Umago stories. Un mare di tennis

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Umago stories. Un mare di tennis

Ci sono storie di tennis che non parlano solo di tennis. Questa è una di quelle che vorrete leggere

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Centodue di questi giorni

Ti svegli tardi. È estate ed è anche lunedì. Gli ATP 250 dovrebbero adottare I don’t like Mondays” dei Boomtown Rats come inno ufficiale. Il programma del primo giorno, infatti, è sempre avaro di incontri. A Umago, poi, sono in programma solo due match del tabellone principale e non si comincia prima delle 17.30. Perché è estate, si prende il sole, si fa il bagno, si pranza, ci si concede un meritato riposo dopo queste fatiche e, infine, si guarda il tennis. Invece di prendere il sole, però, vai in città a cercare un adattatore perché l’alimentazione del tuo portatile ha una spina con un polo di troppo e pare che nessuno, neanche i roadies che montano il palco della band dietro la Tribuna Ovest, abbia a portata di mano un pezzo di plastica da 3 euro. Dopo due giorni passati su un Word croato e una tastiera senza vocali accentate, il negozio è finalmente aperto. Forse, non tutto il lunedì viene per nuocere.

Risolto il problema, decidi che è il momento di un’orata alla griglia e una birra. Con il badge Press in bella vista, ordini in (quello che credi sia) croato per darti un tono con la cameriera. Come contorno, chiedi blitva i krumpir, bietola e patate (probabilmente). Poi, ti viene il dubbio e domandi: “Krumpir? Krompir?”. Lei fa spallucce e, sorridendo, risponde “krumpir, krompir” a dire che non è quello che ti renderà bilingue. La ragazza ha i tipici tratti della bellezza croata: visto che è bella e croata, i conti tornano. E, appunto, torna con il conto appena hai finito di divorare il contenuto del piatto. Ti indica il totale (102 kune, meno di 14 euro) mentre lo dice: “Sto dva”. Poi, ci pensa, fa di nuovo spallucce e ti fa il verso: “Sto dva, sto dve…

Questi lunedì, dopotutto, vanno rivalutati.

Nessi

I quattro campi esterni sono a pochi passi dal mare. Li conti (i passi). Jedan, dva, tri… otto, nove (non è che sai tutti i numeri), deset… Al sessantesimo si cade in acqua – l’acqua della laguna. Non quella blu di Brooke Shields, il cui ex marito si è esibito qui lo scorso anno, ma neanche nera (cfr. Laguna nera, mostro). Però, è l’unica non assolutamente limpida di tutta la Croazia. Bastano alcuni passi (non camminerai troppo?) verso nord o verso sud e torna cristallina. Senza voler insinuare alcun nesso di causalità, da anni i tennisti ci si tuffano appena finito l’allenamento sul campo. Ti trovi così a fare il bagno con un qualche pro in mutande che ti starnazza accanto e pensi che, la prossima volta, farai l’inviato a un torneo WTA.

Serendipità

Stai pensando a cosa scrivere armato di carta, penna e calamari. Ai ferri. Il cameriere che te li ha appena portati guarda preoccupato il blocchetto aperto sul tavolo. Alterni occhiate in giro e qualche appunto mentre affronti i cefalopodi. Il cameriere sussurra qualcosa a una collega che si volta verso di te allarmata. Evidentemente, pensano che tu stia valutando il locale o, addirittura, il loro lavoro. Noti che cercano di dimostrarsi più efficienti di quanto già non fossero – parecchio, anche senza considerare che il loro ultimo (e unico) giorno libero risale forse all’inizio di giugno – e ti trattano con esagerata riverenza. Apprezzi. Pensi che, d’ora in avanti, nei locali adotterai questa tattica del blocchetto degli appunti. Sì, una volta, eri meno bastardo.

