Wimbledon
Sarà stanca l’avversaria di Camila Giorgi?
Katerina Siniakova nella stessa giornata è stata in campo due ore e 27 minuti per superare 9-7 al terzo Ons Jabeur, e poi ancora un’ora e 49 minuti per il match di doppio

Camila Giorgi potrà eguagliare il proprio miglior risultato a Wimbledon (quarto turno nel 2012) se riuscirà a battere Katerina Siniakova, la giocatrice ceca che ha sconfitto al termine di una dura lotta Ons Jabeur (5-7, 6-4, 9-7). Ricordo che il match di secondo turno Siniakova-Jabeur era stato rinviato di 24 ore per la pioggia. Nel tardo pomeriggio Siniakova è di nuovo scesa in campo per il match di doppio, vinto insieme a Barbora Krejcikova per 6-2, 2-6, 6-2 contro la coppia Guarachi/Routliffe. Quindi mentre Camila ha potuto usufruire della canonica giornata di riposo, Siniakova scenderà in campo per due giorni consecutivi, avendo già giocato per 4 ore e 16 minuti oggi.
Ma chi è, e come gioca Siniakova? Attuale numero 42 WTA (best ranking 36), Katerina è nata il 10 maggio 1996 a Hradec Kralove (Repubblica Ceca), e ha il padre russo. Con due genitori di nazionalità diversa, la mamma è ceca, parla perfettamente due lingue. Figlia maggiore, ha un fratello nato sette anni dopo di lei, Daniel, ugualmente promessa del tennis (è stato numero 2 nazionale per livello di età).
Katerina è cresciuta nella sua città natale fino a farsi notare a livello nazionale per le qualità tennistiche e allora a 14 anni ha cominciato a fare la spola tra Hradec Kralove e Praga, per essere seguita da tecnici dello Sparta Praga, uno dei club più importanti per il tennis ceco. Poi si è spostata definitivamente nella capitale e da allora ha cominciato la classica trafila: le affermazioni juniores da ragazzina, prima in patria e poi a livello internazionale. Ha vinto ad esempio il Trofeo Bonfiglio, ma vanta anche una finale all’Orange Bowl 2012 e una agli Australian Open 2013 (entrambe le volte sconfitta da Ana Konjuh). Non sorprende quindi che fosse considerata una grande speranza anche per una nazione che sforna talenti a ripetizione come la Repubblica Ceca.
E anche se forse non ha ancora compiuto una impresa da prima pagina dei giornali, ha comunque già raggiunto ottimi risultati: tre finali perse a livello WTA (Bastad 2016, Tokyo 2016, Shenzhen 2018) ma soprattutto due tornei vinti (Shenzhen 2017 e Bastad 2017). Questo dimostra che ha saputo fare bene sia sul cemento che sulla terra, ma con il suo gioco eclettico si adatta ottimamente anche all’erba.
A livello Slam il miglior risultato ottenuto è il terzo turno (Wimbledon 2016 e Roland Garros 2018). Dunque se dovesse riuscire a superare Camila Giorgi otterrebbe il record in carriera.
Ma come gioca Siniakova? Secondo la scheda WTA è alta 1,74, e questa fa di lei una giocatrice di statura media per il momento attuale, dove non sono poche le tenniste attorno al metro e ottanta. Non è la giocatrice più potente del circuito, e la sua palla non viaggia ai livelli di Osaka o Keys, ma con il tempo ha sicuramente irrobustito i colpi, incrementando la potenza sia in quelli da fondo che nel servizio.
Si può dire che questi primi anni trascorsi da professionista siano comunque ancora di formazione e che il suo tennis sia tuttora un “work in progress”, visto che nel tempo ha cambiato diverse volte il movimento di preparazione del servizio e anche modificato l’impugnatura del dritto. Questi due colpi ancora oggi a volte difettano di stabilità, e nelle giornate di scarsa vena dà l’impressione di “aggiustare” la meccanica dei movimenti in modo un po’ troppo estemporaneo. Quando invece è in un periodo di ispirazione è capace di ricavare punti non solo con il rovescio (bimane, il colpo più stabile) ma con tutti i fondamentali.
Ma parlare soltanto dei colpi-base per Siniakova e credere che con questi costruisca il suo gioco sarebbe profondamente sbagliato. Katerina infatti è, sul piano tecnico, una delle tenniste più complete della sua generazione. Colpi slice, drop-shot, soluzioni choppate, la capacità di verticalizzare lo scambio, sono parte integrante del suo modo di intendere il tennis. Con i colpi in back non solo difende molto bene, ma è capace di utilizzarli per cambiare ritmo allo scambio, chiamare avanti l’avversaria, inventarsi geometrie nuove.
Ricordo anche che Siniakova è un’ottima doppista, tanto che ha vinto l’ultimo Roland Garros in coppia con Barbora Krejcikova. Coppia “storica”, visto che insieme da junior avevano vinto tre quarti del Grande Slam (Roland Garros, Wimbledon e US Open 2013).
