Davis chiama, Fed Cup risponde. E l'ATP squilla a vuoto

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Davis chiama, Fed Cup risponde. E l’ATP squilla a vuoto

I 10 numeri della settimana: Errani meglio in azzurro, Repubblica Ceca di ferro, Serena “intatta”. Campioni da Challenger a Sofia e Quito

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0 – le sconfitte in singolare di Serena Williams in 13 incontri disputati in Fed Cup – nei quali ha perso due soli set – e una sola in doppio (in coppia con Riske contro Errani e Pennetta nel 2015 a Brindisi) in quattro partite giocate: questo il bilancio con la nazionale a stelle e strisce della vincitrice di 23 prove dello Slam prima dello scorso week-end. L’ex numero 1 del mondo (per 319 settimane) non ha mai molto amato questa competizione, nella quale esordì 17enne contro Rita Grande nel 1997 ad Ancona e che ha vinto, ma non da protagonista nella finale, solo in quell’anno contro la Russia (giocò il doppio con la sorella a punteggio acquisito, con i singolari giocati da Venus e Davenport). Prima di quest’edizione, nella sua incredibile ventennale carriera, l’aveva giocata soltanto per sei anni, per un totale di nove sfide alle quali aveva preso parte. Un amore mai nato.

1 – sola top ten (Venus Williams), ma tre top 20 (Mladenovic e Mertens) e una vincitrice di due Slam, in ripresa di forma e risultati come Kvitova, hanno impreziosito il primo turno del tabellone principale della Fed Cup, la versione al femminile della Coppa Davis. Tra sabato e domenica, inoltre, hanno giocato nei raggruppamenti inferiori, Ostapenko, 6 WTA, Konta, 11 WTA, Sevastova, 15 WTA, e Barty, 16 WTA. Soprattutto, questa manifestazione ha goduto nel week-end dell’attenzione di tutto il mondo del tennis per il ritorno ufficiale alle gare, dopo oltre un anno, di Serena Williams, impegnata con gli Stati Uniti ad Asheville (North Carolina) contro l’Olanda: ha giocato e perso il doppio con la sorella, a punteggio acquisito, contro le olandesi, ma il risultato a quel punto era davvero l’ultima cosa che contava. A differenza della Coppa Davis, nel cui World Group partecipano 16 nazioni, nella competizione a squadre nazionali delle donne, si parte direttamente dai quarti: un impegno minore (per vincere la manifestazione occorrono solo 3 week-end) ideato anche per invogliare le migliori a prendervi parte, ma che non sempre ha ottenuto i frutti sperati: arriva un bel segnale da questo week-end, onorato da tante protagoniste del circuito, come invece non è accaduto la settimana scorsa in Coppa Davis. Gli unici momenti in cui i tennisti non giocano solo per se stessi, restano molto affascinanti.

2 – i giocatori (Ramos-Vinolas e Monfils) compresi nella top 90 ATP ad essere arrivati ai quarti dell’edizione 2018 dell’Ecuador Open, vinta nelle tre precedenti da un unico giocatore, Victor Estrella Burgos, fermatosi quest’anno agli ottavi, sconfitto da Gerald Melzer in tre set. L’austriaco ha così interrotto una striscia positiva del dominicano di sedici incontri in questo torneo. Non è bastato lo scenario spettacolare delle Ande, che fa da sfondo alle tribune del Club Jacarandá, ubicato a 16 km da Quito, la capitale dell’Ecuador, per avere una entry list accettabile per un ATP 250: il primo torneo dell’anno a giocarsi sulla terra, aveva come ottava testa di serie Nicolas Jarry, 95° giocatore al mondo e un cut-off al 139° posto del ranking mondiale (Casper Ruud). Numeri che devono far riflettere i manager dell’ATP: non basta la collocazione nel calendario (subito dopo Australian Open e Coppa Davis, senza tornei grandi in vista a breve) e quella geografica (l’Ecuador è una splendida terra, ma anche scomoda da raggiungere per la maggioranza dei migliori tennisti) e le difficili condizioni di gioco (Quito è oltre i 2500 metri sopra il mare) a giustificare una entry list così modesta. Tornei come questo rischiano di essere in pochissimi anni un flop economico per gli organizzatori, una buona occasione per carneadi di guadagnare punti, gloria e montepremi che altrimenti difficilmente guadagnerebbero (lo stesso Estrella Burgos, fuori da Quito, ha ottenuto nel circuito ATP una sola semifinale, a Bogota nel 2014). Tutto, tranne quel che un torneo del circuito maggiore dovrebbe essere: un’occasione per far avvicinare al grande tennis una maggiore fetta di pubblico.

