La gioia effimera di tifare Federer (Meloccaro). Pennetta: "La racchetta? L'avrei portata pure a letto" (Cocchi). Barletta all'avanguardia sulla terra che fu di Rafa (Borraccino)

Rassegna stampa

La gioia effimera di tifare Federer (Meloccaro). Pennetta: “La racchetta? L’avrei portata pure a letto” (Cocchi). Barletta all’avanguardia sulla terra che fu di Rafa (Borraccino)

La rassegna stampa di sabato 6 aprile 2019

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La gioia effimera di tifare Federer (Stefano Meloccaro, Foglio Inserto)

La gioia effimera mista ad ansia, che si rinnova a ogni ulteriore conquista del Divino. Più lui vince e continua a vincere, più noi devoti guardiamo con terrore al momento in cui Roger Federer deciderà di smettere. Potremmo definirlo “il paradosso di Roger”, anche se in verità staremmo descrivendo il nostro paradosso, quello dei rogeriani. Perché ovvio, nel frattempo, lui resta il più tranquillo di tutti, l’unico in grado di valutare con equidistanza gli accadimenti. Noi normali siamo troppo emotivi per goderceli sino in fondo. Al massimo ci riusciamo per qualche attimo fuggevole, durante una voleé bassa bloccata, una frustata liquida di dritto a sventaglio, o un passante di rovescio al volo da tre quarti campo in top-spin. Ma è un tempo piccolo, dopodiché torniamo a consumarci nel nostro lento logorio. Ogni suo trofeo, per noi adepti, assume le sembianze di un passo decisivo verso l’ineluttabile. La tragica e fatale necessità, la fine della bellezza sulla terra. Succederà, prima o poi, e quel frangente ci coglierà del tutto impreparati, nonostante ci abbiano spiegato con chiarezza che sarà così. Le prime discussioni in merito risalgono addirittura al Roland Garros 2009. Era l’ultimo Slam che mancava alla collezione, non gli diedero manco il tempo di alzare il trofeo. Ora che hai vinto tutto, stai già pensando al momento in cui appenderai la racchetta al chiodo? Sorrise, per poi argomentare educato della sua grande passione per il tennis e di come, fisico permettendo, voleva procedere senza darsi scadenze. E’ trascorso un decennio, sono arrivate due coppie di gemelli e cinque Slam ultratrentenni, ma la domanda resta più o meno la stessa, e la risposta pure. L’ultima occasione è stato il recente trionfo a Miami, nel nuovo stadio, contro l’americano John Isner. Una coppa che Roger aveva sollevato la prima volta nel 2005 battendo Nadal. In un torneo dove esordì nel 1999 e giocò la prima finale nel 2002, sconfitto da Andre Agassi. Nel duemiladue, contro Agassi, quello con gli scaldamuscoli fucsia, quello di Open. […] La lista dei record legati alla sua longevità sarebbe troppo lunga. A puro titolo esemplificativo citiamo la storia di Wimbledon, che dal 1877 non aveva mai visto qualcuno ripetersi a distanza di 14 anni dalla prima volta. Non a caso, i Championships sono il suo scenario preferito, e forse il più adatto allo stile classico/moderno che lo contraddistingue. Del resto, Federer e Wimbledon hanno molto in comune, a partire dalla connaturata ritrosia al cambiamento. Roger ha messo su famiglia molto presto, la moglie Mirka è il motivo principale della sua stupefacente longevità al massimo livello. Lui non manca mai di sottolinearne il ruolo fondamentale di mamma, moglie, manager e centro delle operazioni. Colei che lo esenta dall’occuparsi di altro che non sia giocare a tennis. Fino a dichiarare che se solo decidesse, lui la farebbe finita all’istante con valige e carovane in giro per il mondo. Ma tranquilli, non accadrà: la first lady è la prima sua tifosa e l’ultima al mondo a volerne sancire la dipartita agonistica. Quando arriverà quel momento —perché pare proprio che succederà, è giusto tenerlo a mente — sarà solo per raggiunti limiti di efficienza fisica e conseguente impossibilità di ulteriori Slam. Di sicuro non per scelte altrui. Tantomeno per il deteriorarsi di un tennis che negli anni è anzi cresciuto, in qualità e intensità. Bello, bravo, forte, giusto, corretto, elegante, uomo, padre e marito esemplare. Nel racconto di Federer il rischio di cadere nell’agiografia è sempre molto forte. Va dunque citato anche qualche tratto di relativa debolezza, tra le pieghe di un curriculum leggendario. Roger appartiene alla specie umana, e in quanto umano ha dei difetti. Tra questi, la già citata pigrizia (ovvero ritrosia al cambiamento) e un pizzico di paura nei momenti cruciali di certi match. Impercettibili tremolii reconditi, che arrivavano contro gli avversari meno sudditi del suo carisma. Vengono subito in mente le sfide perse contro il suo miglior nemico Rafa, ma non solo quelle. Il ragionamento è più ampio, e il rogeriano puro è oltranzista