Al momento il suo maggiore problema è sicuramente la continuità, ma se le capita il giorno giusto diventa un osso durissimo per tutte, perché non c’è area del campo o situazione di gioco in cui non si senta a proprio agio. In carriera Siniakova ha già sconfitto tre top 10 (Konta e Halep a Shenzhen 2017 e Wozniacki nella finale di Bastad 2017).
Ma è impossibile parlare di Katerina senza ricordare il suo modo di comportarsi durante i match. Mi rifaccio a una parte dell’articolo che avevo dedicato a lei due anni fa. L’aspetto che colpisce inizialmente di Siniakova è il carattere: battagliero e grintoso, ma anche estroverso e mutevole. Tutto questo fa sì che a volte i suoi match prendano una piega quasi teatrale: è difficile rimanere indifferenti al suo modo di stare in campo. La ricordo arrivare alle lacrime a Bad Gastein 2014, di fronte a un’avversaria come Sara Errani che le teneva testa in scambi lunghi e lottatissimi, sino a procurarle un misto di rabbia e frustrazione. O un’altra volta a Roma 2015, inquadrata quasi piangente a un cambio campo, trasformare in un sorriso la sua espressione nel momento in cui si era accorta che era ripresa in primo piano.
In Siniakova l’atteggiamento merita di essere sottolineato perché non è fine a se stesso: è parte integrante del suo modo di concepire il tennis. Di fronte a chi prova a ridurlo a una disciplina estremamente fisica, basata sulla potenza e la standardizzazione tattica, Katerina rimane una “giocatrice”, cioè qualcuna che cerca di sorprendere le avversarie con soluzioni inedite, che è capace di inserire nello scambio un dritto choppato per cambiare ritmo, o che considera il campo come un luogo nel quale provare a costruire geometrie insolite. E che dà sempre l’impressione di “pensare” alla scelta del colpo che sta per eseguire. Insomma: tutto il contrario del tennis come attività basata sulla ripetitività e la normalizzazione.
Per questo è davvero difficile prevedere come possa andare la sua partita contro Giorgi; perché entrambe nella loro carriera hanno difettato in continuità e questo le rende particolarmente imprevedibili. Camila probabilmente cercherà, come sempre, di prendere in mano il gioco; ma Katerina ha le armi per difendersi e anche per condurre a sua volta lo scambio. E non dovremo sorprenderci se proveranno anche a verticalizzare, sempre che la velocità della palla e i tempi di gioco lo consentano. Ma la prima cosa da augurarsi è che tutte e due arrivino ispirate al match, perché allora avremo spettacolo assicurato.
Scontri diretti: Giorgi – Siniakova 1-1
2017 Cincinnati (hard): Giorgi d. Siniakova 6-2, 6-2
2014 Mosca (hard): Siniakova d. Giorgi 7-6(3), 4-6, 7-5
evidenza
Lo Slam racconta: Wimbledon 1948, la chimera di John Bromwich
Forse fu la “…Worst ever Wimbledon final” come titolò Lance Tingay il giorno dopo.
Non sappiamo se andò veramente così, per certo ebbe invece tutti i caratteri di un grande dramma teatrale. Con esito crudele.

Londra, Centre Court, 2 luglio 1948, pomeriggio.
Quinto set, 5-3 e 40-30, secondo match point.
John Bromwich accarezza la pallina, serve una prima piazzata e sulla risposta attacca verso il rovescio di Falkenburg. Il californiano colpisce e in tribuna la sorella Jinx respira a fatica mentre la pallina vola senza fretta lungo la linea di gesso… STOP!
Sei anni prima, da qualche parte nei dintorni di Port Moresby, Nuova Guinea.
Steso su un’amaca fra due palme il caporale del supporto aereo John Edward Bromwich faticava a concentrarsi sul libro che aveva in mano. Ormai da un anno lui e i suoi compagni della 25a brigata resistevano all’avanzata dei giapponesi, che avevano bisogno dell’isola come trampolino per l’invasione dell’Australia. Port Moresby e la sua costa, protette dalla flotta statunitense, rimanevano l’ultimo avamposto degli alleati.
“Quanto durerà ancora questo inferno?” si chiedeva il giovane.
Meno di tre anni prima lui era un re del tennis, trionfatore nello slam australiano e soprattutto in Coppa Davis, il vero agone.
Il Challenge Round si era giocato sui campi stranieri del Merion Cricket Club e dopo la prima giornata il campione di Wimbledon Bobby Riggs e lo scudiero Parker avevano portato i padroni di casa sul 2-0. I palloncini colorati erano pronti.
Poi il miracolo.
Il capitano a stelle e strisce Walter Pate manda in campo due ragazzini nel doppio, e poco importa se uno dei due è il futuro King Jack Kramer. John e Adrian Quist, una delle migliori coppie mai esistite, prendono le misure ai due monelli e li mandano a casa con una sonora sculacciata
Ultima giornata, Quist gioca il match della vita e batte al quinto un Bobby Riggs debilitato da un malore notturno ma gran signore nel riconoscere i meriti dell’australiano. Poco dopo John aveva subito messo le cose in chiaro con un 6-0 iniziale a Parker e non si era più voltato indietro. Eccole parole del columnist del Times John Kieran:
“At the end of the first set the crowd started to leave.
