Editoriali del Direttore
Nadal ha ragione oppure no? Si può davvero fare qualcosa?
Tira solo l’acqua al proprio mulino? Dibattito aperto. Intanto due “classe 1995”, Edmund e Mertens,vanno in semifinale

MELBOURNE – Non ho avuto il tempo di leggere i vostri commenti. E poi al live i post erano 4.000 (!!! Non ricordo se ne avevamo mai avuti tanti così), alla cronaca di Gibertini un migliaio…Impossibile addentrarcisi. Spero che nessuno mi abbia chiesto qualcosa. Spero solo che non ce ne siano stati troppi di cattivo gusto – quando sono tanti così mi viene spontaneo preoccuparmi – spero che non abbiate mancato di rispetto a un grande campione costretto all’abbandono da problemi fisici. Lo dico per Nadal, l’avrei detto per chiunque.
Rafa Nadal era triste, demoralizzato, frustrato, direi quasi disperato come non lo avevo quasi mai visto – fosse scoppiato a piangere non mi sarei sorpreso! – e gli organizzatori dell’Australian Open, che presagivano il replay della finale Federer-Nadal erano davvero tristi anche loro. Avreste dovuto vedere le loro facce. E quella di Rafa quando zoppicando si è avvicinato al tavolo rialzato dietro al quale avrebbe dovuto rispondere alle nostre domande, ovviamente incentrate sull’infortunio, sul quando fosse occorso, su quale muscolo avesse interessato. Faceva sinceramente pena Rafa. Aveva provato a lottare nel quarto set, dopo aver avvertito le prime fitte già nel terzo, e dopo aver chiamato invano il fisio cui non era riuscito il miracolo. Perso il quarto ci aveva provato anche all’inizio del quinto, ma ceduto il servizio nel secondo game dopo un’inutile corsa in avanti per acciuffare una volée corta e incrociata di Cilic (che, detto inter nos, si era abbastanza mangiato il terzo set) ha capito che non c’era nulla da fare, si è avvicinato a Eva Asderaki e ha detto “No mas”. Cilic, che aveva alzato le braccia al cielo al momento del break, ha avuto la sensibilità di non esultare. Anche se era ovviamente e più che legittimamente contento. Contro il soprendente Edmund, n.49 Atp, sarà certo il favorito, anche l’esserlo non garantisce mai la vittoria.
È l’ottavo ritiro di Rafa Nadal in carriera. A Melbourne si era ritirato anche nel 2010 contro Murray nei quarti quando stava perdendo 63 76 30. Ma in sei occasioni in Australia Rafa aveva accusato dei malanni. Un caso? Forse no. Il caldo, il freddo (sì, perché sulla Rod Laver Arena a volte c’è un vento malefico e fa pure freddo), l’umidità che un giorno c’è e un altro no – inciso personale: è quasi impossibile non prendere i mal di gola, sono imbottito di Aulin – e il cemento mai amato da Rafa sono stati la miscela esplosiva che lo ha costretto ad abbandonare la scena.
La abbandona da n.1 del mondo, ma se Roger vincerà il torneo i punti di vantaggio saranno solo 155 e se la risonanza magnetica cui si sottoporrà dovesse proclamare un suo stop prolungato Rafa potrebbe anche perdere la leadership.
L’altro giorno aveva detto: “Voglio prendere cura del mio corpo, nei primi quattro mesi dell’anno ho previsto di giocare solo quattro tornei, qui, Acapulco, Indian Wells e Miami”.
Ora Acapulco non è più tanto sicuro. Da dieci anni Nadal non fa che ripetere perché si allunghi la stagione sulla terra rossa e si accorci quella sul cemento, ma sembra troppo una battaglia “pro domo sua”, troppo favorevole all’indiscusso n.1 della terra battuta, e così nessuno gli dà retta. E poi non è nemmeno facile dargliela. Il circuito, come ha denunciato a più riprese recentemente Djokovic – e in maniera più blanda anche Federer che fa sempre sfoggio di neutralità tipicamente svizzera quando c’è da prendere una posizione netta – è sempre più business e industria, sempre meno sport e gioco.
Abbia o non abbia ragione -9 tornei su 14 di quelli obbligatori sono su cemento – è indubbio che non si sono mai sono registrate sequele impressionanti di infortuni come in questi ultimi tempi. Infortuni di mesi, quando non di semestri. E vittime sono state non solo dei trentenni e oltre– il che potrebbe essere anche comprensibile se non quasi inevitabile – come Federer, Djokovic, Wawrinka, Nadal, Murray, Almagro che hanno saltato mesate intere, ma anche giocatori più giovani quali Nishikori, Raonic, Kokkinakis, del Potro, Janowicz, il nostro Quinzi, distrutti o semi-distrutti dal tour de force di un circuito che obbliga i giocatori a giocare i 4 Slam, 8 Masters 1000, un altro paio di tornei per consolidare la classifica.
