamo il nostro primo Slam. Abbiamo visto passare un paio di generazioni”.
Effettivamente: la prima finale nel 1999 a Orlando, persa contro Courier/Woodbridge. Il primo titolo due anni dopo, a Memphis, torneo deceduto che avrebbero vinto altre tre volte: centotredici titoli, sedici trofei Slam, vent’anni nel circuito. Mike ha due cristalli in più in bacheca, vinti con Knowles e Bhupathi quando il gemello era infortunato, nel 2002. Eppure ancora lì a porsi obiettivi, sia in termini di risultati che di gioco: “Vogliamo continuare a migliorare ovviamente, speriamo di fare meglio ogni partita ed è per questo che siamo ancora qui. Pensiamo di poter ancora vincere i tornei importanti, siamo ancora a caccia: adesso ci sono forse una ventina di coppie che possono batterci, in passato ce n’erano cinque. Ci sentiamo ancora giovanissimi, abbiamo compiuto trentanove anni qualche settimana fa ma abbiamo ancora vita e voglia. E obiettivi, in particolare gli Slam: se ne vincessimo uno e ci ritirassimo sarebbe fantastico. Vedremo come finirà quest’anno e poi valuteremo cosa fare il prossimo”. Sorridenti, disponibili, abbronzati: i tratti tipici della loro California, due ragazzoni castani e atletici. Entrambi oltre il metro e novanta, fanno fatica a restare sotto l’arco della porta dove si svolge l’intervista.
Avevamo chiacchierato anche con la leggendaria Martina Hingis, che come i Bryan è nel tennis che conta da una vita: tra i cambiamenti che più l’hanno sorpresa in questo lasso di tempo, i social media. Risponde Mike, sgranando gli occhi: “Vero, io litigo con mia moglie perché non devo avere il cellulare a tavola! Sono diventati una distrazione enorme, non solo per i giovani anche per noi”. Bob la mette sul piano educativo: “Da padre te ne accorgi di più: quando eravamo giovani noi si andava ai club, si scherzava per strada e non si faceva altro. Poi tennis e atletica, tiravamo a canestro, andavamo a nuotare. Le distrazioni sono aumentate, e la vita on tour si è adattata: ci sono mille cose che adesso si possono fare sui dispositivi portatili: i più giovani, così come i nostri figli, dobbiamo prenderli a calci nel sedere per tenerli in moto”.
È impressionante la somiglianza tra i due: non tanto per i tratti somatici, ovviamente, quanto per i movimenti e gli atteggiamenti: sembrano due droni, ogni dettaglio di uno si ripete nell’altro. L’andatura saltellata come se ci fosse un sottofondo hip hop, il modo di maneggiare le bottigliette e le racchette. Due automi identici e perfetti. I futuri numeri uno, le stelle del domani, hanno praticamente un terzo della loro età e da quest’anno si giocheranno le NextGen ATP Finals a Milano: saranno introdotti dei cambiamenti importanti. Il doppio è storicamente territorio di esperimenti: “Va bene provare, testare per vederne i risultati. Per i fan è meglio un formato più rapido, è dura concentrarsi su un match per tre o cinque ore durante gli Slam. Io non mi concentro per venti secondi! Il tentativo è positivo, vedremo che ne sarà dei cambiamenti. Per quello che riguarda noi, in college giocavamo senza let, quindi sarebbe un bel ritorno al passato. Ma non abbiamo più vent’anni, quindi non ci riguarda!”.
Votati per otto volte come “Fan’s Favourite” nel doppio, e nominati “Coppia del decennio” dall’ATP nel 2010. Due personalità enormi nel mondo del tennis, e negli Stati Uniti, con cui hanno però un rapporto particolare: all’inizio di quest’anno l’addio alla Davis, chiusa con un bilancio di 24-5, la coppia più vincente della storia a stelle e strisce. Curiosamente, tutte le sconfitte sono arrivate in casa. Bob non ha dubbi: “C’è una teoria: quando siamo in trasferta, viaggiamo solo con team e preparatore, non ci sono troppe distrazioni e questo aiuta ad essere più coesi e concentrati, soprattutto perché si gioca in un ambiente sportivamente ostile, quindi ci facciamo forza. Quando giochiamo in casa c’è la famiglia, gli amici che ne fanno una vacanza: ci chiedono biglietti, trascorriamo del tempo con loro dopo gli allenamenti. Quindi è più facile distrarci e magari non dare il massimo”.
La Davis resta però un tassello fondamentale e indelebile della loro carriera. Mike conserva forse il ricordo più bello della sua carriera: “La vittoria a Portland nel 2007, era il match decisivo di fronte al pubblico di casa. Gli Stati Uniti non vincevano la Davis da 15 anni, è stato grandioso (superarono la Russia, ndr). Se chiedi il ricordo più importante a Bob, parlerà della medaglia d’oro, già lo so!”, scherzano come due adolescenti. Il mancino conferma: “La medaglia d’oro ci ha dato la svolta definitiva, ci ha fatto uscire dalla bolla. Essere campioni olimpici è qualcosa di riconosciuto universalmente, è fantastico: a Pechino vincemmo il bronzo e pensavamo fosse un gran risultato, ma quando rientrammo a casa tutti ci chiedevano cosa fosse successo, dovevamo dare delle spiegazioni per non aver vinto. Il bronzo non è abbastanza negli Stati Uniti, non si sa perché: riprenderci a Londra è stato grandioso”. Londra è stata teatro di svariati successi per i gemelloni: “Un altro ricordo vivissimo, e che rimarrà tale, è quello delle Finals nel 2009. Arrivammo in finale dopo un cammino pazzesco, e se avessimo vinto avremmo chiuso al numero uno: prima del torneo eravamo indietro di 1300 punti, per fortuna Nestor e Zimonjic persero al round robin. Noi però perdemmo il primo match del girone, quindi dovevamo arrivare in finale senza perdere un set e vincere il torneo, per chiudere in vetta. Era stato un anno durissimo, di lavoro e anche frustrazione: concluderlo in quel modo è stato magnifico, difficile da descrivere”.
A ripercorrere la loro carriera si rischia di inciampare nella quantità di successi e gloria che hanno raccolto, pur attraversando momenti non facili come per l’appunto l’ultimo anno: appena tre finali da maggio scorso, due delle quali Slam, perse a Parigi 2016 contro i Lopez, e a gennaio a Melbourne contro Kontinen/Peers. Ora forse l’ultimo assalto ad un Major, che manca dagli US Open 2014, per coronare al meglio una vita da miti. Ma le Olimpiadi 2020? “Ci vediamo a Tokyo!”.