3 – le vittorie di Sara Errani (in 11 incontri) in sfide di Fed Cup contro giocatrici comprese nella top 30 WTA: l’ultima era arrivata a Genova contro la Garcia nel 2015, quando l’emiliana era tra le prime 15 del mondo. Era onestamente difficile immaginare che l’ex finalista del Roland Garros 2012 riuscisse nello spareggio di Chieti a trascinare l’Italia contro la Spagna, seppur priva della sua stella Muguruza. Sara aveva iniziato male il 2018, perdendo al primo turno di Brisbane contro Strycova, ma soprattutto non qualificandosi agli Australian Open e a San Pietroburgo. Le speranze della nostra rappresentativa di accedere ai play-off di aprile per tornare nel World Group erano affidate a una sua doppietta nei singolari, stante la mediocre classifica e l’inesperienza delle più giovani compagne di nazionale. Il bilancio non eccellente in Fed Cup contro tenniste della classifica di Suarez Navarro, il fatto che nell’ultimo anno e mezzo avesse vinto solo una volta (in otto occasioni) contro una top 30 e che nel 2018 avesse perso due volte contro tenniste dalla classifica peggiore di Arruabarena, facevano temere il peggio. Invece, si è vista una Sara tignosa, generosa e con ritrovata fiducia in se stessa: caratteristiche che hanno consentito all’Italia di andare su un importantissimo 2-1. Ma a nulla sarebbe valso se Deborah Chiesa, 21enne trentina al 178esimo posto del ranking WTA, non fosse riuscita a compiere quella che è sin qui l’impresa più grande della sua giovanissima carriera (le auguriamo di migliorarla presto): sconfiggere Arruabarrena, 82 WTA dopo 2 ore e 28 minuti di tennis non bello, ma coinvolgente, durante il quale l’azzurra ha rimontato da 1-4 sotto nel terzo e ha annullato un match point all’esperta avversaria. La trentina si era fatta conoscere a Roma lo scorso maggio impensierendo per un set Tsurenko ed era apparsa in crescita in questo inizio di 2018 nel quale aveva sconfitto giocatrici validissime come Flipkens e Fett (entrambe nelle quali di San Pietroburgo), ma un grande plauso va anche al capitano, Tathiana Garbin, per aver avuto il coraggio di preferire Chiesa a Paolini, meglio classificata. La speranza è che questa vittoria le dia fiducia nei propri mezzi nel circuito. Intanto, rifacendoci anche al passato week-end di Coppa Davis, non resta che ribadire il vecchio adagio tennistico: i nostri giocatori rendono meglio in nazionale che nel circuito.

