Tennis in Tour: il sacro prato del Centre Court

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Tennis in Tour: il sacro prato del Centre Court

Fra mito e realtà, tradizione e ammodernamento, il viaggiatore appassionato di tennis sbarca a Londra. Vivrà un’esperienza sportiva che non ha eguali. Nella più internazionale fra le capitali europee, quella che più di tutte odora di mondo

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Non è dato sapere come sarebbero stati i Championships se li avesse ideati Lewis Carroll. Certo è che nel mondo del tennis i sogni corrono lungo un arcobaleno verde e viola, mescolandosi ai ricordi di estati lontane. Sfocate istantanee di un bambino impegnato in infiniti battimuro, mentre in tv, su un magnifico prato solcato da linee di gesso, volava un intoccabile uomo-gazzella che pareva discendere dagli Asi. Il sogno fattosi realtà ha come teatro l’elegante sobborgo di Wimbledon, periferia sudoccidentale di Londra. Sul centrale più famoso del mondo, da 140 anni a questa parte si perpetua ogni luglio quel rito che solo il baratro della guerra ha osato interrompere. Per due settimane, a spezzare la monotonia di inizio estate che già pervade quel bambino ormai ossessionato dal tennis. Proprio nel momento in cui la noia subentra improvvisamente all’eccitazione da ultima campanella. Alzi la mano chi non si è innamorato perdutamente di questo sport nelle frementi mattine che precedevano l’epilogo finale. Fregandosene altamente – eh sì – di chi giocava. Che fosse Tilden, Lenglen, Sampras, Navratilova, Rosewall, Borg, Graf o Federer, la maestà del luogo ha sempre sovrastato qualsivoglia campione, anche quelli in odor di santità.

Quei fili d’erba sono stati sfiorati da piedi da étoile. Soffocati da sgambate degne di un toro che vede rosso. Accarezzati da deliziosi ricami telecomandati da mani fatate. E se il primo pensiero va allo svedese che più di tutti è sembrato inscalfibile sui prati di SW19, giocando con la manopola del tempo su quel campo troviamo un ragazzo australiano dalla mano benedetta e dal braccio veloce quanto un razzo. Dicono sia stato il più grande di tutti. Un altro paio di tacche a ritroso e il court si trasforma in un palcoscenico su cui fluttua divinamente una tennista rubata a un prestigioso corpo di ballo. Cionondimeno, non c’è protagonista, per quanto zeppo di coppe sia il suo salone, che possa oscurare la signorilità della club house, la religiosità dei silenzi pre-battuta, la musicalità della palla che impatta sui teloni, la maniacale cura delle aiuole, la gioia composta da picnic borghese innaffiato da bicchieri di Pimm’s e addolcito dalle fragole con panna. E persino le idiosincrasie verso il rigido protocollo, dove a farla da padrona è una cerimoniosità sussiegosa nei confronti delle teste coronate che comprendeva l’anacronistico (vogliamo dire odioso?) inchino al Royal Box, fortunatamente abolito. Si va a Wimbledon per Wimbledon. E, se ci scappa, anche per Federer e Nadal. E se amici, parenti e affini sono talmente refrattari al fascino del tennis da snobbare i campionati per antonomasia, magari ricordiamo loro che si svolgono nella capitale britannica. L’ombelico del fu impero su cui non tramontava il sole. E ancora oggi cuore pulsante di un’Europa con la quale vivere un rapporto da separati in casa, Brexit o non Brexit. Che ne dite, l’aficionado ha abbastanza atout per convincere la sua ciurma a imbarcarsi nell’ennesima trasferta?

Quale Londra?

Diciamolo subito. Se c’è una città che rifiuta orgogliosamente la banalità dei “selfie con vestigia”, quella è proprio la capitale britannica. Non ridurrà a impotenza le fiumane di turisti “scatta e fuggi”, questo no. Ma sguiscerà beffarda fra i pixel che cercheranno inutilmente di fissarne l’essenza. Per un semplice motivo: la metropoli dei 300 idiomi, conditi da altrettante cucine che la fanno odorare di mondo, non è incasellabile. Tanto vale approcciarla con l’umiltà e la pazienza del viaggiatore e godere di quel frammento infinitesimale di sé che ci regalerà, costringendoci a tornare mille e mille volte per constatarne la mutevolezza. Ben poco potrà l’efficientamento della nostra tabella di marcia in questa Babilonia, dove prendono vita le pagine fuligginose di Dickens mentre il cuore corre appresso ai riff violenti dei Sex Pistols. Ma da qualcosa si dovrà pur iniziare, consapevoli che l’altro rito, quello dei sacri prati, incombe. E noi lo faremo partendo dai palazzi del potere.