At the end of the second set the policemen and ushers left.
At the end of the third set the Davis Cup left.”

Sarebbero mai tornati quei tempi? L’amara sensazione di veder come acqua scorrere via i suoi anni migliori fra attacchi di malaria e missioni nella giungla non lo abbandonava mai, nemmeno nel sonno. In quelle poche ore di ristoro il giovane biondo australiano si abbandonava ai ricordi e sotto la soglia della coscienza tornava a quando tutto era cominciato…
John Edward Bromwich, australiano di Sidney classe 1918, fu un prodigio fin dalla prima volta che impugnò una racchetta quasi più alta di lui. Con entrambe le mani, come spesso capita ai piccolini. Per i primi anni serviva anche a due mani, appoggiando la pallina da lanciare agli indici stesi e uniti. Col tempo queste bizzarrie si trasformarono… in altre bizzarrie.
Mancino naturale e ambidestro, Johnny prese a servire e smecciare con la destra, facendosi poi scivolare la racchetta nella mano opposta e giocare gli altri colpi con la sinistra. Quella racchetta era unica come lui, leggerissima e con un manico sottile “… almost as slim as that of a golf club”. Per aggiungere controllo poi prediligeva un’incordatura lentissima, simile per i colleghi a una rete per cipolle.
Un fenomeno inimitabile, perché a questo strano arsenale univa sensibilità di mano, senso dell’anticipo e piazzamento di palla unici e visti dopo solo in un altro John circa mezzo secolo dopo . “He could make the ball talk” disse di lui il connazionale Roy Emerson, 14 Slam vinti, non uno che passa per strada.
Oggi non ci si sorprende più di nulla ma immaginatevi nel mondo ingessato di quasi un secolo fa l’impressione che fece questo giovane prodigio, capace a 18 anni di arrivare in finale sia in singolo che in doppio ai campionati australiani con quello stile strano e unico, quel modo di piazzare la palla su un francobollo senza sforzo e di piegarsi fino a sfiorare il terreno per aumentare il controllo delle traiettorie. A fine match aveva sempre entrambe le ginocchia sporche d’erba come un flanker dei Wallabies.
Ecco al proposito qualche riga del Time magazine datata 1937:
“…As a freak tennis player, Australia’s John Bromwich makes McGrath’s methods look banal. Like 21-year-old McGrath, Bromwich is not only a freak but a prodigy.”
Niente potenza quindi, ma “beaucoup de finesse”, un uso sapiente degli angoli, il gioco teso a spostare e spingere fuori equilibrio l’avversario per finirlo poi con tocco letale, lento, lontano. Fu soprattutto questa caratteristica a farne uno dei migliori doppisti di tutti i tempi.
“…for a hypothetical all-time, all-Universe Davis Cup competition i would choose Bromwich and Don Budge as my doubles team. Anytime you had Bromwich in your forecourt, you should win.” (Jack Kramer)
Old Brom sul campo era un perfezionista, voleva ogni punto e i lunghi soliloqui a ogni colpo insoddisfacente lo fecero passare agli inizi di carriera come leggermente “unfair”.
Al proposito Harry Hopman amava raccontare una storiella spiritosa.
Nel 1938 un John ventenne stava giocando ad Adelaide contro il connazionale Leonard Schwartz. In vantaggio per 6-0, 6-0, 5-0 e 15-40 sul servizio avversario Bromwich viene sbattuto fuori campo da una volée angolatissima. Arriva sulla palla e gioca un lob liftato di rovescio che esce di un dito. Si blocca, prende a grattarsi la testa con fare perplesso ed esclama: “I’ll never win this match if I keep making mistakes like that.”
Al termine del conflitto mondiale Bromwich ha quasi 27 anni e un fisico debilitato dai combattimenti in prima linea. Il suo è lo stesso destino di una intera generazione di campioni che vide la propria carriera spezzata in due tronconi dalla follia degli eserciti.
King Kramer prestò servizio nel Pacifico a bordo di un cacciatorpediniere, Gottfried von Cramm sul fronte russo con la Wermacht, Don Budge si ruppe i legamenti della spalla destra nelle isole del pacifico e non fu più lo stesso, Joe Hunt (il compagno di doppio di Kramer in quella Davis del 1939) precipitò in mare col suo aereo. Bobby Riggs, più fortunato, passò il conflitto a giocare a tennis con il suo ammiraglio di giorno, mentre di notte il campo si tramutava in un tavolo di panno verde.
Brom però ci crede e piano piano torna in forma. È solo una questione fisica perché il talento è sempre lì sottopelle, pronto a sgorgare splendente.