“Ma non è il numero dei tornei – ha tenuto a precisare Nadal – quanto le superfici. Ci sono troppi infortuni, ci vuole una diversa sensibilità, occorre pensare anche alla salute dei giocatori. E nemmeno pensando a ora che stiamo ancora giocando, ma al dopo: c’è una vita anche dopo il tennis. Non so…- e scuoteva la testa con aria afflitta – se continueremo a giocare su queste superfici davvero molto dure, che cosa ci capiterà in avvenire con le nostre vite”.
Ora tanti diranno che Rafa tira l’acqua al proprio mulino chiedendo più tornei sulla terra rossa. Già Cilic – che di sicuro ama più giocare sui campi duri che sulla terra rossa perché ci vince di più, ha subito replicato, quando gli ho riferito quel che aveva appena detto Rafa: “Il calendario è lo stesso da molti anni. Sia l’anno scorso sia all’inizio di quest’anno si vede che molti tennisti sono infortunati. Alla fine tocca a noi prendersi cura dei nostri corpi, scegliere la programmazione migliore, ascoltare il proprio corpo e sentire che cosa ci dice. Ci sono tanti tornei, obbligatori, e poi ognuno sceglie quelli che vuole. E’ difficile dire…ok si cancellano due mesi di stagione, si fanno sparire un bel po’ di tornei…perché il tennis è uno sport globale. Dovunque si giochi la gente è contenta. Il tennis sta diventando sempre più popolare. Che è poi quello che anche noi vogliamo”.
Lì gli ho detto: “ Rafa ha detto che non è tanto un problema di numero di tornei quanto di superficie…”
“Sì, è dura per me dire molto al riguardo. Siamo tutti diversi. Anch’io ho avuto problemi con le ginocchia perché i campi duri sono diversi da un posto all’altro. Anch’io devo fare attenzione e a utilizzare la programmazione al meglio”.
Di questi argomenti ho discusso sia con Julien Reboullet de L’Equipe nel video quotidiano che faccio per la home inglese, Ubitennis.net, e con Vanni Gibertini per la home italiana di Ubitennis.com. Vanni sostiene che la soluzione sia tecnologica e cioè che si debba arrivare a superfici dure ma…non troppo. Scientificamente studiate, saggiate, omogeneizzate. Se si entrasse in questo ordine di idee ci vorrebbero comunque degli anni. Di certo non ne potrebbero approfittare Federer, Nadal, Murray, Djokovic e soci.
Certo è che, tornando ad occuparsi del primo Slam del 2018, con il ritiro di Nadal l’Australian Open perde, dopo l’assente Murray e lo sconfitto Djokovic (da Chung), un altro atteso protagonista. A Roger Federer si chiede – ancora una volta! – di salvare il torneo. Una sua finale con Cilic sarebbe la migliore possibile. Una fra Edmund e Sandgren la peggiore. Roger ha vinto 19 volte e perso 6 con Berdych, e alle nove e trenta del mattino si vedrà che succede: Roger ha avuto un cammino facile e avversari comodi, forse gli avrebbe fatto bene trovare un test un po’ più severo. Berdych, dopo un’annata che lo ha fatto precipitare dai top-ten a fuori dai top-20, mi è parso tirato a lucido. L’ultimo precedente di Miami è un campanello d’allarme per Roger: Tomas perse soltanto dopo aver avuto due matchpoint sulla racchetta. Chung è chiamato alla prova del nove di tommasiana memoria con Sandgren. Secondo me la supera. Ma Sandgren l’ho vista giocare solo pochi punti, Ubi sì… Ubiquo no.
E pensare che la giornata era apparsa piacevole, tutt’altro che triste (fuorchè per gli sconfitti, ovviamente). Era stata una gran bella giornata soprattutto per due giovani classe ’95 che nessuno si aspettava potessero approdare alle semifinali, lui Brit, Kyle Edmund n.49, 23 anni compiuti l’8 gennaio, lei fiamminga, Elise Mertens, n.37, come la sua “maestra” Kim Cljisters che l’allena nella sua Tennis Academy. I 23 anni li compirà a novembre.
Per tutti e due era il primo quarto di finale in uno Slam e nessuno dei due era certamente favorito. Edmund affrontava il bulgaro Grigor Dimitrov, n.3 del mondo alle spalle dello storico binomio Nadal-Federer nonché campione delle ultime World Atp Finals a Londra, e la Mertens l’ucraina Elina Svitolina, n.4, campionessa agli ultimi Internazionali d’Italia e fino a due anni fa curiosamente allenata dall’altra ex n.1 belga, Justine Henin (che poi la dovette lasciare perché incinta). Buffa coincidenza che in qualche modo le due avversarie rappresentassero indirettamente le due grandi icone del tennis belga.