Di cosa parliamo quando parliamo di tennis

Ogni giorno, stesso posto e stessa ora, l’appuntamento non si può mancare. Perché a Umago ci sono i veri appassionati delle qualificazioni e dei primi turni, il grande pubblico del venerdì, quelli del weekend e relativa passerella. Ci sono match davvero godibili e altri meno, ci sono esibizioni divertenti e altre… Mare, sole, gastronomia, certo. Ma una cosa rimane fissa tutta la settimana: la maggiore attrazione, il motivo non detto per cui si viene qui, la caratteristica distintiva che eleva il Croatia Open al di sopra degli altri 250. E, in un certo qual modo, l’appuntamento delle 16 sul Grand Stand ribattezzato “Next Gen Arena” ne è il simbolo. L’appuntamento non è per te ma, rigorosamente, ogni giorno, ti trovi a passare di lì: è il briefing delle hostess. Nei loro deliziosi vestitini, le ragazze riempiono metà gradinata. Ma quale Next Gen: ecco a chi dovrebbe essere intitolata l’Arena.

Fright night

Le tre di notte. Ti trascini verso l’auto. Hai scovato un parcheggio ad alcune centinaia di metri dal Tennis Center. Adesso sembrano chilometri e il peso di zainetto e portatile ti schiaccia. Le cinque ore di sonno della notte prima si fanno sentire. Le cinque ore di sonno mancanti. Distratto da pensieri scollegati che forse sono sogni o allucinazioni, giri lo sguardo dall’altra parte della strada: al posto del parcheggio, c’è un buco nero. Guardi meglio. Nella flebile luce del piccolo spicchio di luna, quei pochi alberi sotto cui dodici ore prima cercavi riparo dal sole cocente sono diventati un bosco minaccioso, una foresta di ombre inquietanti. Una foresta della Transilvania. Devi superarla per raggiungere la tua macchina.

Soppesi l’idea di lasciarla dov’è e chiamare un taxi. Invece, decidi con coraggio di attraversare la strada. Anche perché c’è il limite dei 40 all’ora, ma i veicoli sfrecciano a velocità relativistiche. Ti addentri nell’ignoto della fitta boscaglia facendoti largo a colpi di machete, allarmato da suoni irriconoscibili, probabilmente di animali considerati estinti. O vermoni tipo Tremors. Avanzi facendo attenzione a non calpestare qualche uovo di pterodattilo. Per non sai quale miracolo, arrivi indenne alla macchina, ci balzi dentro rapido come un coguaro (non che i coguari balzino spesso nelle auto) e infili la chiave. Incurante degli stereotipi dell’horror, parte al primo colpo.

Rilassato, accendi la radio che passa i Cure, Friday I’m Love”. Per te, invece, è sempre la saga di Venerdì 13.

False credenze

La simpatica nativa con cui hai scambiato qualche battuta durante la settimana è seduta un paio di file davanti a te. I due in campo si danno battaglia come se il destino non fosse già scritto da tre tifosi tedeschi che, eleggendo anche oggi il loro beniamino di turno, ne hanno nei fatti decretato la sconfitta. L’altro giorno, quando Dutra Silva serviva tre palle break consecutive a Monfils nel terzo set, i tre si sono fatti sentire da tutto il Centrale: “What’s the time? It’s break time!”. Invece, Dutra ha salvato il game e vinto il match. Il giorno dopo, sono passati a sostenere lo stesso brasiliano contro Giannessi sotto gli sguardi rabbiosi di due ragazzi italiani che tifavano Rogerio (?). Il loro battito di mani dall’intensità crescente ha sottolineato le quattro volte che Dutra Silva ha servito il punto della parità in vantaggio 5-3 al terzo: non sarebbe mai arrivato a match point.

Oggi sono per Giannessi che sta per essere steso da Lorenzi. Come se fosse davvero tutto merito del senese. A fine match, domandi a uno dei tre perché il loro tifo funziona al contrario. Lui allarga le braccia, dice che fanno del loro meglio, purtroppo va così, ma continueranno a trasmettere tutta l’energia che possono. Con la coda dell’occhio, vedi “la simpatica nativa con cui hai scambiato qualche battuta” (all’anagrafe, Stana) che se ne sta andando. E arriva l’errore: istintivamente, la indichi con il pollice mentre saluti il tedesco. “Avrai fortuna, lo sento” ti dice.

Vabbè, tanto la tipa non ti piaceva granché…

La verità è che…

There’s no point in “love”.

Michelangelo Sottili

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