E in quell’estate londinese del 1948, una delle più fredde del secolo, tutto sembra essere pronto perché la corona di Wimbledon si posi infine su biondi capelli australiani

Johnny sorvola turni e avversari con la leggerezza di una classe superiore, non perde un set e nei quarti di finale impartisce una lezione di tennis su erba allo statunitense Budge Patty, un tipino che un paio di anni dopo trionferà sia a Parigi che a Londra.
Arriva lanciato come una locomotiva, pronto a travolgere l’ultimo ostacolo. Tutto sembra dalla sua parte, giocherà inaspettatamente contro la settima testa di serie e il solito Jack Kramer, impegnato in una tournée in Sud America con i pro, scommette una discreta sommetta con i bookies londinesi sulla sua vittoria.
Ma tennis e diavolo sono legati, e quel giorno Belzebù ci mise certamente la coda.
La settima testa di serie risponde al nome di Robert Falkenburg, un allampanato ventiduenne all american boy nato a New York e trapiantato subito nell’assolata California. Sua sorella Jinx è una delle modelle più famose dell’epoca, lui diventerà miliardario in una seconda vita vendendo hamburger e milk shakes in Brasile. Alto come una torre e magro come un giunco, Falkenburg si forma al Los Angeles Tennis Club, mecca del tennis a stelle e strisce e culla dei più grandi campioni del tempo.
Il suo fisico e la velocità di piedi lo rendono perfetto per il Big Game, il serve & Volley à la Kramèr guidato razionalmente dai precetti del cosiddetto “tennis percentuale”. Fra i campi del LATC infatti si aggirava da anni un personaggio di nome Cliff Roche, un ingegnere divenuto miliardario grazie a brevetti automobilistici. Cliff era un discreto tennista amatoriale e si circondava di giovani promesse, fra cui lo stesso Big Jack e Ted Schroeder, alle quali insegnava che il campo da tennis era simile al tavolo da gioco o al mondo degli affari, bisognava valutare tutte le opportunità e optare sempre per quelle più vantaggiose. Scelte programmate e riproducibili come nell’industria, nessuno spazio per improvvisazione o colpi di testa.
Con l’immancabile Budweiser ghiacciata in mano, un bloc notes e una penna l’ingegnere indottrinava quotidianamente i suoi discepoli.
“Attaccate sempre sul rovescio avversario e coprite il lungolinea. Nessuno, eccetto Budge, è in grado di giocare un valido passante incrociato da laggiù”
“Concentrate le energie nel difendere i vostri turni di battuta. Se non perdete il servizio non potete essere sconfitti”
“Cercate il break solo quando si creano situazioni favorevoli, altrimenti mollate subito”
Questi solo alcuni dei postulati attorno ai quali Bob Falkenburg plasmò la sua idea di tennis. Un’idea estrema.
Sosteneva infatti che per vincere una partita erano sufficienti solo 18 games, quelli giusti. La sua strategia era lottare strenuamente finché il punteggio rimaneva in equilibrio e mollare all’istante appena un game o un set si metteva male.
Fra i giocatori circolava la storiella secondo la quale il punteggio perfetto per un match di Falkenburg era 7-5, 0-6, 7-5, 0-6, 6-4.
Bob soffriva di difficoltà respiratorie ricorrenti e approfittava di ogni momento per riposarsi o riprendere fiato, arrivava perfino a sdraiarsi sul campo qualche secondo per poi tirarsi lentamente in piedi con l’aiuto della racchetta. Questo atteggiamento unito allo stile di gioco che nulla o poco concedeva allo spettacolo gli valsero sempre una certa antipatia fra il pubblico, specie quello londinese.
Alla vigilia della finale un giornalista arrivò a chiedergli con malizia se aveva l’ambizione di diventare il primo campione orizzontale sul Centre Court.
“Prometto che cercherò di rimanere in piedi il più a lungo possibile” rispose Bob con autoironia, sempre segno di grande intelligenza.
Nei turni preliminari del torneo Falkenburg si fa trascinare al quinto dallo sconosciuto yugoslavo Mitic e rischia ancora nei quarti contro Lennart Bergelin, il futuro mentore dell’immenso Bjorn Borg.
Il giorno del destino è venerdì 2 luglio 1948.
Un classico maglione bianco scollato a V con bande colorate che richiamano i rispettivi colori nazionali, John e Bobby entrano sul centrale affiancati e sorridenti.
Pochi metri dietro un ufficiale di campo in giacca candida porta un fascio di racchette.
Il primo set è subito una montagna russa e sembra corroborare le speranze dell’australiano, che recupera da 2-4 sotto e con una serie magica di tre giochi conditi da tocchi sopraffini si presenta al servizio per chiudere il parziale. Due set point non sono però sufficienti, Falkenburg annulla il primo in tuffo a rete e il secondo con un passante, brekka e tira dritto fino all’inatteso 7-5.
Il secondo set è un battito d’ali, Bob perde subito il servizio e da quel momento in poi molla completamente gli ormeggi. Seguendo la sua personalissima “Way of tennis” lo statunitense rinuncia a giocare, colpisce a casaccio e incassa in pochi minuti un 6-0 mortifero e gli ululati di disapprovazione del pubblico.