Ebbene, con quel servizio poderoso e quel drittaccio monstre che può essere considerato oggi il più potente del circuito insieme a quello di Juan Martin del Potro, Edmund ha sconfitto il pronostico e un deludente Dimitrov 64 36 63 64 cui ha lasciato esattamente lo stesso numero di set e di game che aveva concesso al nostro Andreas Seppi negli ottavi. Chissà se Andreas ci ha fatto caso. Forse no. Lui non si perde dietro queste quisquilie, queste piccolezze. Ha perso e si sta allenando, seriamente come al solito, per farsi trovare pronto per la trasferta di Davis a Morioka, in Giappone.
Edmund, che sembra la reincarnazione del terzo millennio di quel Jim Courier che vinse sia a Parigi sia qui nel ’92 e nel ’93, per il colore dei capelli e della pelle (biondo rossicci sopra una carnagione pallida e ricca di efelidi), fisico massiccio e tipo di impugnatura sul dritto (Courier da piccolo aveva fatto baseball; Edmund cricket…) ha realizzato la sua impresa sotto gli occhi compiaciuti di Tim Henman, sei volte semifinalista di Slam ovunque fuorchè qui (4 a Wimbledon, 1 a New York, 1 a Parigi).
Gentleman Tim era appena arrivato a Melbourne. Ha seguito la partita di Kyle accanto al chairman di Wimbledon Phil Brook che invece aveva già portato fortuna al suo compatriota nel match con Seppi.
Henman non aveva più seguito uno Slam, fuor di Wimbledon, da 10 anni. E quando aveva pianificato questo viaggio Down Under aveva pensato di venire per incoraggiare Andy Murray.
Non c’era invece Kim Clijsters a seguire Elise Mertens, che era giunta qui sull’onda del bis vittorioso a Hobart (Tasmania). Lei ha vinto ancora più nettamente di Edmund con Dimitrov sulla Svitolina, addirittura 64 60, forse approfittando di un dolorino all’anca dell’ucraina che lei ha comunque aggredito con la stessa intensità di cui era capace Kim Clijsters. Se uno chiude gli occhi e sente parlare Elise in fiammingo sembra di ascoltare proprio Kim. Identica. E ugualmente spontanea. In semifinale trova Caroline Wozniacki che ha dovuto faticare non poco per aver ragione della Suarez Navarro, tornata su buoni livelli. Certo la danese dovrebbe essere favorita nei confronti della fiamminga, se non altro per una questione di esperienza, però se rigioca come ha fatto con la Fett, cui ha annullato 2 matchpoint sull’1-5 nel terzo set, la Mertens saprà approfittarne.
Nella metà alta del tabellone ci sono tutte tenniste che potrebbero tranquillamente vincere il torneo senza scioccare nessuno: basti dire che Halep-Pliskova e Kerber-Keys sono i quarti.
Le otto volte in cui Rafa Nadal si è ritirato
2018 Australian Open QF: Marin Cilic d. Rafael Nadal 36 63 67(5) 62 20 ret
2016 Miami 2R: Damir Dzumhur d. Rafael Nadal 26 64 30 ret
2010 Australian Open QF: Andy Murray d. Rafael Nadal 63 76(2) 30 ret
2008 Paris QF: Nikolay Davydenko d. Rafael Nadal 61 ret
2007 Cincinnati 2R: Juan Monaco d. Rafael Nadal 76(5) 41 ret
2007 Sydney 1R: Chris Guccione d. Rafael Nadal 65 ret
2006 London/Queen’s Club QF: Lleyton Hewitt d. Rafael Nadal 36 63 ret
2005 Auckland 1R: Dominik Hrbaty d. Rafael Nadal 63 ret
Editoriali del Direttore
Berrettini e Musetti. È vera crisi? No, ci sono troppi “becchini”. Perché io li difendo. Una fiducia motivata
A 27 anni Matteo Berrettini e a 21 anni Lorenzo Musetti non possono essere vittime di uno “stallo” duraturo. Aliassime, Rublev, Alcaraz, Ruud non hanno regalato i loro duelli. Il computer ATP non è stato manipolato per issarli n.6 e n.18 del mondo. Pioli, Inzaghi e Allegri…

Che Matteo Berrettini e Lorenzo Musetti stiano attraversando un bruttissimo periodo è purtroppo indiscutibile. A me dispiace molto per loro e confido che si riprendano abbastanza presto perché – sic et simpliciter – non mi risulta che abbiano conquistato vittorie e classifica mondiale manipolando avversari e financo il computer dell’ATP.
E’ inevitabile che le loro recenti ripetute sconfitte con avversari assai peggio classificati suscitino critiche e commenti severi. Giudizi che riflettono la delusione di quanti si erano affezionati all’idea complessiva e suggestiva di un vero “Rinascimento” del tennis italiano e si ritrovano invece oggi a potersi rallegrare soltanto per i risultati conseguiti da Jannik Sinner e, in misura minore, da Lorenzo Sonego.
E’ comprensibile che ciò accada, nondimeno mi dispiace che troppa gente scriva commenti cattivi e gratuiti su Matteo e Lorenzo. Avverto una sorta di sadismo in alcuni, di invidia in altri. Ma forse soprattutto di estrema superficialità.