fino all’autolesionismo. Sostiene che con un simile talento, con quel fisico e baciato in modo tanto evidente dal Dio del Tennis, Federer avrebbe potuto e dovuto vincere ancora di più. Sembra un assurdità, detta del più vincente nella storia, ma se riferita al suo periodo di massima vigoria fisica, quello prima dei trent’anni, è tesi plausibile. Noi rogeriani siamo inclini alla sofferenza autoindotta, ma talvolta ci azzecchiamo. Roger negli anni ha scontato spesso il suo immobilismo tattico, la scelta non sempre felice degli allenatori e il cambio tardivo della racchetta. Partiamo da quest’ultima, e ricordiamoci che il giovanotto ha aspettato almeno tre (se non quattro) anni di troppo, prima di rottamare la sua antica compagna d’avventure. Fino al 2014 utilizzava un piatto corde da 90, che discendeva quasi immutato dai tempi di Stefan Edberg. Certo, quel telaio gli aveva fatto vincere l’inenarrabile e ormai era parte del suo DNA, ma se la tenne oltre ogni limite, per paura dell’ignoto e scarsa voglia di sperimentare. Nel frattempo gli altri si affidavano a materiali e formati più performanti. Guarda caso, appena Roger decise di adottare il nuovo attrezzo – più grande e reattivo – i colpi di inizio gioco migliorarono d’incanto. A partire dal servizio, la base di tutte le certezze, il cardine del gioco. Sistemata la racchetta, per prolungare all’infinito, come sta accadendo, una carriera già mitologica, ci voleva una allenatore motivatore di livello. Roba che al primo Roger non era servita mai. Federer 2003-2009 era un padreterno cui riuscivano magie una via l’altra. Poteva bellamente fregarsene delle strategie, tanto era unto dal Signore. Gli bastava lasciar andare il braccio e le cose accadevano da sole, per grazia ricevuta. Il coach rivestiva importanza solo al momento di prenotare il campo per l’allenamento. Poi, verso la fine degli anni Zero, arrivarono i primi acciacchi. A Nadal, che c’era sempre stato, si aggiunsero pian piano Djokovic, Murray, poi Del Potro e Cilic, solo per citarne alcuni. Le vittorie si facevano più rare, i nuovi gli avevano preso le misure. Occorreva assoldare qualcuno che lo sapesse rivitalizzare e lo convincere ad ammodernarsi. Si cominciò proprio dal già citato Stefan Edberg, suo idolo adolescenziale, che provò a riportarlo più spesso a rete, come agli inizi di carriera. La cosa ebbe un eccellente effetto estetico, ma Slam zero, e i rogeriani volevano di più. Non osavano dirlo ma sognavano nel miracolo di vincere ancora un Major. L’ultimo era datato Wimbledon 2012. Ci vuole un colpo di genio, chi meglio di Roger. Che infatti convoca un suo ex collega, grande conoscitore del gioco e ottimo amico. La scelta, quasi banale, poi rivelatasi illuminata, ricade su Ivan Ljubicic. L’ex numero 3 del mondo smuove gli ingranaggi giusti e convince il suo assistito a fare la rivoluzione. No scambi lunghi, no rovescio tagliato e difensivo, sì intraprendenza e fantasia. Tempo qualche mese e scopriamo il Federer che avremmo sempre voluto, negli anni in cui si era fatto troppo attendista. Fino alla madre di tutte le partite: la finale dell’Australian Open 2017. Immaginare RF, al rientro dopo sei mesi, che batte Nadal in 5 set, recuperando da un break sotto nel quinto, era superiore alla più fervida immaginazione di ogni rogeriano. Accadde, in un match meraviglioso, e fu un momento spartiacque che fece capire al mondo quanto Federer fosse ancora vivo. Il momento più importante della sua seconda esistenza. Contro un avversario, anzi L’AVVERSARIO, superato a base di rovesci in top-spin, scambi brevi e piedi sulla linea di fondo. Tutti scoprirono la sapiente mano di Ljubicic, sceneggiatore e regista della metamorfosi. Quel fluido magico, quella ulteriore spinta verso l’immortalità si prolunga fino ai giorni nostri. Al curriculum si sono poi aggiunti altri due Slam, è stata superata la simbolica cifra dei cento tornei vinti in carriera, e ormai in vista dei 38 anni il ragazzo tornerà a esibirsi sulla terra battuta, cosa che non capita da ormai tre stagioni. Sostiene che lo farà perché ha voglia di divertirsi. Sembra una follia, potrebbe consumare energie preziose in vista nella stagione erbosa, quella storicamente più adatta al tennis di Federer. Ci risiamo, i rogeriani che vanno in ansia e Roger che resta il più tranquillo di tutti, in un eterno ritorno. Siamo destinati ancora a provare quell’indefinibile stato di gioia effimera mista ad ansia che si rinnova a ogni manifestazione del Divino. Lui imperterrito continua a giocare, noi devoti guardiamo con terrore al momento in cui Roger Federer deciderà di smettere. Nel frattempo, continueremo a gioire solo per qualche attimo fuggevole