“Cosa ci fai su questo campo?” gli grida uno spettatore esasperato da quell’atteggiamento. Falkenburg si limita a scrollare le spalle.
Sa di essere perfettamente in linea con il suo piano luciferino e infatti irrompe di nuovo nel match a spron battuto. Attacca all’arma bianca e una volta giunto col naso sulla rete anche un passatore eccezionale come Bromwich ha le sue brave difficoltà a superare il suo metro e novantadue. “It was like having a church at the net…” ricorderà tempo dopo in un intervista.
Nel quarto set Johnny recupera brillantemente il suo gioco di caratura superiore, strappa nel proverbiale settimo gioco e pareggia i conti con un comodo 6-3.
Qui giunti il destino di Falkenburg appare segnato, lo statunitense si accascia supino sull’erba in cerca di ristoro, allunga le pause fra i fischi del pubblico e nonostante questo cede subito la battuta per un 3-0 Australia che pare definitivo.
Le cronache del tempo ricordano che in quel terzo gioco Bromwich sbatacchia l’avversario a destra e sinistra con le sue millimetriche traiettorie. Falkenburg, lingua fuori e mani sui fianchi, appare disarmato e in pochi minuti è sotto 1-4
Rod Laver, anni dopo ricorderà che spesso un simile punteggio appare definitivo mentre in realtà non lo è, in fondo si tratta solo di un break… Purtroppo per Bromwich è la verità.
Old Brom però sembra ormai il padrone, veleggia comodo fino al 5-3 e servizio, deve solo piantare l’ultima banderilla per alzare la coppa. Prima un corto passante in cross di rovescio, poi l’errore avversario e infine una delicata palla corta che muore un dito oltre il nastro lo portano sul 40-15. Bob ha vinto solo un punto su uno scambio fortunato, sembra con la testa sul ceppo in attesa della lama ma trova ancora la forza di attaccare e annullare la prima occasione con una corta volée.
Londra, Centre Court, 2 luglio 1948, pomeriggio.
Quinto set, 5-3 e 40-30, secondo match point.
John Bromwich accarezza la pallina, serve una prima piazzata e sulla risposta attacca verso il rovescio di Falkenburg. Il californiano colpisce e in tribuna la sorella Jinx respira a fatica mentre la pallina vola senza fretta lungo la linea di gesso… e la colpisce in pieno! La nuvoletta bianca che si alza dal campo si dissolve in un secondo, così come le speranze di vittoria dell’australiano.
Bob ora è onnipotente come solo chi ha saputo risalire dal baratro, annulla un terzo match point con un missile di dritto e poco dopo pareggia. Bromwich è un uomo spezzato, la valanga oltre il net cresce a dismisura e con due smash terrificanti gli strappa il servizio a zero. Quando sul 6-5 Bob Falkenburg lancia la pallina in aria i reporter di mezzo mondo stanno già dettando i loro pezzi al telefono.
Un ace, un dritto in rete di Brom e un vincente da fondo decretano il 40/0.
Lo statunitense pianta saldo il piede sulla riga di fondo per l’ultima battuta, a 24 metri di distanza John Bromwich è una figura inerme. L’ace finale pare uno sparo.
Un proiettile dritto al cuore gli avrebbe fatto meno male.
2 luglio 1948, Wimbledon
Robert Falkenburg b. John E. Bromwich 7/5, 0/6, 6/2, 3/6, 7/5
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evidenza
Santopadre, sul rientro di Berrettini a Toronto: “Dopo l’erba avevamo la possibilità di giocare sulla terra europea, ma l’allenamento è prioritario”. Su Wimbledon: “Evitare il boomerang consapevoli del lavoro”
Vincenzo Santopadre racconta le pieghe psicologiche insinuatesi nel dietro le quinte: “i momenti più difficili si hanno quando non si gioca, per un allenatore vale lo stesso. Sarebbe stato meglio discutere di partire perse piuttosto che di partite non giocate”

Matteo Berrettini, come confermato dall’entry list del torneo canadese, dopo lo splendido ottavo di finale raggiunto a Wimbledon “dal nulla” è pronto a ripartire prendendo parte al Masters 1000 di Toronto, per poi spostarsi a Cincinnati e concludere il trittico della stagione estiva sul cemento nordamericano con l’appuntamento principe di questa parte di anno tennistico: lo US Open, Slam nel quale il tennista romano è stato semifinalista nel 2019.
In vista di questo imminente nuovo scorcio di calendario ATP, il coach dell’azzurro Vincenzo Santopadre ha tratteggiato un bilancio delle ultime settimane pienamente immersive vissute dal suo allievo non mancando neppure di evidenziare le motivazioni che hanno indotto a modificare la programmazione rispetto al 2022: ricordiamo infatti che Matteo lo scorso anno si iscrisse all’ATP 250 di Gstaad.