Certo è che quando leggo questo genere di commenti sinceramente mi dispiace sia per loro due, sia – in tutta onestà – per chi li scrive perché a mio avviso non fanno bella figura. Mi dispiace – egoisticamente – anche per Ubitennis perché quel tipo di commenti vengono scritti anche qui su questo sito, sebbene non siano censurabili in quanto frutto di libere opinioni. Anche se non le condivido… non sarebbe infatti giusto cassarle solo perché non sono in sintonia con loro. Però mi piacerebbe invece sempre leggere commenti sereni e obiettivi di lettori intelligenti e come tali equilibrati…Sì, perché vorrei che quest’ultimo genere di commenti, appunto intelligenti ed equilibrati, ispirasse quelli di un numero sempre maggiore di lettori, in modo da fare crescere il livello di discussione e quindi di partecipazione a Ubitennis.
Ho già scritto molte volte che occuparsi di moderare centinaia, migliaia, decine di migliaia di commenti in capo a un anno, è una fatica improba e non solo perché porta via un sacco di tempo. E’ un lavoro complesso che richiede grande attenzione, equilibrio, aspirazione concreta all’oggettività pur nella inevitabile soggettività di ciascun moderatore. Una fatica ingrata che sarà sempre soggetta a critiche, talvolta per una mancata tempestività nella pubblicazione, talvolta per un atto censorio che può apparire discutibile, talvolta per disomogeneità di interventi quasi impossibile da combattere, ma certo mai preconcetta nei confronti di alcuno se questi si sia in genere ben comportato, espresso con toni educati e civili e in tema con l’argomento trattato…
Non è però certo un caso che una gran parte dei siti abbiano rinunciato alla pubblicazione dei commenti dei lettori. Da direttore-editore a me piacerebbe che Ubitennis si affermasse sempre più per un sito che raccoglie pareri e opinioni intelligenti, stimolanti. Non sono tantissimi coloro che commentano, ma sono tantissimi coloro che li leggono.
Dopo questa lunghissima e noiosa premessa vorrei tornare a ribadire in toto la mia fiducia nel prossimo futuro di due ragazzi, Matteo e Lorenzo, che hanno 27 e 21 anni. Con ancora – e proprio per via sia della loro anagrafe, nonché dell’impegno che mettono loro e i loro qualificati team, coach, fisio, mental coach etcetera – tantissimi margini di miglioramento.
Mi picco di essere stato fra coloro che hanno creduto nelle loro qualità quando molti sembravano dubitarne. Non credo di averlo fatto da tifoso.
A differenza di Lorenzo Musetti che già da junior aveva rivelato qualità non comuni, sotto i miei occhi vincendo da sedicenne il torneo junior di Firenze vent’anni dopo un certo Roger Federer su quegli stessi campi e all’incirca alla stessa età prima di laurearsi campione under 18 anche all’Australian Open, Matteo Berrettini nel 2016 _ a 20 anni e 8 mesi – era ancora n.433 ATP.
Era più difficile profetizzare per lui, piuttosto che per Musetti un grande futuro. Un futuro da top-ten. Figurarsi se da top-6.
Fui criticatissimo da molti lettori su questo sito quando, dopo aver visto diversi parecchi duelli fra primavera e autunno 2019 di Matteo – in gran parte vittoriosi ma anche taluni persi con una decina di giocatori “termometro di ottimo livello” quali Bautista Agut, Zverev, Aliassime, Rublev, Khachanov, Schwartzman, Monfils, Murray, Dimitrov, Nadal e poi Thiem più volte- mi sbilanciai sull’avvenire di Matteo.
Proprio dopo una partita persa di un soffio a Vienna con Thiem, con Dominik sospinto alla vittoria anche dall’entusiasta pubblico di casa, scrissi che secondo me Matteo non era così inferiore all’austriaco che pure aveva già colto importantissimi exploit al Roland Garros, ma aveva a mio avviso il potenziale per diventare a dispetto di quella sconfitta – se non top 3 o top 5 come Thiem era già stato – però uno stabile top-ten.
Oggi che Federer è andato in pensione, che Nadal è uscito dai top-ten dopo 18 anni, che Djokovic si batte contro i vaccini e l’anagrafe, dovrei aver cambiato idea solo perché Matteo ha perso una serie di partite di fila? Non la cambio, anche se ho sempre ammesso che il suo rovescio – salvo che sull’erba – è e resta (nonostante qualche progresso) il più debole rovescio dei top 20, forse dei top 30…anche perché paga anche una mobilità francamente non al livello dei migliori del mondo. Una mobilità che lo penalizza in fase di risposta al servizio, e via via quando lo scambio si prolunga, ma quando si è alti un metro e 96 cm e si pesa sugli 85 kg, non è facile da conquistare. Soprattutto nei cambi di direzione e, in difesa, per via del rovescio bimane sul quale tutti cercano di attaccare, si deve superare anche l’handicap di quei 25 cm in meno di allungo. Chi si muove benissimo recupera (già Sonego è un esempio), chi invece non riesce paga dazio.