Intervista a Flavia Pennetta: “La racchetta? L’avrei portata pure a letto” (Federica Cocchi, Sport Week)

Quando lo sport ti entra dentro, fa parte della tua vita e della tua quotidianità per anni, è difficile abbandonarlo. Qualunque esso sia. Il fisico, ma forse prima ancora la mente, sentono il bisogno di scaricare le tensioni, liberare l’energia. Lo sa bene Flavia Pennetta, straordinaria campionessa dello Us Open 2015 in una storica finale contro l’amica e connazionale Roberta Vinci. Flavia è un simbolo della nostra storia sportiva, una vita con la racchetta in mano, un amore tanto profondo per il suo sport che si è addirittura sposata con un tennista, Fabio Fognini. Ora è mamma a tempo pieno di Federico, e lei stessa ammette che anche correre dietro a suo figlio è attività sportiva. Flavia, nonostante abbia lasciato la carriera da professionista, rimane comunque una sportiva. La vediamo spesso nelle sue storie su Instagram allenarsi in palestra, correre, passeggiare. «Non potrei farne a meno. Lo sport per me è fondamentale, non riuscirei mai a stare ferma, ho bisogno di scaricarmi, il mio corpo sente di dover buttare fuori le tossine». Mantenersi sempre attive, anche se si deve correre dietro a un picollotto di due anni, questo i il messaggio che sembra voler dare. «Con lui si deve correre un bel po’, Fede è scatenato! Ma a parte questo, anche durante la gravidanza ho cercato di tenermi allenata, con le dovute attenzioni. E dopo il parto appena ho potuto ho ripreso, facevo lunghe camminate anche col passeggino, un po’ di esercizi a corpo libero. Può essere complicato gestire il tempo per l’attività fisica, ci vuole volontà e un po’ di organizzazione e avere la fortuna come me di poter godere di più tempo libero rispetto a quando giocavo». Ma un po’ di pigrizia l’assale mai? Insomma, noi comuni mortali tendiamo a correre ai ripari solo in zona “costume da bagno”. «Non è solo una questione estetica, per me lo sport è salute, e se sto ferma troppo a lungo sto male, il mio corpo lo chiede lanciando segnali. Mi piace fare di tutto, correre, fare corsi in palestra, Trx, Fit Boxe. E poi ho ripreso a montare a cavallo, un’attività che adoro. Si sta all’aria aperta, tonifica il lato B, e fa bene alla mente. Poco tempo fa ho portato anche mio figlio a provare a montare al maneggio, è stato bellissimo vederlo sul cavallo la prima volta». Come concilia le sue giornate di mamma a tempo piano con l’attiviti fisica? «La mattina punto la sveglia alle 7.10 perché Federico apre gli occhi per un po’ e poi si riaddormenta fin verso le 9. Quindi verso le 7.30 mi metto a fare 50 minuti di esercizio, mi sono creata un piccolo angolo attrezzato a palestra in casa. Tappetino, pesetti e poco altro, il necessario per fare un po’ di movimento ogni giorno. Mi sono scaricata una applicazione sullo smartphone che mi indica quali esercizi e quante ripetizioni fare, i tempi di recupero. Un personal trainer nel telefono, praticamente». Ricordiamo che le piaceva anche andare a correre. «Si, adesso lo faccio un po’ meno. Il bello della corsa è che non c’è bisogno della palestra, decido io quando uscire, quando voglio mi metto le scarpette