Inoltre c’era anche chi paventava una possibile partecipazione all’ATP 500 di Washington, che per l’appunto è stata smentita dai fatti e dalle effettive scelte del team.
Infine, il 51enne capitano di United Cup ed ex n. 100 della classifica ATP ha svelato anche alcuni retroscena di natura emotiva celati sia dietro la sorprendente – considerata la forma fisica di Berretto, il suo periodo prolungato di lontananza dalla competizioni e la conseguente scoppola subita da Sonego proprio al ritorno in campo in quel di Stoccarda – cavalcata londinese sia nei meandri della lunga convalescenza, non priva di difficoltà, dalle gare agonistiche che l’ex n. 6 al mondo e tutto il suo staff hanno dovuto affrontare.
Ora, tuttavia, bisogna soltanto rimanere lucidi e cavalcare l’onda adrenalinica derivante dai successi su Sonny, De Minaur e Zverev targati Church Road senza dimenticare, nonostante la sconfitta finale, il set strappato al futuro campione dei Championships.
Allo stesso tempo però è necessario perseguire la scia positiva evitando di interpretarla eccessivamente trionfalmente altrimenti si rischia – come ha ricordato Santopadre – l’effetto opposto a quello sperato. Dunque la ricetta da qui in avanti è molto semplice: testa bassa, allenarsi sodo ed essere consapevoli che il lavoro paghi i dividenti degli sforzi profusi.
Salute, Allenamento, Competizione: i tre Mantra del Berrettini “pensiero”
“Dopo l’erba – spiega il tecnico romano – avevamo l’alternativa di giocare sulla terra in Europa, come fatto nel 2022, ma ha prevalso l’idea di concentrarci sull’allenamento. In questo momento è una priorità: Matteo ha bisogno tanto di allenarsi quanto di giocare partite, visto che nell’ultimo anno ne ha disputate poche. Fortunatamente, è riuscito a giocarne ben quattro a Wimbledon, ottenendo tanto con poco, visto che era poco allenato e non era al top, arrivava da un forfait e aveva qualche fastidio dal punto di vista fisico. Così abbiamo puntato sull’allenamento“.
Wimbledon 2023, un percorso inatteso
È stata una parentesi piacevole e inaspettata – dice ancora –, che ci ha fatto capire come Matteo possa stare a certi livelli anche senza avere troppe partite nelle gambe. Già lo scorso anno, quando al rientro dopo l’intervento alla mano aveva vinto due tornei di fila, ci eravamo accorti che può tornare competitivo in maniera repentina, e ora ne abbiamo avuto la conferma. Ogni stop comporta dei disagi: un giocatore perde l’abitudine ai momenti di tensione, a giocare una palla-break, a gestire la tensione e via dicendo. Aspetti che si possono riacquisire solamente giocando. Eppure, anche senza tutto ciò e pur non essendo al meglio, abbiamo capito che il suo livello è questo. Un passaggio che ci dà fiducia per il futuro“.
Una forma fisica non eccelsa ha portato un ottavo Slam, quali traguardi può raggiungere Matteo quando riacquisterà il Top della condizione atletica?
“Dal punto di vista emotivo – afferma ulteriormente il coach – un risultato come quello di Wimbledon è il meglio che a Matteo potesse capitare. Si tratta di una fortissima spinta adrenalinica. Ovviamente il risultato va interpretato, altrimenti di rischia l’effetto boomerang. Se interpretato nel modo corretto, spinge a fare ancora di più, a volere ancora di più. Tutto passa dal lavoro, dall’allenamento e dalla voglia di faticare ogni giorno. Ma con la consapevolezza che gli sforzi vengono ripagati”.
Affrontare un infortunio è difficile per il giocatore quanto per il coach
“È stato faticoso anche per me – spiega infine Vincenzo -, perché per un allenatore vale lo stesso che per un giocatore: i momenti più difficili si hanno quando non si gioca. Sarebbe stato meglio discutere di partite perse, piuttosto che di partite non giocate. Anche io ho dentro di me un lato agonistico che mi stimola, e la parte del lavoro che preferisco è stare in campo e girare i tornei, per competere“.
Il lavoro “fuori dal campo” e la sua funzione
“Per un atleta è fondamentale avere un team che gli sappia stare accanto nel momento di difficoltà, che sia in grado di capire chi ha di fronte e come aiutarlo. È facile farlo quando è tutto rose e fiori, meno in altre situazioni. Tutti i membri del team, a modo loro, sono stati importanti, per capire come affrontare l’infortunio, come uscirne e come prevenirne di nuovi. Nel complesso, è stato svolto un lavoro di supporto psicologico che si è rivelato molto utile”.
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A Wimbledon, l’occhio umano non riesce a seguire la palla
Nella cornice ovattata dei Championships, i giudici di linea hanno effettuato chiamate errate nella prima settimana, e conseguentemente hanno cambiato la traiettoria delle partite per Andy Murray, Bianca Andreescu e Venus Williams, tra gli altri. È giunta l’ora di cedere il passo ai computer?