Torri, gioielli e custodi alati

Simbolo della conquista dell’odiato invasore normanno, fortezza inespugnabile, carcere di massima sicurezza. Oggi patrimonio dell’Unesco, la Torre di Londra ospita anche i gioielli della Corona inglese. Una tappa che soddisfa sia lo storico sia il collezionista di foto ricordo. Da compiere senza disturbare gli inquilini di lusso della struttura. Ovverosia, i suoi celebri corvi, alla cui sopravvivenza –  dicono – è legato il destino della monarchia e della Gran Bretagna.

Il palazzo che impressionò Monet

Intravederne il profilo avvolto dalla nebbia londinese, come nel celebre quadro di Monet che l’aficionado ha ammirato visitando il Museo D’Orsay poche settimane fa, rende questo imponente edificio neogotico ancora più affascinante. Altro perla dichiarata Patrimonio dell’Umanità, Westminster, in quanto sede della Camera dei Lord e di quella dei Comuni è l’istituzione britannica per eccellenza, con lo svettante Big Ben a scandire inesorabile i ritmi metropolitani.

Citofonare Windsor

Anche se non siete patiti di dinastie e protocolli di corte, la residenza della famiglia reale merita una visita. Mescolati fra turisti, curiosi e provocatori di professione, che tendono trappole ai soldati impegnati nel cambio della guardia, potremo semplicemente osservare quanto il rapporto fra i Windsor e i loro sudditi, seppur tra alti e bassi, continui a essere forte. Se volete varcare i cancelli di Buckingham Palace, per ammirarne magari i magnifici giardini, potrete farlo solo nella stagione estiva.

I luoghi di culto 

La sua cupola classica riempie il cielo di Londra. D’altronde, la Cattedrale di St. Paul è la principale chiesa anglicana della città ed è sorta, nella sua ricostruzione successiva al grande incendio del 1666, con l’intento di essere la risposta d’Oltremanica alla Basilica di San Pietro. Tutt’altro che una sua imitazione, l’edificio rappresenta un magnifico esempio di barocco inglese. Degna seconda, Westminster Abbey si differenzia da St. Paul per la forte impronta gotica. Molte le teste coronate sepolte qui, ma non passeranno inosservati i cenotafi di personaggi famosi, da Oscar Wilde a Lady Diana.

I musei

L’offerta culturale della capitale britannica, in gran parte gratuita, è sterminata. Fortunatamente, la guida ufficiale per i visitatori aiuterà la nostra ciurma nella difficile scelta. Noi, volendo vincere facile, proponiamo due indiscutibili colossi. Nella National Gallery, paradiso per gli amanti delle arti figurative, ci imbatteremo senza volerlo, passeggiando per Trafalgar Square. Più di 2000 quadri, da Paolo Uccello a Cézanne. Come perdere l’opportunità di ammirare Il ritratto dei coniugi Arnolfini di van Eyck o Bagnanti ad Asnières di Seurat? I fregi del Partenone, la Stele di Rosetta, lo Stendardo di Ur. In altre parole, la storia dell’umanità in un poco meno di 100 stanze. Il British Museum è per l’uomo ciò che le radici sono per l’albero. Un’esperienza ancestrale per… unire i puntini del nostro lungo cammino.

Piazze, mercatini, vita notturna e un po’ di prosopea

Se non siamo troppo sciovinisti, sopporteremo con distaccata benevolenza il superiority complex dei britannici, all’origine di espressioni assolute come “The Championships” o “l’ombelico del mondo”. Innanzitutto dato che, inquadrandole in una prospettiva storica, queste etichette trovano una qualche giustificazione. Ma soprattutto perché, piaccia o no, concorrono a descrivere lo spirito dei londinesi. E allora partiamo da quel Piccadilly Circus, più cuore che ombelico, inizio e fine del nostro girovagare, porta girevole che ci accoglie turisti e ci saluta viaggiatori un po’ più consapevoli di cosa significhi vivere a Londra. Prendiamo, quindi, Shaftesbury Avenue attratti dai suoi teatri, ci fermiamo a Leicester Square per una prima cinematografica. E torniamo sul percorso della grandeur facendo tappa a Trafalgar Square, con la colonna Nelson a ricordarci la tragica vittoria del grande ammiraglio morto nell’omonima battaglia. C’è tempo per una passeggiata serale per Soho o una birra a Covent Garden. Ritemprati da una robusta colazione, la mattina seguente l’aficionado e la sua ciurma sentiranno che è giunta l’ora di fare razzia nei vari mercatini della città. Chi predilige lo stile classico si dirigerà a Portobello Road (aperto solo sabato mattina). Quelli più alternativi si ritroveranno a Camden Town, regno del “diversamente normale”.

