Nadal teme l'erba alta, per Zverev è uguale

Interviste

Nadal teme l’erba alta, per Zverev è uguale

Tre protagonisti a poche ore dall’esordio. Rafa è qui per vincere, ma conosce le insidie. Zverev invece è laconico: “La superficie conta poco”. I mondiali distraggono Murray

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Prima che sia solo bianco, giallo e verde – i tre colori che caratterizzano le divise, le palline il manto erboso – i protagonisti dei Championships sfilano in conferenza stampa per condividere timori, scoprire le carte o scegliere di non farlo, parlare di tutto e a volte anche dei mondiali di calcio.

In attesa di scoprire in che modo Federer cercherà di svicolare dalle morbose aspettative sulla conquista del suo ventunesimo Slam, Rafael Nadal torna a sedere di fronte ai giornalisti d’Albione a 3647 giorni di distanza dalla finale dell’edizione 2008, che tra cinque giorni compirà dieci anni esatti. La partita che ha segnato il suo ingresso definitivo nella storia del tennis. “Mi sento più vecchio, con tanti chilometri nelle gambe” sorride Rafa, che però non ha certo l’aspetto di un’auto vicina alla rottamazione. “Le cose importanti nella vita non cambiano mai” è la via più comoda per spiegare che viene qui a Londra per vincere questo torneo come ogni anno, anche se può diventare sempre più complicato, anche se ha dovuto rinunciare ancora al Queen’s – “mi è dispiaciuto non andarci, ma avevo giocato tanto sulla terra” – e se l’erba comporta delle ulteriori difficoltà di adattamento.

Le aspettative sono alte, sono qui per fare bene. È però vero che si arriva a questo evento senza avere un’idea precisa di come ti senti, come stai giocando. Anche quando ho vinto Wimbledon ho giocato al massimo cinque partite prima sull’erba (nel 2008, al Queen’s, ndr), un’altra volta ne ho giocate tre (nel 2010, sempre al Queen’s, ndr). Arrivi qui e non sai esattamente come stai, è un torneo nel quale la fiducia arriva strada facendo, al massimo negli allenamenti della settimana precedente. Quando arriva il Roland Garros so se sto giocando bene o male, so quante possibilità ho, allo US Open – anche se in misura minore – vale lo stesso“. Oltre a questo, l’erba rimane un microcosmo a parte nel mondo del tennis. Si gioca poco, ma è necessario modificare qualcosa.

Per me una delle cose più difficili da fronteggiare è la velocità dei campi, devo giocare e muovermi in modo diverso. Nelle fasi finali del torneo i movimenti diventano più facili perché non rimane molta erba a fondocampo, affiora la terra sulla quale ci si muove più liberamente” dice Rafa, svelando un po’ il segreto di Pulcinella. Del resto i numeri dello spagnolo parlano chiaro: delle dieci sconfitte a Wimbledon sette sono arrivate in uno dei primi quattro incontri, le altre tre tutte in finale, poiché quando Rafa raggiunge i quarti poi arriva sempre in fondo. “So che devo essere pronto sin dall’inizio del torneo” è dichiarazione figlia dell’evidente insidia dei primi turni, a cui potrebbe aggiungersene un’altra.Mi sembra che quest’anno l’erba a Wimbledon sia leggermente più alta del normale, non so se per questioni climatiche“. I più maliziosi parleranno di maniavantismo, ma conosciamo tutti la capacità del maiorchino di rilevare ogni dettaglio. L’ultimo gli è sfuggito probabilmente in culla.

Certo stridono le lungaggini di Rafa sulle insidie dell’erba al cospetto della sicumera ben poco prolissa di Alexander Zverev, che giura di non prestare troppa attenzione al colore e alle caratteristiche del tappeto sul quale gli tocca rincorrere la palla. “Certo, l’erba è una superficie diversa, ma come ho sempre detto per me la superficie non gioca un ruolo così importante. Sta tutto nel mio tennis quando sono in campo, posso adattarmi alle superfici. Ovviamente devi fare qualcosa di diverso rispetto alla terra, usare un po’ di più lo slice, entrare di più in campo, ma sono aggiustamenti che puoi mettere a punto in pochi giorni. Dopo di che devi solo trovare i tuoi colpi”. Parla la metà degli altri Sascha, è fatto così, non riesce a smuoverlo neanche una domanda sulla sua routine pre-partita. “Non sono superstizioso, per me l’unica cosa che conta è la preparazione. Se mi sono allenato bene giocherò bene“. Il pragmatismo tedesco con sprazzi di ‘educazione siberiana’ erompe in tutta la sua efficacia.