5 – i tennisti italiani impegnati all’ATP 25o di Quito: Paolo Lorenzi, Stefano Travaglia, Marco Cecchinato, Federico Gaio e Alessandro Giannessi (6 se si considera anche Alessandro Motti, fermato al primo turno delle quali da Bagnis). Lo spezzino aveva perso il derby nel turno decisivo delle quali con Gaio, un match nel quale si era fatto annullare sette match point, con il faentino vincitore della maratona tra connazionali col punteggio di 3-6 7-6(5) 7-6 (7). Tuttavia, Giannessi è stato ripescato nel tabellone principale per il forfait a tabellone compilato di Tommy Robredo. Alessandro ha approfittato della buona sorte, sconfiggendo Peter Polansky, 114 ATP, con il punteggio di 6-3 6-4, prima di battagliare e arrendersi nuovamente al fotofinish contro Thiago Monteiro, 118 ATP, vincitore con lo score di 7-6(5) 4-6 7-5. L’unica altra vittoria azzurra nel tabellone principale è arrivata da Stefano Travaglia: il marchigiano, opposto all’ex 32 del mondo Pablo Andujar (a causa di una serie di infortuni attualmente 1753) ha vinto la sua terza partita a livello ATP col punteggio 6-4 5-7 7-5, prima di fermarsi di fronte a Nicolas Jarry, 95 ATP, capace di guadagnarsi i quarti con lo score di  4-6 7-6(5) 6-3. Per il resto, solo sconfitte per i nostri giocatori: il futuro vincitore del torneo, Carballes Baena, 107 ATP, ha eliminato con il punteggio di 7-6(5) 6-3 Gaio, mentre Cecchinato è stato liquidato con un 6-4 6-2 da Gerald Melzer, 98 ATP. La più amara sconfitta è senza dubbio quella rimediata da Paolo Lorenzi, il cui momento nero (dopo gli US Open ha vinto appena due partite) non è stato interrotto neanche dal ritorno all’amata terra rossa: il toscano, l’anno scorso finalista a Quito, dopo aver avuto un bye al primo turno in qualità di quarta testa di serie, è stato fermato da Carballes Baena, vincitore col punteggio di 7-6(4) 7-5. Più ombre che luci nella prima tappa sudamericana del circuito.

6 – le finali consecutive raggiunte da Richard Gasquet all’Open Sud de France di Montpellier, un torneo appartenente alla categoria ATP 250. Una predilezione particolare del 31enne francese dallo splendido rovescio a una mano, tornato a giocare questa settimana il suo torneo “preferito” con una bacheca già ricca di 14 titoli (3 vinti proprio a Montpellier) e 14 finali (tra le quali, una al Masters 1000 di Amburgo nel 2005 e due al Masters 1000 di Toronto, nel 2006 e nel 2012). L’ex enfant prodige del tennis francese evidentemente ama le condizioni tecniche offerte dall’Arena che ospita il torneo, e, soprattutto, è stimolato dal giocare ad appena 60 km dalla sua città natale, Beziers. Per comprendere meglio la particolarità di questi numeri, basta dire che in nessun altro torneo Gasquet è arrivato sin qui più di due volte in finale. L’ultimo a impedirgli di arrivarci a Montpellier era stato Kohlshreiber ai quarti del 2012, poi è arrivata una serie di 5 finali – vittorie su Paire, Janowitz e Mathieu, sconfitte con Monfils nel 2014 e Sasha Zverev nel 2017. Tecnicamente, il francese non ha mai dovuto compiere qualcosa di rimarchevole a Montpellier: prima di quest’anno, aveva vinto su un solo tennista top 20, nuovamente Monfils, ma nel 2015. Quest’anno, invece, si è sbarazzato facilmente (6-0 6-3) di Medvedev, 56 ATP, ha sofferto – 7-6(3) 5-7 6-3 il punteggio – contro il connazionale Herbert, 76 ATP, e ha facilmente (6-4 6-2) eliminato Dzumhur, 30 ATP. In semifinale è poi arrivata la vittoria in un certo senso più importante della carriera a Montpellier: Richard ha infatti sconfitto (6-4 0-6 6-3) David Goffin, che solo quattro mesi fa lo aveva battuto facilmente nell’unico precedente di Tokyo. In finale, è poi arrivata la quarta sconfitta a un solo passo dal titolo: a fermarlo, Lucas Pouille, impostosi col punteggio di 7-6 (2) 6-4, al quinto titolo della carriera (quello ottenuto col maggior pizzico di fortuna, visto che in semi contro Tsonga aveva praticamente perso, prima che il suo connazionale fosse costretto a ritirarsi).