Di Matthew Futterman, pubblicato dal New York Times il 10 luglio 2023
Andy Murray è stato una vittima. Anche Bianca Andreescu lo è stata. Jiri Lehecka, ha dovuto giocare, per lo stesso motivo, un quinto set e sostanzialmente vincere due volte la sua partita del terzo turno. Lo Hawk-Eye Live, un sistema di chiamata elettronica, avrebbe potuto salvare il loro set, persino la loro partita, ma Wimbledon non utilizza questo sistema al massimo, preferendo un approccio più tradizionale.
Durante il resto dell’anno nei tour professionistici, molti tornei si affidano esclusivamente alla tecnologia, consentendo ai giocatori di sapere quasi con certezza se la loro pallina cade dentro o fuori dalle linee, poiché è il computer a gestire le chiamate. Ma quando i giocatori vengono all’All England Club per quello che è ampiamente considerato il torneo più importante dell’anno, il loro destino è in gran parte determinato dai giudici di linea che si affidano alla loro umana vista.
Cosa che rende gli errori ancora più frustranti, poiché Wimbledon e i suoi partner televisivi hanno accesso alla tecnologia, che i giocatori potrebbero utilizzare per contestare un numero limitato di chiamate ogni partita, e chiunque guardi la trasmissione può vedere in tempo reale se una palla è dentro o fuori. Al contrario, le persone per le quali queste informazioni sono più importanti – i giocatori, l’arbitro di sedia, che supervisiona la partita – devono fare affidamento esclusivamente sul giudice di linea.
Quando l’occhio umano sta giudicando un servizio che viaggia a circa 120 mph (200 km/h e oltre). e gli scambi di dritto che sull’erba tendono a essere più veloci di 80 mph (130 km/h), gli errori sono destinati a verificarsi.
“Ovviamente come giocatore non vorresti mai trovarti nella situazione di esser vittima di errori di giudizio su punti importanti“, conferma Murray, che avrebbe potuto vincere la partita del secondo turno contro Stefanos Tsitsipas nel quarto set, se fossero stati i computer, e non gli esseri umani, ad avere la responsabilità delle chiamate. Il ritorno di rovescio di Murray è stato giudicato fuori, anche se i replay hanno mostrato il rimbalzo in campo. Murray ha finito per perdere quella partita in cinque set.
Nessun torneo di tennis si aggrappa alle sue tradizioni quanto Wimbledon. Campo da tennis in erba. Le partite sul campo centrale iniziano più tardi che altrove, segnatamente dopo che gli occupanti del palco reale hanno pranzato. Niente luci per il tennis all’aperto. Una coda con ore di attesa per i biglietti dell’ultimo minuto. Queste tradizioni non hanno alcun effetto sul risultato delle partite. Al contrario mantenere i giudici di linea in campo, dopo che la tecnologia si è dimostrata più affidabile, ha influenzato, forse anche falsato, le partite chiave a giorni alterni.
Per capire cosa e perché sta accadendo, è importante capire come il tennis sia finito con l’avere nei suoi tornei regole diverse per giudicare se le palle sono dentro o fuori. Prima dei primi anni 2000, il tennis – come il baseball, il basket, l’hockey e altri sport – faceva affidamento su ufficiali di gara umani per effettuare chiamate, molte delle quali sbagliate, secondo John McEnroe (e praticamente ogni altro tennista).
Il più famigerato crollo nervoso di McEnroe è avvenuto a Wimbledon nel 1981, ed è stato provocato da una chiamata errata. “Mi sarebbe piaciuto avere Hawk-Eye“, ha detto Mats Wilander, il sette volte campione Grande Slam in singolo e fra le star del circuito negli anni ’80.
In seguito il tennis ha iniziato a sperimentare il sistema di valutazione Hawk-Eye Live. Le telecamere catturano il rimbalzo di ogni palla da più angolazioni e i computer analizzano le immagini per rappresentare la traiettoria della palla e i punti di impatto con un margine di errore minimo. I giudici di linea sono rimasti come backup, ma i giocatori hanno ricevuto tre opportunità per ogni set di contestare una chiamata di linea e una ulteriore possibilità di revisione del giudizio quando un set è andato al tie-break.
Ciò ha costretto i giocatori a cercare di capire quando rischiare usando una delle chiamate, il famoso “challenge”, di cui potrebbero aver bisogno in un punto più cruciale del set. “È troppo“, ha detto Wilander. “Non riesco a immaginare di fare quel calcolo, stando lì, a pensare se un colpo è andato bene, quanti ‘challenge’ mi rimangono, quanto manca alla fine del set“. Anche Roger Federer, bravo in quasi ogni aspetto del tennis, era notoriamente pessimo nell’utilizzo dei challenge.
Dopo poco tempo, i dirigenti del tennis hanno iniziato a prendere in considerazione un sistema di chiamata di linea completamente elettronico. Quando la pandemia di Covid-19 ha colpito, i tornei cercavano modi per limitare il numero di persone sul campo da tennis. Craig Tiley, amministratore delegato di Tennis Australia, ha affermato che anche l’adozione delle chiamate elettroniche nel 2021 faceva parte della “cultura dell’innovazione” degli Australian Open. Ai giocatori è piaciuto. Così pure la cosa è piaciuta i fan, ha detto Tiley, perché le partite scorrevano più velocemente.