Rispetto a quello che si attende dal torneo, Sascha ci tiene però a precisare una cosa. “A Parigi ero un po’ infortunato, lo sanno tutti. Non mi sono allenato molto prima di Halle, quindi sono sceso in campo poco rodato, ma gli allenamenti successivi alla sconfitta di Halle, compresi quelli che ho svolto qui, sono andati alla grande. Sono pronto per cominciare“. Partendo, come ordine tennistico vuole, dal servizio. “È molto semplice: cerco di servire più forte che posso, non c’è molta tattica dietro. A volte sul ritto, altre sul rovescio, altre ancora al corpo“. Alla fine rischia di avere ragione lui. Il tennis può essere una faccenda tanto complicata, ma persino tanto semplice.

Certo, vaglielo a raccontare a Andy Murray. È tornato dopo un anno di stop, dopo i concreti timori di dover appendere la racchetta al chiodo, e in tre partite ha dovuto affrontare Kyrgios, Wawrinka e Edmund. Mica semplice rientrare così, ma lo scozzese ha la scorza dura e a Wimbledon giocherà. “A meno che nei prossimi due giorni non mi svegli e mi senta poco bene. Negli altri sport quando rientri dopo un infortunio non tendi a competere immediatamente con i più forti del mondo, magari per cinque set. Rientri con calma, giochi 15 minuti, poi 30, e via così”. Nel tennis, invece. Confessa poi, con la consueta disponibilità che quasi sempre va ben oltre gli obblighi istituzionali con la stampa, che l’anca ancora qualche problemino glielo dà. “Ci sono alcuni movimenti ancora insidiosi e cose su cui devo lavorare. Però va considerevolmente meglio di qualche mese fa, questo è certo. A volte in allenamento puoi sentirti bene, poi vai in campo per spingere al massimo e noti qualche altro piccolo problema. Si impara molto dalla competizione“. Per questo Andy non ha voluto tirarsi indietro.

Nonostante sia difficile scendere in campo, con due coppe in bacheca, da n.156 del mondo. E da numero due britannico in tabellone, come non gli accadeva da ben undici anni. “In passato credo di aver dato per scontato molte cose“. Essere tra i più forti, competere per gli Slam, diventare numero 1. Poi cerca il termine corretto, e lo trova. “Devo essere consapevole (mindful, ndr) e attento a come mi sento giorno per giorno. Soprattutto devo essere aperto con il mio team e condividere con loro le mie condizioni“.

Il britannico esordirà contro Paire, altro accoppiamento del quale probabilmente avrebbe fatto a meno. “Sono abbastanza sicuro di ricordare che a lui non piaccia giocare sull’erba. Lo scorso anno ha disputato un buon torneo (fu sconfitto proprio da Murray agli ottavi, ndr) e ha avuto un paio di match point contro Roger ad Halle quest’anno. Con le qualità che ha non vedo una ragione per cui non possa giocare bene su questa superficie. Ha una stile poco ortodosso, alti e bassi…“. Qui la conferenza è interrotta da qualche schiamazzo, perché in contemporanea Francia e Argentina stanno disputando uno degli ottavi di finale più emozionanti che si siano visti in un mondiale di calcio. “Non posso credere che ci stiamo perdendo questa partita. Non possiamo andare a vederla?” dice piuttosto seriamente Andy, raccogliendo sorrisi in sala.

Una serenità ritrovata che fa ben sperare. Dal punto di vista della comunicazione Andy è sempre stato un Fab 4 atipico, il più umano. Come dimostrò quella volta in cui, sempre a Wimbledon, qualcuno ebbe l’ardore di chiedere ai tennisti come preferissero gustare le celeberrime fragole dei Championships. “Con la crema“, l’ovvia risposta di Federer e Djokovic. Non quella di Murray, che si affrettò a rispondere “con le dita”. Gli si vuol bene anche per questo.

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