Quando l’erba è davvero più verde

“The picnic is suspended”. Negli stupendi parchi londinesi non sentiremo l’annuncio più temuto dagli spettatori di Wimbledon, ma dobbiamo mettere in conto improvvisi rovesci e conseguenti fughe che guasteranno la festa. È uno dei paradossi inglesi: avere un clima che rende lussureggianti prati e portafogli dei giardinieri, ma che complica notevolmente la fruizione delle aree verdi. Per cui, weather permitting, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta: St James Park, Hyde Park, Regent’s Park, Green Park, Kensington Park, fino a Richmond, non troppo distante dall’All England Club. Basta che le interruzioni improvvise siano ben accette.

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Come muoversi
Dove alloggiare

Un torneo inimitabile, tra mistica, tradizione e modernità

Non sarà una messa cantata, ma poco ci manca. Varcare per la prima volta i cancelli che delimitano l’AELTC, i Doherty Gates, è una missione per la quale si è disposti ad accamparsi per quasi 24 ore. Al contempo, si tratta davvero di un’esperienza da raccontare ai nipoti. Come la prima volta che ammiri le guglie dolomitiche arrossate al tramonto. O che ti scontri con piazza San Marco uscendo da una calle buia. Tutto ebbe inizio in Whorple Road, nel 1877, quando per contare i partecipanti bastarono 4 mani e spiccioli. Nel 1922 il trasloco a Church Road, da dove il Centre Court non si sarebbe più spostato. È difficile trovare un luogo più legato alla tradizione. Ma ciò non significa che il rigido quanto cauto comitato organizzatore non abbia di volta in volta introdotto nella cornice, apparentemente immutabile, del club importanti innovazioni. Allo scopo di garantire il consolidamento della posizione di predominio nei confronti di qualsiasi altra competizione tennistica. E come assicura il chairman di Wimbledon, Philip Brook, neanche il torneo per antonomasia può cullarsi sugli allori. Per questi motivi è scattato il Masterplan, che comporterà una profondo ripensamento delle pur efficienti strutture attualmente in uso. Un tetto retrattile anche per il Court No. 1, abbattimento di edifici esistenti e spostamento di alcuni campi secondari allo scopo di consentire una più agevole circolazione di pubblico e addetti ai lavori per il ground.

Nonostante le insistenze dei suoi compagni di viaggio, il nostro appassionato non ha svelato loro come ottenere l’accesso all’Eden. Il perché è presto detto. Di buon mattino, li farà scendere alla fermata Southfields della District Line, intorno alle 10. Di lì, guiderà il gruppo verso i famosi cancelli e tirerà fuori un bel po’ di tende ad apertura rapida. Iniziandoli, così, al più dolce e sentito di tutti i riti cui si sottopongono i masochistici suiveur“I’ve queued up, queued up, queued up!” recita l’adesivo che, dopo 22 ore nelle quali il clima potrebbe essere cambiato più velocemente che in un timelapse, si faranno appiccicare sulla polo. Solo dopo aver indossato il braccialetto che garantisce un biglietto per il centrale. Tre o quattro ore in meno in coda e la missione sarebbe fallita. Infatti, se puntiamo ai due stadi principali, i biglietti giornalieri – disponibili per l’intero torneo a esclusione degli ultimi 4 giorni – sono solo 1000, equamente divisi tra Centre e Court No. 1. Ciò che l’aficionado ha pensato bene di omettere è che sono decenni che si ostina a partecipare al ballot – la lotteria che dà diritto all’acquisto di un tagliando – finendo per fare un buco nell’acqua. Insomma, siamo pronti a campeggiare?