e vado a correre, però ci vuole tempo e bisogna che qualcuno mi tenga Federico». Ma l’amata racchetta la rispolvera mai? «Gioco davvero pochissimo! Vorrei farlo molto di più ma sul tennis sono diventata un po’ pigra… Forse perché non riesco più a fare le cose che mi venivano bene una volta e allora mi incavolo, vorrei essere sempre quella di un tempo. E poi per giocare bisogna sempre essere in due. Organizzarsi. Prendere il campo… Però è opportuno che mi rimetta un po’ in riga anche perché a maggio ho un’esibizione in Romania insieme a Fabio contro la Halep e non vorrei prenderle. Anzi, sto già mettendo le mani avanti e ho detto a Simona di stare calma e non scatenarsi troppo in campo!». Momento sponsorizzazione: perché i ragazzi dovrebbero iniziare a giocare a tennis? C’è una convinzione comune che sia uno sport “asimmetrico” e quindi non faccia bene durante la crescita. «Sbagliatissimo. È una convinzione che non si basa su fatti concreti, anzi è tutto il contrario: il tennis aiuta tantissimo i bambini fin da piccoli. Aiuta la motricità di tutto il corpo, la coordinazione. Forse il limite di questo sport è che all’inizio può essere un po’ noioso. devi imparare i fondamentali, non riesci ancora a giocare e fare partite, ma molto dipende dalla bravura del maestro nel fare appassionare i ragazzi». Il suo deve essere stato in gamba se è riuscito a farla diventare una professionista. «Sono stata fortunata, ho avuto maestri bravissimi fin da bambina. Mi facevano divertire anche nelle pause, anche quando si raccoglievano le palline. II trucco è trasformare tutto in un gioco, o in piccole sfide tipo a chi riesce a tenere più palline in equilibrio sul piatto corde o a chi raccoglie prima un cesto. Tante piccole cose che però fanno divertire i più giovani. E poi i primi tornei, le prime vittorie, sono tutte cose che fanno crescere la passione, senza la quale non si va da nessuna parte». Adesso i ragazzi fanno un po’ meno sport di un tempo. «Lo sport è fondamentale, è educazione, disciplina, salute. Purtroppo tutti noi, non solo i più giovani, rischiamo di impigrirci davanti a un tablet o un telefono. L’attività fisica aiuta a crescere, qualunque essa sia». II sue amore per racchetta e palline è stato immediato? «È stato un colpo di fulmine. Un amore nato ancora prima di cominciare a prendere lezioni. Mia mamma racconta spesso che quando andava a giocare e mi portava in campo, io pasticciavo con la terra rossa, facevo le montagnette come con la sabbia in spiaggia! E poi giocavo ovunque, tantissimo contro il muro, ore a palleggiare da sola. Mancava solo che mi portassi la racchetta nel letto». Si ricorda come ha iniziato, la prima lezione? «Di preciso no, credo sia stata una cosa naturale perché la mia famiglia amava questo sport. Mi ricordo che il Circolo tennis a Brindisi è sempre stato un luogo di aggregazione, ricordo che andava già mia nonna a giocare a carte. I miei erano spesso in campo e cosi ho cominciato anche io, è stato un passaggio naturale». Con Fabio fa sport? «No, raramente. Diciamo che quando mio marito è a casa cerco di approfittarne: lui e Federico li metto a dormire e io vado a correre!».