10 – le vittorie della Fed Cup da parte della Repubblica Ceca, seconda solo agli Stati Uniti (18) relativamente alla quantità di titoli in bacheca della manifestazione a squadre nazionali femminile: numeri davvero ragguardevoli per una nazione di circa 10 milioni di abitanti, da decenni però patria di alcuni dei più grandi campioni della storia del nostro sport. Ma se nel maschile (3 le coppe Davis vinte) negli ultimi anni, a parte Berdych, non è nato nessun giocatore capace di stare stabilmente nelle posizioni di vertice della classifica, tra le donne la nidiata di campionesse o ottime tenniste è stata molto più fertile (basti pensare a Kvitova, Pliskova, Safarova, Strycova), come testimoniano anche le cinque vittorie (2011, 2012, 2014, 2015, 2016) nelle ultime sette edizioni di Fed Cup. Quest’anno, dopo che nel 2017 le migliori non si presentarono nella semifinale in trasferta contro gli Stati Uniti, la squadra al completo ha risposto alle convocazioni del capitano Petr Pala e, nella sfida di Praga contro la Svizzera, è arrivato un netto 3-0, con grande protagonista: Petra Kvitova. La vincitrice di due Wimbledon, reduce dal titolo a San Pietroburgo, nei due singolari ha sconfitto (6-2 1-6 6-3 il punteggio) prima Golubic, 64 WTA, e poi nettamente (6-2 6-4) Bencic, 73 WTA. Il terzo punto è arrivato da Strycova, che ha avuto la meglio con lo score di 6-2 6-4 di Bencic, uscita decisamente bocciata da questo week-end, dopo i positivi segnali fatti intravedere in Australia. A punteggio acquisito, la sconfitta nel doppio non ha cambiato le cose: le ceche ora devono andare in Germania per riuscire a tornare in finale.

93 – la classifica di Marius Copil quando questa settimana ha iniziato il torneo di Sofia, dove arrivava dopo un pessimo inizio di 2018, nel quale aveva perso al primo turno sia a Pune (da Djere) che a Melbourne (contro Simon). Il week-end casalingo in Davis, con le facili vittorie in singolare contro il Lussemburgo privo di Gilles Muller, devono aver dato fiducia al numero 1 romeno, negli ultimi anni quasi sempre omaggiato di una wild card al Masters 1000 di Madrid dal patron del torneo, il connazionale Ion Tiriac. Dotato di un ottimo servizio, sembrava destinato, nonostante buone potenzialità, a essere solo un comprimario nel tennis che conta: già dal 2012 ha chiuso la stagione nei primi 200, ma solo nel 2017 ha terminato nella top 100. Inoltre, solo due volte in diciotto occasioni totali ha vinto contro un top 20 (a Pechino nel 2012 su Cilic e a Brisbane nel 2014 contro Simon). Dal 2014, almeno una volta all’anno, ha raggiunto i quarti in un evento ATP (nel 2014 a Brisbane e Stoccolma, nel 2015 a ‘s-Hertogenbosch, nel 2016 ad Anversa e nel 2017 a Metz): come si vede da tali risultati, il suo tennis potente e da uno-due, lo fa rendere al meglio su superfici rapide, possibilmente al coperto. A Sofia è arrivato in finale (dove è stato sconfitto in tre combattuti set dal bosniaco Basic, proveniente dalle qualificazioni) senza perdere nemmeno un set: ha regolato nell’ordine il 42 ATP Robin Haase 7-6(5) 6-4, il 111 ATP Blaz Kavcic (6-2 6-2), il 28 ATP Gilles Muller (duplice 6-4) e, infine, il 187esimo giocatore al mondo Kovalik, sul quale si è imposto col punteggio di 6-4 6-2. Presto capiremo se si è trattato della settimana della vita.

