Delpo scacco al re (Crivelli). La bestia nera Delpo sfila la corona al Re (Cordella)

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Delpo scacco al re (Crivelli). La bestia nera Delpo sfila la corona al Re (Cordella)

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Rassegna a cura di Daniele Flavi

Delpo scacco al re

Riccardo Crivelli, la gazzetta dello sport del 18.03.2018

Dopo 17 perle stagionali, la collezione di Federer si arresta a Indian Wells di fronte a un rivale meraviglioso, coraggioso e vicino al rendimento paradisiaco di quando, proprio contro Roger, si prendeva lo Slam newyokese. Chapeau, Del Potro: questa è la tua domenica. QUANTE EMOZIONI Il match esplode quando il pubblico, eccitato da uno spettacolo sovrumano, chiede letteralmente a gran voce il terzo set, con urla belluine a ogni punto e soprattutto rumoreggiando tutte le volte che l’argentino si prepara a battere. Delpo, come è ovvio, perde la testa, ma anche Federer non le manda a dire a un arbitro decisamente inadeguato al contesto per personalità e carisma e non aiutato da pessimi giudici di linea. Tra cannoneggiamenti e delizie, il tie-break del secondo set diventa lo spartiacque tra una partita e un romanzo epico. Il Divino lo maneggia meglio regolando i nervi, si procura tre set point (ne aveva già avuto un altro) sul 6-3 ma riperde la bussola. Sul 7-6, il quinto set point sembra quello buono e il servizio vincente che pizzica la riga certifica il prolungamento dello show. Macché: Occhio di Falco dimostra che la battuta è lunga, Federer stava già cambiando campo e infatti sbaglia la seconda. Doppio fallo. E crisi, con match point argentino sull’8-7, ma Palito spreca con un facile dritto in rete. Finalmente sul 9-8, Roger chiude tirando poi una parolaccia all’arbitro, mentre lo stadio è una bolgia infernale. Ma è solo il preludio di un terzo set favoloso, con prodezze in serie che infiammano un match memorabile, onorato dal miglior Del Potro da otto anni e più. Eppure non basterebbe, se il Divino sfruttasse i tre match point sul 5-4 e servizio, eppure incredibilmente il Più Grande smarrisce il killer instinct e finisce per consegnarsi a Juan Martin in un tie-break senza storia. E’ il primo Masters 1000 in carriera per lui, dedicato al cane appena scomparso e la domanda alla fine è sempre la stessa: sarebbero esistiti i Fab Four se il nuovo numero sei del mondo non fosse stato martoriato dagli infortuni? Sicuramente, la platea dei fenomeni si sarebbe allargata. PRIMA VOLTA Per le rivoluzioni, adesso, bisogna guardare anche all’altra metà del cielo. Tra palme e deserto, la finale donne californiana esalta la presa di potere dell’anno di grazia 1997, quello della nascita di Naomi Osaka e Dania Kasatkina, che fanno quarant’anni in due, cioè solo tre in più di Sua Eternità Federer, l’epilogo più giovane dai tempi di Serena Williams contro la Cljisters e della Hantuchova contro la Hingis. E’ il trionfo della giapponese con la pelle ambrata, eredità del padre haitiano, che regala al suo paese (anche se per cultura e formazione tennistica è decisamente americana) il più grande trionfo di sempre al femminile nell’Era Open (nessuna aveva mai vinto un Premier). Senza essere testa di serie (come la Cljisters nel 2005) e in coda a un torneo in cui ha finito per lasciare briciole a califfe del calibro di Sharapova, Radwanska, Karolina Pliskova e soprattutto la numero uno del mondo Halep, Noemi conquista con il botto il primo trionfo in carriera e inizia a intravedere quegli orizzonti da predestinata che le erano già stati predetti due anni fa, quando raggiunse il terzo turno nei primi tre Slam giocati. L’hanno paragonata, per fisico, stile e folta chioma riccioluta, a Serena Williams, di cui intanto ha assunto l’ex hit boy, Sascha Bajin, trasformandolo in coach: e quando ha cominciato a martellare con il servizio e il dritto da fondo l’impotente Kasaktina, il paragone non è parso così azzardato. Le due rivali, prima del torneo, avevano girato un simpatico video insieme, nel quale Daria insegnava a Naomi come eseguire un tweener, cioè il famoso colpo all’indietro sotto le gambe. E’ la Next Gen sbarazzina e senza pensieri che si sta affacciando con prepotenza ai vertici (oggi la Osaka sarà numero 22 da 44 che era prima di Indian Wells, la russa sconfitta addirittura 11), in quel ricambio generazionale che il tennis femminile si regala a ogni decennio (Williams a parte): del 1997 sono pure la Ostapenko vincitrice dell’ultimo Roland Garros e la svizzera Bencic, talento abbagliante frenato solo da una marea di infortuni. Insomma: molto di nuovo sotto il sole.