Ma altrettanto mi sento di dire che il suo servizio resta da top-3 e il suo dritto da top-5, purchè la percentuale di “prime” torni ad essere quella che è stata fra il 2019 e il 2021, purchè il lavoro atletico lo riporti a riconquistare la stessa agilità di quel suo miglior biennio in modo che lui possa riprendere a girare attorno alla palla per colpirla con un furioso dritto dei suoi, ma senza troppo scomporsi. E’ anche fondamentale il ritorno della fiducia, certo. Ma questa torna appena si sistemano quei primi due aspetti appena citati e arrivano i primi inevitabili risultati. Se non si è sofferto per uno straordinario infortunio fisico quale quello patito da Thiem – e forse anche da Zverev – a 27 anni non si può essere finiti.
Io almeno non ci credo, anche se nello sport ne ho viste accadere tante. A parte il caso Bjorno Borg, consumato e prepensionato a 26 anni, anche John McEnroe dopo il magico 1984, dai 26 anni in poi non è più riuscito a giocare come prima. Ma nel suo caso cambiarono le racchette, il tennis subì una profonda trasformazione, diventò molto più potenza che tocco, molto più fisicità che varietà, le battute superarono tutte i 210 km orari e in massa salirono alla ribalta sul circuito oltre a “Robot-Lendl” anche i vari “BoomBoom” Becker, i “Serve&Volley Edberg prima dei “Corri e Tira” Agassi, Courier, Chang o “Big Big Serve” “Sweet Pete” Sampras e “Mister Ace” Ivanisevic…
Non mi sembra, salvo che per il fenomeno Alcaraz e direi anche per il nostro Sinner – mi auguro! – che si stia profilando una tale irruente ondata di campioni capace di rendere impossibile il rientro di Berrettini fra i top-ten.
LEGGI A PAGINA DUE: Le chance e i meriti di Berrettini, e le critiche immeritate verso Lorenzo Musetti
Editoriali del Direttore
È morto Roberto Mazzanti, per 20 anni direttore di Matchball, la Bibbia dei veri appassionati di tennis
Tennis e giornalismo i suoi grandi amori. Sotto la sua guida saggia ed equilibrata hanno lavorato Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, Viviano Vespignani, un giovanissimo Scanagatta. un imberbe Stefano Semeraro, il boy Luca Marianantoni e tanti altri. Era impossibile litigarci

Aveva 82 anni, era stato colpito da un malore a gennaio. Purtroppo non si più ripreso Roberto Mazzanti, uno dei pochi, pochissimi giornalisti davvero signori, con i quali era impossibile litigare. Un uomo per bene. E non lo scrivo perchè ci ha lasciato, ma perchè è vero. E lo può dire e confermare chiunque lo abbia conosciuto.
Roberto era stato negli anni Settanta il direttore di Matchball (in edicola dal 1970 al 1996), la seconda rivista di tennis – dopo “Tennis Club” diretta da Rino Tommasi – per la quale poco più che ventenne avevo cominciato a collaborare, spinto dalla mia inesauribile passione per il tennis e per il giornalismo, gli stessi due grandi amori di Roberto. Per lui, come per me, era una passione romantica, senza mai l’ambizione di arricchirsi, ad alimentare quei due eterni amori.
Lui, bolognese, era cresciuto all’interno del Resto del Carlino dove era stato assunto inizialmente come correttore di bozze. Infatti, diventato poi redattore professionista del quotidiano bolognese, dividendosi fra le pagine della cronaca cittadina come dello sport – come sarebbe successo anche a chi scrive – non avrebbe mai sopportato i refusi.
Non l’ho mai visto arrabbiato, mai perdere il controllo, mai alzare la voce. Un gentiluomo con aplomb british, mascherato da un moderato accento emiliano. Adorava guardare il tennis, non solo quello dei grandi – venne anche a vedermi giocare la finale di doppio dei campionati italiani di Seconda Categoria al Circolo Tennis Giardini Margherita, lui che frequentava la Virtus del presidente (anche FIT) Giorgio Neri – ma gli piaceva anche giocarlo. E lo ha fatto da dilettante fino a tempi anche recenti, sebbene avesse scoperto anche il golf e, negli anni, gli fosse venuta anche la passione per le automobili, la tecnologia, il loro evolversi.
Lavoravamo per lo stesso gruppo editoriale, la Poligrafici, ma io – più giovane e scapolo mentre lui era sposato – ero più disponibile a sacrificare ferie e vacanze (a caccia di ospitalità o alberghi a due stelle) per andare a seguire il tennis nel maggior numero possibile di tornei.