Barletta all’avanguardia sulla terra che fu di Rafa (Mario Borraccino, Gazzetta del Mezzogiorno)

Un cast di spessore mondiale. E due pugliesi che proveranno, con umiltà e determinazione, a ritagliarsi un piccolo spazio di rilievo. Saranno il barlettano Giuseppe Tresca e il biscegliese Andrea Pellegrino a rappresentare la nostra regione nella ventesima edizione del challenger «Città della Disfida» – trofeo Media One Consulting, il torneo internazionale Atp, dotato di un montepremi di 46.600 euro, in programma da lunedì prossimo a domenica 14 aprile sui campi in terra battuta del Circolo Tennis «Hugo Simmen». IL BARLETTANO – Tresca, che compirà ventuno anni a giugno, è iscritto direttamente al tabellone principale, grazie ad una wild card. Gli altri quattro inviti speciali sono andati ai teenager Jannik Sinner, Lorenzo Musetti e Giulio Zappieri, oltre a Julian Ocleppo. Sarà la prima volta per il barlettano in un main draw di un torneo del circuito challenger. «L’emozione è tanta – ha ammesso Tresca – per questo debutto. Sicuramente sono onorato di farlo nella mia città e nel circolo con cui gioco anche il campionato a squadre di serie B. Spero di sfruttare al meglio questa opportunità ed onorare al meglio la wild card. Mi auguro che ci sia anche tanta gente sugli spalti a sostenermi. Obiettivi per la stagione? Nel mio mirino in questo 2019, di sicuro, c’è il primo punto Atp della carriera, con l’auspicio di avere la chance di disputare qualche challenger in più. Per le prossime settimane, invece, ho in programma di giocare sempre a livello internazionale dei tornei da 25.000 dollari». IL BISCEGLIESE – Andrea Pellegrino, biscegliese di ventidue anni, numero 358 del ranking Atp, è iscritto grazie ad una wild card al tabellone di qualficazione. Lo scorso anno, sulla terra della Città della Disfida, vinse una partita del main draw, prima di arrendersi agli ottavi di finale. L’obiettivo per il biscegliese, inutile nasconderlo, è quello di ottenere l’accesso al fase più importante del torneo, per poi provare ad indossare i panni di mina vagante. Pellegrino, la scorsa settimana, è arrivato in finale (sconfitto da Sinner) al 25.000 dollari sardo di Santa Margherita di Pula, torneo inserito nell’Itf World Tennis Tour. Il livello dei challenger è certamente molto più alto, ma Pellegrino ha tanta voglia di essere all’altezza della situazione e dimostrare il suo valore sulla terra rossa di Barletta. Quella su cui hanno vinto campioni del calibro di Rafael Nadal, Sergi Bruguera e Richard Gasquet

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