L’anno scorso, gli US Open sono passati alle chiamate completamente elettroniche. È in corso un dibattito sul fatto che le linee rialzate sui campi in terra battuta impedirebbero alla tecnologia di fornire la stessa precisione riscontrata sull’erba e sui campi in cemento. All’Open di Francia e in altri tornei su terra battuta, la palla lascia un segno ben visibile, che gli arbitri controllano spesso.
Nel 2022, l’ATP Tour maschile prevedeva 21 tornei con chiamate di linea completamente automatizzate, comprese le tappe a Indian Wells in California, a Miami in Florida, in Canada, e a Washington, D.C. Tutti questi siti ospitano anche tornei WTA femminili. Ogni torneo ATP lo utilizzerà a partire dal 2025. “La domanda non è se sia sempre corretto al 100%, ma se sia migliore di un essere umano, ed è decisamente migliore di un essere umano“, ha affermato Mark Ein, proprietario del Citi Open a Washington, DC.
Un portavoce dell’All England Club ha affermato, la domenica centrale del torneo, che Wimbledon non ha intenzione di eliminare i giudici di linea. “Dopo il torneo esaminiamo tutto ciò che facciamo, ma in questo momento non abbiamo intenzione di cambiare il sistema“, ha concluso Dominic Foster. Sabato, Andreescu è rimasta vittima di un errore umano. Campionessa canadese degli US Open 2019, Andreescu ha ricominciato ad arrivare in fondo ai tornei del Grande Slam dopo anni di infortuni.
Verso la fine della sua partita contro Ons Jabeur, Andreescu ha rinunciato a chiedere un intervento elettronico su un tiro decisivo che il giudice di linea aveva chiamato fuori. Dall’altra parte della rete Jabeur, vicina alla palla nel momento in cui colpiva il terreno, ha consigliato ad Andreescu di non sprecare una delle sue tre possibilità di challenge, dicendo che la palla era davvero fuori. La partita è continuata, non prima che i telespettatori vedessero il replay computerizzato che mostrava la palla che cadeva sulla linea. “Mi fido di Ons“, ha detto Andreescu dopo che Jabeur ha rimontato per batterla in tre set, 3-6, 6-3, 6-4.
Andreescu ha spiegato che stava pensando alla sua partita precedente, una maratona di tre set decisa da un tie-break finale, durante il quale ha detto di aver “sprecato” diversi challenge. Contro Jabeur, aveva pensato: “Lo risparmierò, per ogni evenienza“. Cattiva idea. Jabeur ha vinto quel game, poi il set, e poi il match.
Sul campo n. 12, il sistema elettronico stava causando un altro tipo di confusione. Lehecka ha avuto un match point contro Tommy Paul quando ha alzato la mano per un challenge dopo aver ribattuto un colpo di Paul atterrato sulla linea. La sua richiesta di challenge è arrivata proprio mentre Paul mandava in rete il colpo successivo. Il punto è stato rigiocato. Paul lo ha vinto, e pochi istanti dopo si è ripetuto vincendo il set, portando la partita al set decisivo. Lehecka ha vinto, ma ha dovuto correre per un’altra mezz’ora.
Venus Williams ha perso il match point nella sua partita del primo turno in un’altra sequenza complicata che prevedeva un challenge. Leylah Fernandez, canadese due volte finalista Major, afferma invece di apprezzare la tradizione dei giudici di linea a Wimbledon mentre il mondo cede di più alla tecnologia. D seguito, però, ha chiosato:” Se mii fosse costato una partita, probabilmente avrei dato una risposta diversa”. È proprio in quella situazione che si è ritrovato Murray, due volte campione di Wimbledon, dopo la sconfitta di venerdì pomeriggio [al secondo turno, contro Tsitsipas].
Quando è arrivato alla conferenza stampa, già sapeva che quel rovescio lento e angolato, atterrato a pochi metri dall’arbitro, aveva toccato la linea, era valido. Il punto gli avrebbe dato due possibilità per strappare il servizio di Tsitsipas e servire per il match. Quando gli è stato detto che il colpo era valido, i suoi occhi si sono spalancati con un sussulto, poi lo sguardo è piombato sul pavimento. Murray ora sapeva cosa avevano visto tutti gli altri.
La palla era finita sotto il naso dell’arbitro, che ha confermato la chiamata, ha detto Murray. Non riusciva a immaginare come qualcuno potesse aver fatto un errore del genere. In realtà gli piace avere i giudici di linea, ha aggiunto. Forse è stata colpa sua per non aver usato un challenge. “Alla fine“, ha detto, “il giudice di sedia ha fatto una brutta chiamata su una palla proprio di fronte a lei”.
Traduzione di Michele Brusadelli