Quindi per Nazione e “Carlino” accadeva che lui mi lasciasse il passo per gli Slam e che io lo lasciassi a lui per la Coppa Davis …che allora era una cosa seria, ma si esauriva in alcuni long-weekend e che potevano essere anche 5, 6 o 7 in un anno se l’Italia andava in finale come accadde per quattro anni su cinque fra il ’76 e l’80. Accadde anche che con quei ripetuti exploit dei nostri 4 moschettieri azzurri io mi ritrovassi a seguire insieme a Roberto anche quegli eventi a squadre.
Non esisteva Internet, né la composizione digital-elettronica e Matchball optò, anche per contrapporsi a “Il Tennis Italiano” che era un mensile, una cadenza quattordicinale. Usciva in edicole (sì, esistevano ancora…) ogni due martedì e sotto la guida di Roberto scrivevamo i nostri articoli Roberto, Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, il sottoscritto, Paolo Francia, Viviano Vespignani e (diversi anni dopo) si sarebbe aggiunto, fra i tanti, anche Luca Marianantoni con tutti i numeri che si portava appresso. In redazione due giovani di belle speranze, Stefano Semeraro e Enrico Schiavina., Al lunedì mattina Matchball doveva essere “chiuso” in tipografia. La domenica sera…si finiva per scrivere editoriali, pagelle, statistiche, a notte inoltrata. Sempre facendo le corse, perché magari le partite, ai più diversi fusi orari, finivano tardissimo e la copertura era massiccia. Per merito di tutto il team Matchball diventò ben presto la rivista leader e tale restò fino a che l’avvento di Internet, delle notizie on line, delle coperture televisive di più network, fece strage di gran parte delle riviste cartacee, impossibilitate a reggere la concorrenza sul piano della tempestività dell’informazione.
Roberto, giornalista elegante ed equilibrato, prediligeva i tennisti dal bel braccio, McEnroe, Panatta, Bertolucci (e più recentemente inevitabilmente Federer), Rino era prima innamorato di Rosewall e poi di Edberg, io stravedevo per l’arte e l’imprevedibilità di Nastase, per la grinta e i limiti tecnici di Connors oltre che per Boris Becker (per far da contraltare a Rino), quando sarebbe arrivato Luca avremmo annoverato nel team di Matchball anche un grande fan di Lendl.
Vabbè, vedete, anche adesso che Roberto ci ha improvvisamente lasciato affiorano nella mia mente tanti ricordi, tanti amichevoli dibattiti e lui che, con fare quasi ecumenico, mi diceva: “Dai Ubaldo scrivi le tue pagelle, falle un po’ tecniche, un po’ironiche, senza infierire mai troppo…anche se lo sappiamo tutti che se devi scrivere di promossi e bocciati, ai lettori piaceranno sempre più i voti bassi che quelli alti, quelli più critici che quelli pieni di elogi. Il mondo va così” diceva chiaramente dispiacendosene. E a quei tempi non esistevano ancora i leoni da tastiera, gli “webeti”. Che la terra ti sia lieve caro amico. E che tua moglie Anna, tuo figlio Luca, la tua nipotina adorata, sopportino con forza e coraggio il vuoto che lasci a loro e a tutti quelli che ti hanno stimato e voluto bene.
Australian Open
Australian Open: Il fenomeno Djokovic è di un altro pianeta. Tsitsipas non poteva fare di più. Non è la parola fine sul GOAT
I fenomeni non sono stati solo tre, Djokovic, Federer e Nadal. Perché se si dà peso primario ai titoli Slam, Rosewall e Laver non possono essere ignorati. E perchè un solo anno, e non sempre, laurea il vero n.1

Il resto del video, che qui potete vedere in anteprima, è disponibile sul sito di Intesa Sanpaolo, partner di Ubitennis.
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Non ho mai pensato che potesse finire diversamente. L’unico momento di dubbio l’ho avuto – insieme a Djokovic – quando entrambi abbiamo temuto che il suo problema alla coscia fosse un problema serio.
Così come gli altri due fenomeni, Federer e Nadal (elencati, a scanso equivoci, in ordine alfabetico), Novak Djokovic è di un altro pianeta rispetto a tutti gli altri contendenti. Come fenomeni sono stati nello sport più popolare – se cito soltanto i fenomeni del calcio, anziché altre discipline sportive, è perché è più facile che quasi tutti capiscano di che cosa parlo – Pelè a cavallo degli anni 60/70, Maradona un ventennio dopo, Messi e Cristiano Ronaldo nel terzo millennio.
Djokovic, Federer e Nadal (ancora in ordine alfabetico) hanno lasciato le briciole a tutti gli altri tennisti loro contemporanei. E l’hanno fatto con una continuità spaventosa, in un arco temporale inimmaginabile che ha spaziato fra i 15 e i 20 anni. Davvero incredibile.