111 – la media delle posizioni nel ranking ATP dei finalisti dell’ATP 250 di Sofia, Marius Copil (93) e Mirza Basic (129): una finale non degna, dal punto di vista dell’appeal, di un torneo del circuito maggiore. Non si può neanche dire che la sfida potesse contare sull’interesse suscitato da due tennisti giovanissimi e in ascesa: sono entrambi circa ventisettenni e, se di Copil abbiamo parlato sopra, sul bosniaco vincitore del torneo, che in verità in Bulgaria ha ben figurato eliminando Kohlschreiber e Wawrinka, si può aggiungere che si era fatto conoscere nel circuito maggiore solo negli ultimi mesi con la semifinale a Mosca e con la vittoria su Feliciano Lopez a Doha. Molto probabilmente faranno entrambi in tempo a esprimere in futuro il meglio del loro potenziale, ma il mancato richiamo verso il grande pubblico resta un serio danno per gli organizzatori. Etichettarla come una finale da livello circuito Challenger può sembrare esagerato, ma non lo è, come si verifica facilmente vedendo le finali dei soli tornei del circuito minore già giocati nel 2018. Canberra con una media di 85,5 (Fucsovics 85, Seppi 86) e Dallas con una di 91 (Nishikori 24 e Mcdonald15) hanno fatto meglio in tal senso di Sofia, cosi come Rennes con la finale tra Pospisil (105) e Berankis (136) ha fatto di pochissimo “peggio”. Sul torneo di Quito e sul suo caso particolare abbiamo già discusso, Sofia era invece andata meglio nelle sue due precedenti edizioni (specialmente nell’ultima, salvata dal beniamino di casa Dimitrov), ma non è stata tutelata dalla presenza del solo Wawrinka, fermatosi alle semifinali. L’ATP dovrebbe proteggere maggiormente gli investimenti milionari (tra montepremi e le svariate spese accessorie, si supera sempre il milione di euro anche per gli ATP 250) degli organizzatori, magari pensando di ridurre da tre a due i tornei in calendario nella settimana successiva a Australian Open prima e Coppa Davis poi, e precedente a ricchissimi ATP 500 e, a marzo, a Indian Wells e Miami.

187 – la classifica dello slovacco Jozef Kovalik, il tennista con il ranking peggiore ad essere arrivato questa settimana in semifinale a uno dei tre tornei ATP 250 che si sono giocati: lo ha fatto a Sofia, dove è stato bravo ad approfittare di un tabellone mediocre, che gli ha permesso di arrivare al penultimo atto del torneo senza aver dovuto affrontare un giocatore nella top 90. Una bella soddisfazione per il 25enne slovacco, giunto sin qui in carriera a livello ATP solo due volte ai quarti (Monaco di Baviera 2016 e Chennai 2017) dove era sempre stato fermato. Le migliori soddisfazioni le aveva colte a livello Challenger, dove ha vinto 2 tornei (tra cui quello di Napoli nel 2016), ma non aveva mai brillato contro top 50, ad eccezione dello scorso anno in India, quando sconfisse addirittura Cilic al primo turno. Kovalik è partito dalle quali dove ha sconfitto prima il nostro Stefano Napolitano, 204 ATP (4-6 6-4 6-3 il punteggio) poi il tedesco Oscar Otte, 136 ATP, eliminato con un duplice 6-3. Nel tabellone principale, ha sconfitto 6-3 6-3 Radu Albot, 89 ATP; mentre ha avuto decisamente maggiori difficoltà contro Lucas Lacko, al quale ha annullato un match point, prima di passare ai quarti col punteggio di 4-6 6-2 7-5. Nei quarti ha invece sofferto un solo set 7-6(2) 6-4 per eliminare Baghdatis, prima di arrendersi a Copil, vincitore nettamente (6-4 6-2). Difficile rivederlo a questi livelli.

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