La bestia nera Delpo sfila la corona al re

Gianluca Cordella, il messaggero del 19.03.2018

La vittoria con Coric in semifinale aveva sancito, alla bellezza di 36 anni, il miglior avvio di stagione della sua carriera: 17 successi di fila. Ma anche i Superman come Roger Federer hanno da qualche parte una kryptonite che riesce a renderli umani e fallaci. E quando ci si imbattono, non c’è primato che possa dirsi al sicuro. La kryptonite di Re Roger è importata dall’Argentina e ha un nome ben preciso: Juan Martin Del Potro. Che, pur avendo un record negativo di 18-7 nei testa a testa con il fuoriclasse di Basilea, è uno dei pochissimi del circuito a vantare nei confronti di Re Roger un bilancio in attivo, quello delle finali dove, sommando quella di ieri a Indian Wells, Del Po è in vantaggio per 4-2. TABÙ SFATATO Il trionfo di Juan Martin, nella migliore versione da quando è rientrato dopo il calvario al polso, arriva dopo quasi tre ore di battaglia – altra costante nelle sfide tra i due – dopo tre set, 6-4 6-7 (8) 7-6 (2) il punteggio – e dopo tre match point sprecati da Federer nel set decisivo, sul 5-4 e con il servizio a favore. Roger che, in chiusura di secondo, aveva a sua volta annullato una palla match a Del Potro che avrebbe privato gli spettatori sugli spalti e in tv di una partita che, al momento, si cuce addosso l’etichetta di “match del 2018”. Juan Martin, che nel suo curriculum aveva uno Slam (gli Us Open del 2009, vinti guarda caso in finale contro Federer) ma non un Masters 1000, colma la lacuna ed entra insieme ad Ivan Ljubicic in un club esclusivo: sono gli unici due a non far parte dei Fab Four in grado di trionfare a Indian Wells nelle ultime 15 edizioni del torneo. BENVENUTA, NAOMI La cosa più bella della finale femminile sono stati i ringraziamenti di rito di Naomi Osaka durante la cerimonia di premiazione. Vent’anni, primo titolo in carriera e seconda apparizione in assoluto in una finale, dopo Tokyo 2016: insomma, poca dimestichezza con il microfono in mano. Naomi prima si perde la Kasatkina quando le rende l’onore delle armi (salvo scoprire con sorpresa che era proprio dietro di lei), poi dimentica i nomi di persone e sponsor da ringraziare e infine salta per lo spavento quando sta per alzare la coppa e, nello stesso momento, sparano i coriandoli cerimoniali. Un simpatico disastro, che è l’opposto esatto di ciò che la giapponese è riuscita a fare in campo, schiantando in poco più di un’ora l’avversaria. Un 6-3 6-2 frutto soprattutto dei tanti errori della russa, anche lei alla prima finale in un Premier Mandatory, che ha pagato la tensione del grande evento o la stanchezza delle quasi tre ore impiegate in semifinale per domare la leonessa Venus Williams. O entrambe, più probabilmente. La Osaka, manifesto dell’integrazione con papà haitiano, mamma giapponese e vita da statunitense, ha disputato un torneo da veterana, eliminando la numero uno del mondo Simona Halep, due ex numero uno come Sharapova e Pliskova e la Radwanska, che in carriera si è fermata al numero 2. Naomi, da 44 che era, diventerà 22: potrebbe essere la rivelazione dell’anno.

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