Mentre i campioni Slam del passato una volta superati i 30 anni difficilmente riuscivano a restare competitivi per più anni,– salvo rarissime eccezioni: Rosewall, Connors, Agassi su tutti – mentre qualche straordinario campione come Borg o McEnroe ha smesso di giocare o di vincere già a 26 anni – questi tre hanno continuato a dominare il resto della concorrenza come se fosse la cosa più normale del mondo. E tutti a sorprendersi, a meravigliarsi con infinito stupore quando ciò, a uno dei tre, ma mai a tutti e tre insieme, non succedeva.
Nel conquistare il meritato appellativo di “fenomeni” i tre supercampioni non si sono limitati a registrare un record dopo l’altro pur dovendosi affrontare fra le 50 e le 60 volte in pazzeschi testa a testa, dopo essersi inseguiti come i celebri duellanti di Conrad ai tempi di Napoleone ai 5 angoli/continenti del mondo sulle più varie superfici. Ma tutti e tre hanno dato dimostrazione di formidabili e superiori doti tecniche, atletiche, caratteriali, intellettuali, morali, umane. Ho forse dimenticato un qualche aspetto?
A trovar loro un vero difetto, come campioni e come uomini, personalmente ho sempre fatto fatica. Anche perché li ho conosciuti tutti da vicino e fin da quando hanno cominciato a cogliere i loro primi stupefacenti successi, quasi imberbi, a 16 e 17 anni. Quando anche un “parvenu” del tennis avrebbe intravisto le loro eccezionali qualità. Personalità intelligenza, simpatia, resilienza, determinazione, avevano tutto fin da subito. Le si potevano scorgere a occhio nudo, senza farsi condizionare dalla semplice precocità.
Forse proprio Djokovic, il più giovane dei tre e colui che sembra destinato a restare sulla breccia più a lungo degli altri, è quello – anche per le sue posizioni NOVAX (peraltro coerenti al massimo, diversamente da chi ha presentato certificati falsi assolutamente imperdonabili) – che ha sollevato più casi controversi. Talvolta nemmeno interamente per sue responsabilità. Il background della sua famiglia, l’educazione, lo stile di vita, sono stati diversi da quelli di Federer e Nadal.
Eppoi lui è arrivato dopo di loro, quasi un intruso, in un mondo che tennisticamente si era diviso all’80% fra federeriani e nadaliani. Per conquistarsi un posto, ha dovuto farsi spazio fra loro, impossessandosi di quel 20% che era rimasto ai neutrali. E dovendo giocare dappertutto con folle di tifosi più ostili che amiche. In patria è diventato un simbolo, un eroe, un semiDio. Fuori no. E’ stata dura, molto più dura che per gli altri due fenomeni conquistarsi un suo pubblico, un suo status internazionale. Lo ha potuto fare nel solo modo che lo sport consente: i risultati. Risultati assolutamente straordinari. Pian piano ha battuto i suoi leggendari rivali più volte di quanto di avesse perso. Pian piano ha autorizzato i suoi estimatori a inserirlo nell’eterno dibattito sul GOAT, sul più forte giocatore di tutti i tempi.
Non si metteranno mai d’accordo i tifosi dei tre fenomeni. Tutti avranno buoni motivi per sponsorizzare il loro fenomeno d’elezione. Chi privilegerà un’epoca ad un’altra, una strong era a una weak era (e qualche vuoto pneumatico al top dei competitor c’è stato per tutti e tre), chi lo stile e l’eleganza, chi la forza e la garra, chi la completezza, chi una superficie o un’altra. E qualunque conclusione verrà raggiunta sarà sempre ingiusta. Anche perché se in uno stesso anno possono cambiare in maniera pazzesca le cose – pensate solo al 2016 con i primi 6 mesi di Djokovic e i secondi 6 mesi di Murray – e figurarsi da un anno all’altro – pensate al 2017 e ai 4 Slam divisi fra i “risorti” Federer e Nadal che molti avevano già dati per finiti – se si dovessero confrontare pacchetti di più anni, in cui sono magari cambiate le attrezzature, le superfici, ogni paragone fra epoche diverse condurrebbe a emettere verdetti assolutamente discutibili, comunque superficiali.
Oggi, e chiudo questo lunga premessa, i fan di Djokovic ebbri di gioia per i 22 Slam che hanno consentito a Nole di eguagliare i 22 di Rafa Nadal e di “staccare” definitivamente i 20 di Federer sembrano aver buon gioco a sostenere che chi vincerà più Slam a fine carriera potrà tappare la bocca a tutti gi altri pretendenti al GOAT.
Ma non è così. Ken Rosewall, cui abbiamo dedicato un bell’articolo in questi giorni, ha vinto 8 Slam ma ne ha dovuti saltare – perché professionista per 11 anni – ben 44. E Rod Laver, unico campione ad aver realizzato due volte il Grande Slam (1962 e 1969, a sette anni di distanza, i suoi migliori 7 anni…), ha vinto 11 Slam dovendo saltare 20 Slam fra il 1963 e il 1967. Non potevano essere loro i GOAT? I fenomeni del tennis non sono stati solo tre.