L’albo d’oro

Femminile

Con la recentissima vittoria di Nadal al Roland Garros, il tennis ha rispolverato il sistema metrico decimale. A Wimbledon solo Martina Navratilova ci è andata vicino, quando la spagnola Conchita Martinez le nega, nel 1994, di andare in doppia cifra. Segue Helen Wills, padrona del tennis a cavallo degli anni ’20 e ’30. Per lei 8 piatti. Con 7 allori nella sua bacheca, Dorothea Douglass Chambers è la pioniera delle plurivincitrici. Titoli ottenuti tra il 1903 e il 1914. Per suo conto, Suzanne Lenglen se ne aggiudica 6 fra il 1919 e il 1925, sul campo che ne sancì la beatificazione. In tempi più moderni, numeri importantissimi per Fraulein Forehand, anche detta Steffi Graf, con 7 vittorie fra il 1988 e il 1996. Solo una in meno per la statunitense Billie Jean King, nel decennio 1966-75. Un capitolo a parte va scritto sulle sorelle Williams. Manca solo che comincino ad adibire il Centre Court a backyard per la raccolta differenziata, tale è la loro frequentazione del sacro prato. Battute irriverenti a parte, il loro ruolino è spaventoso; 7 trofei per Serena, 5 per Venus e ben 4 finali monocognome (3-1 il bilancio a favore di Venus). Fra le altre multi-slammer, triplette per Maureen Connolly (1952-54), Margaret Court (1963, 1965 e 1970), Chris Evert (1974, 1976 e 1981). Arriviamo all’oggi. Con i due titoli del 2011 e del 2014, Petra Kvitova può essere considerata come l’atleta più erbivora della sua generazione. Ce la farà a vincere l’edizione 2017, dopo l’aggressione subita in casa a fine 2016, fatto che poteva costarle la carriera?

Maschile

Non essendo esperti di cabala, non sappiamo se la regola del 7 abbia un significato recondito. Quel che è noto a tutti è che c’è un uomo che da un quindicennio abbondante a questa parte sembra riuscire a toccare livelli metafisici ogniqualvolta calchi questi prati: Roger Federer.  Il fuoriclasse elvetico vuole disperatamente l’ottava perla, che lo renderebbe il tennista più vincente a Church Road. Per distacco, visto che condivide questo titolo con Pete Sampras e William Renshaw, ma per quest’ultimo parliamo di challenge round e di ere tennistica fa. Fra gli altri miti il pensiero corre a Björn Borg e alla sua cinquina (1976-1980) che ha dato senso compiuto al termine “aura”. Citazione d’obbligo per i fratelli Doherty, cui sono intitolati i cancelli che delimitano il club. D’altronde il decennio fra il 1897 e il 1906 è loro appannaggio: Reginald vince 4 titoli, Lawrence 5. In era dilettantistica, siamo negli anni ’20-’30, triplette per Tilden e Perry, mentre i moschettieri Borotra, Lacoste e Cochet ottengono due allori a testa. Gli anni seguenti vedono emergere due superpotenze, gli Usa e l’Australia. Molte vittorie singole, ma spiccano i nomi di Budge (1937-38), Hoad (1956-57), Laver (1962-63, da dilettante, e 1968-69) ed Emerson (1964-65). Newcombe arriva a quota tre (1967, e 1970-71). Gli anni ’70, come detto, sono cannibalizzati da Borg, con gli americani che raccolgono ben poco. Il suo acerrimo rivale, Jimmy Connors, è capace di vincere due titoli a 8 anni di distanza (1974, 1982). Mentre l’astro nascente John McEnroe, un newyorchese dai toni sguaiati e la mano benedetta, decreta la fine della tirannia scandinava. Tre trofei per lui (1981, e 1983-84). Fra i grandi erbivori degli anni recenti, Becker (1985-86 e 1989) ed Edberg (1988 e 1990) danno luogo alla rivalità più significativa di quegli anni. Fino all’avvento di un americano di origine greca, Pete Sampras, giocatore dal servizio e dall’esplosività devastanti. Agguanta 7 titoli fra il 1993 e il 2000. E viene battuto nel 2001, nel più classico cambio della guardia, dal suo successore, The Swiss Maestro, allora ancora praticante. Sette coppe anche per lui, dal 2003 al 2012. Durante e dopo, solo fab four. Due titoli per il presunto terraiolo Nadal (2008 e 2010). Due per Murray (2013 e 2016), il primo britannico (ma non inglese, per quello che conta) a vincere dal trionfo di Perry del 1936. Tre per Djokovic (2011 e 2014-15).

A chi toccherà quest’anno? In fondo, non importa. A Wimbledon i tennisti, anche gli hall of famer, soccombono inesorabilmente alla vera attrattiva: il Centre Court.

Andrea Ciocci

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