Bresnik: "Il talento non è quello di Fognini e Gulbis, ma quello di Muster e Thiem"

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Bresnik: “Il talento non è quello di Fognini e Gulbis, ma quello di Muster e Thiem”

Gunter Bresnik, l’allenatore di Dominic Thiem che ha seguito anche Graf, Becker, Muster, Gulbis e svariate decine di tennisti ha un’idea tutta sua del talento. “Il duro lavoro e la capacità di sopportarlo è il talento più vero”. Le teorie di Harry Hopman

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C’è un solo coach al mondo che ha allenato 27 giocatori riuscendo a portarli fra i primi 100 del mondo. Si chiama Gunther Bresnik. Nell’intervista che gli feci un anno fa a Parigi, quando aveva portato Dominic Thiem alle semifinali del Roland Garros, scoprite chi e come. Ma ora c’è un supplemento di indagine. Che cosa è il talento, se non quello che consente a un giocatore mediamente dotato di esprimersi meglio dei concorrenti? Ci si è spesso soffermati su questa parola, talento, e l’abbiamo spesso riferita a campioni che sapevano fare cose mirabili, tipo McEnroe, e nel suo piccolo, fatte le debite proporzioni, anche Fabio Fognini. Ciò è accaduto anche venerdì scorso quando Fognini ha fatto vedere le cose più belle, rispetto a Murray, ha alimentato illusioni in tanti, si è convinto perfino lui stesso che a fine partita ha detto in conferenza stampa “Ho giocato meglio di lui“… ma poi alla fine chi è che ha vinto il match? Murray. Senza nemmeno bisogna di ricorrere al quinto set.

Se dicessimo che Murray vince e ha più talento faremmo sobbalzare qualcuno che per talento non intende chi vince ma chi ha più estro, un repertorio più ampio, una mano più da artista. A proposito del talento Gunter Bresnik ha le idee molto chiare e leggete un po’ come le esprime. 

“Nei miei 30 anni da coach chi ha avuto davvero successo è stato chi lavorava più duramente degli altri. Thomas Muster secondo molti non aveva talento, però è diventato n.1 del mondo, ha vinto il Roland Garros, decine di tornei, anche fuori dalla terra rossa. Uno può definire talentuoso un giocatore che impara tutto rapidamente, ma che accade se quelle cose che impara non gli si appiccicano addosso? Per esempio io dico a Dominic di giocare una smorzata di rovescio, lui sbaglia le prime 50, ma dopo, una volta che ha fatto le prime due o tre, gli restano nel suo sistema per sempre. Ho allenato a lungo anche Gulbis. Gli dici di fare la stessa cosa e lui subito la fa benissimo, al primo o al secondo tentativo. Ma dopo due o tre giorni ha scordato tutto. Non c’è più. Alla fine posso dire che Thiem per me ha più talento di Gulbis. Ho reso l’idea? La killer combination, naturalmente, è un misto di talento e duro lavoro e in un’era in cui i tennisti e le tenniste più forti hanno 30 anni e più, sarebbe sciocco dire a Ernests che a 28/29 anni è vecchio e non può più farcela, ma se si fida soltanto del suo supposto talento… è come se non ce lo avesse. Deve capire che senza lavorare duramente, ma molto duramente, i risultati non arrivano“.

Un altro grandissimo e celeberrimo coach, che pure non aveva mai giocato molto bene in singolare, era l’australiano Harry Hopman, chiamato “Geppetto” perché aveva tirato su un campione dopo l’altro: Hoad, Rosewall, Laver, come Mastro Geppetto aveva creato Pinocchio. Anche il suo segreto era lavoro e concentrazione. “Se uno non esce dall’allenamento distrutto vuol dire che non ha lavorato abbastanza – mi raccontava di aver sentito dalla viva voce di Hopman l’ex campione britannico Mark Cox a Roehampton dove ci siamo trovati per l’assemblea generale annuale dell’International Club di cui per l’Italia l’ex prima categoria Marco Gilardelli è il presidente e infaticabile motore, e il sottoscritto il segretario onorario – ma se invece ha lavorato penserà ogni volta che entrerà in campo: ‘Dovrei vincere io perché me lo sono meritato, ho lavorato come più non potevo e chi semina raccoglie‘”.

Questo tipo di mentalità Hopman la instillava in tutti i suoi giocatori che erano capaci di compiere qualsiasi tipo di sacrificio (Rosewall mi disse una volta che i giocatori australiani preferivano evitare di andare al cinema perché guardare le pellicole al buio di un cinematografo poteva alla lunga sciupare la vista, la reattività degli occhi, i riflessi) ma poi quando entravano in campo erano intimamente convinti che avrebbero vinto perché avevano fatto tutto quello che era stato necessario per mettersi nella condizione di poter vincere. Ed era come se sapessero che nessun altro poteva aver fatto più di loro. Con quell’atteggiamento positivo entravano in campo e ci restavano fino alla fine, sempre pensando che semmai sarebbe stato l’avversario a crollare per primo, di fisico o di nervi. Di loro stessi non dubitavano mai.

Secondo voi un Gulbis, un McEnroe, un Fognini, sono mai scesi in campo avendo dentro di sè quell’intima convinzione? Secondo me no. E quella diversa attitudine alla fine fa la differenza fra il campione capace di esprimere continuità, il Nadal che gioca per 4 ore il primo punto come l’ultimo senza mai distrarsi e nulla concedere, il Murray che anche se sta sotto 5-2 nel quarto e sta giocando male non pensa neppure per un attimo di non mettere la prima sulle palle break, di lasciare perdere, il Djokovic che fin quando non ha avuto problemi personali non ha mai lasciato nulla al caso, dalla preparazione atletica all’alimentazione. E perfino Federer, che in teoria avrebbe quello che tutti chiamano talento naturale e che fra i 32 e i 35 anni si è un po’ adagiato sugli allori della sua classe, ha capito che il solo modo per tornare in alto era lavorare come non aveva mai fatto per recuperare fisico e condizione, per non infortunarsi più. E ha smesso di presentarsi impreparato dove rischiava soltanto, oltre a difficilmente evitabili sconfitte sulla terra rossa, anche di farsi male.

Anche Mark Cox (classe 1943) mi diceva di essere rimasto impressionato venerdì sera dalla facilità di Fognini di colpire con le frustate secche di polso (“Colpi cortissimi, senza nessuna vera apertura” sottolineava) quei dritti che lasciavano secco Murray. Cox fu il primo a battere i professionisti della troupe di Jack Kramer nel torneo di Bournemouth (maggio 1968), primo torneo “open” a dilettanti e professionisti, un mese e mezzo prima del torneo di Wimbledon. Cox battè Gonzales in cinque set e poi Emerson, ma perse da Laver sul quale si sarebbe preso però la rivincita all’Australian Open 1971 (avrebbe battuto anche Ken Rosewall all’US open 1972).

Fognini comandava il gioco, e Murray subiva – ha insistito Mark che avevo incontrato la prima volta nel ’73 a Dallas per le finali WCT e con il quale ho pranzato – ma Andy ha un altro tipo di solidità mentale. Vince con la testa più che con i colpi. Fognini avrebbe forse meritato di vincere il quarto set, ma alla fine chi è più continuo nel tennis vince rispetto a chi sembra fare più colpi da applausi. Il campo difficilmente inganna. Fognini è un giocatore bello da vedere, ma se non vince la bellezza resta fine a se stessa, è illusoria“.

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