Quelle ultime due lettere, A e T, stanno per ALL TIME. Se allora ALL TIME, per i motivi su esposti, non si può dire, limitiamoci allora a dire chi sia stato il miglior tennista del mondo anno per anno. E solo in quel caso è più probabile che non ci si sbagli, anche se – ripetendo l’esempio fatto poc’anzi – se si prende in esame un anno come il 2016 nel quale Novak domina i rimi sei mesi, Andy Murray i secondi sei, e il computer ATP assegna il numero uno year-ending a Murray perché vince la finale del Masters…beh anche in quel caso siamo così sicuri che il verdetto fosse così inequivocabile, inappellabile? Una sola partita può decidere chi sia il miglior tennista di tutto l’anno, solo perché lo dice un computer che – cito per l’ennesima volta Rino Tommasi – “sa far di conto, ma il tennis non lo capisce?”.
Vabbè, torno sulla finale e sulla superiorità disarmante di Djokovic perfino al termine di un match non immune da pecche, da errori evitabili, da nervosismi quasi inesplicabili come quello che lo ha colto a metà del secondo set quando avrebbe potuto continuare a gestire tranquillamente il match come aveva fatto fino ad allora.
Tsitsipas non poteva far molto di più, salvo che – nel tiebreak del secondo set – evitare quei quattro errori di dritto, il suo colpo migliore andato improvvisamente…in barca.
Ma Djokovic, che è indiscutibilmente da anni il miglior ribattitore del mondo – e qui, su questo giudizio, credo possano essere d’accordo perfino i tifosi di Federer e Nadal – era stato ingiocabile sui propri servizi. Fino a quel game in cui Tsitsipas è riuscito – sul 4-5 del secondo set- a conquistarsi contemporaneamente sia la prima palla break che l’unico setpoint Djokovic, aveva lasciato al più temibile dei suoi avversari la miseria di sei punti nel primo set in cinque turni di battuta (la sola volta che Stefanos era arrivato a 30 però Novak era avanti già 3-1 e 40-0) e nel secondo set 5 punti nei quattro turni di servizio. Mai Tsitsipas era ancora arrivato a 40.
Ok? Bene: c’è arrivato in quel frangente e sulla pallabreak-setpoint che fa Djokovic? Prima di servizio e dritto vincente.
Poi un tiebreak giocato maluccio da entrambi, perché sul 4-1 per Nole frutto di tre minibreak seguiti a 3 inattesi errori di dritto di Tsitsipas Nole ha prima regalato un insolito rovescio per lui banalissimo e poi ha fatto anche il secondo doppio fallo del suo match. Ma sul 4 pari ecco di nuovo Tsitsipas, evidentemente teso come una corda di violino, sbagliare un quarto dritto! Djokovic non se l’è fatto dire due volte e dal 4 pari al 7-4 è stato un gioco da ragazzi.
Qualcuno poteva illudersi che dopo il toilette break e l’unico servizio perso da Nole all’inizio del terzo set le cose potessero cambiare? Forse neppure l’irriducibile Tsitsipas.
Dal 2 a 2 in poi Djokovic – che ribadisco essere il miglior ribattitore del mondo – tiene per 4 volte consecutive il servizio a zero: 17 punti di fila (contando l’ultimo che gli aveva dato il 2-1 in un game vinto a 15). Cui seguiranno gli altri primi tre del tiebreak che decide l’ultimo tiebreak in cui, giusto per non illudere Tsitsi e le migliaia di fan greci che non smettevano di gridare “Tsitsipas, Tsitsipas” – mentre fuori dal centrale la stragrande maggioranza nel garden davanti al mega schermo era invece serba (mica facile procurarsi i biglietti…) – Djokovic sale sul 5-0, subisce dopo 20 punti conquistati con il servizio un mini-break, ma poco dopo chiude con un dritto vincente sul terzo matchpoint.
Sì, mi scuso, ho riscritto una cronaca che Cipriano Colonna aveva già scritto brillantemente chiudendola su Ubitennis nei 5 minuti successivi alla conclusione, ma solo per sottolineare come oggi perfino un Djokovic che ha giocato senza fare troppe cose straordinarie, è stato assolutamente ingiocabile in 12 turni di servizio su 14 (salvo che sul 4-5 e sul primo gae del terzo set) ed è sempre stato fortissimo – sì, proprio come sempre – quando doveva rispondere.
I suoi record li abbiamo già ricordati dappertutto. Non credo serva scriverli ancora, prima di cominciare a pensare a che cosa potrà accadere nel regno di Nadal al Roland Garros. Novak ha perso un solo set nel torneo, ma perché con Couacaud al secondo turno gli faceva male la coscia sinistra. Però se fossi stato a Melbourne tutti i suoi dieci trionfi, i 22, i 93, le 374 settimane da n.1 (verso le 377 di Steffi Graf) magari avrei trovato un modo per ricordarglieli in conferenza stampa.
Qua dico soltanto….davvero not too bad! carissimo fenomeno Djokodiecivic.