Editoriali del Direttore
Barazzutti e Fognini: le frecciatine all’assente Sinner sono condivisibili o no?
Tutti i motivi per cui non sono andato a Cagliari. Il normale egoismo di un capitano. Lo smemorato Fognini. Gli antichi vizi “politici” delle federazioni Salire sul carro dei vincitori. A Madrid giochino i migliori

Non sono andato a Cagliari a seguire il match di Coppa Davis fra Italia e Corea del Sud. Ma non è stato per via del Corona Virus.
Non ci sono andato perché era un incontro senza storia e perché, avendo una tantum entrambi i figli a casa – entrambi in smart working da remote per le loro aziende – soprattutto dopo una lunga assenza dovuta all’Australian Open ho preferito rimanermene in famiglia.
Ha contribuito alla decisione, oltre ai motivi di cui sopra, anche il fatto che l’atmosfera degli incontri casalinghi di Davis non mi entusiasma.
Barazzutti che risponde soltanto quando è costretto a farlo dal suo ruolo in conferenza stampa, Fognini che cerca di non rispondere o risponde sgarbatamente, Binaghi e i federales che se potessero seppellire Ubitennis (cui, pur non apprezzandone l’autonomia dei giudizi e le conseguenti critiche, dovrebbero invece essere anche grati per il contributo che dà alla promozione del tennis e anche alla costante segnalazione dei programmi di Supertennis) lo seppellirebbero volentieri disconoscendone gli indubbi meriti…sono tutti motivi per i quali andare ad immergermi in un’atmosfera che mi mette di cattivo umore è privo di senso.
Ciò detto mi dispiace non aver avuto l’occasione di festeggiare e congratularmi per l’esordio in Davis di Mager e Travaglia, due ragazzi che meritano di aver coronato quel sogno che certo hanno fatto quando hanno cominciato a fare i primi risultati agonistici con la racchetta in mano. Se ho sognato perfino io di giocare con la maglia della nazionale, ed ero più che orgoglioso per le prime convocazioni a Formia per la nazionale junior assieme ai vari Panatta, Bertolucci e soci, mi immagino la loro grande soddisfazione. Sono stati bravi, anche se il loro compito non era difficile.
CONGRATULAZIONI A MAGER E TRAVAGLIA
Fra qualche anno, poi, pochi ricorderanno che la loro prima convocazione – e auguro che ne seguano altre – è stata dovuta anche alle assenze di Berrettini e Sinner e che quelle prime vittorie che figureranno per sempre nell’albo d’oro della Davis azzurra furono “aiutate” anche (non solo…) dalla modestia dei loro avversari coreani.
Alla fine nello sport conta vincere e, in questo caso, contribuire a portare l’Italia alle fasi finali della nuova Davis, a Madrid. Alla faccia del barone de Coubertin, per cui invece l’importante era soprattutto partecipare. Hanno partecipato i coreani, hanno vinto gli azzurri.
E spero presto di avere l’occasione di felicitarmi di persona sia con Travaglia, che ho avuto occasione di incontrare più volte, sia con Mager che invece non conosco quasi. So diverse cose però del loro percorso, e non solo per averle lette in questi giorni.
Travaglia ha vissuto tutta una fase ricca di eventi sfortunati, di infortuni. Mager aveva quasi pensato di abbandonare il tennis, dopo un episodio occorsogli da ragazzino che lui stesso preferirebbe dimenticare (se non glielo ricordassero ogni piè sospinto).
Tutto ciò detto ecco alcune mie personali considerazioni, a seguito di quanto emerso via news e dichiarazioni di questi ultimi giorni, in particolare alcune di Barazzutti e di Fognini.
Io capisco benissimo che il capitano di una squadra vorrebbe sempre avere a disposizione tutti i suoi migliori giocatori. Più che comprensibile. Spesso un capitano dice certe cose anche per esprimere pubblicamente una forma di solidarietà a chi invece ha dato la propria disponibilità e gli consente di vincere un match che – se nessuno lo fosse – potrebbe essere perso. Anche se con questi coreani sarebbe stata una impresa…all’incontrario.
CONDIVIDETE LE DICHIARAZIONE DELLA VIGILIA DI DAVIS DI CORRADO BARAZZUTTI?
Barazzutti: “La salute prima di tutto. Sinner? Lo volevo qua”
E’ vero peraltro – a contrario – che il capitano di una nazionale riveste anche il ruolo di tecnico nazionale. E questo ruolo dovrebbe ispirargli una visione più lungimirante. Orizzonti più ampi di quelli circoscritti all’incontro contingente di Davis.
Onestamente ditemi voi, cari amici di Ubitennis che non siete sospettati di sostenere opinioni preconcette nei confronti di questo o quello, se fosse più saggio, per un giocatore come Sinner, cercare di disputare il match di Davis con la Corea del Sud sulla terra rossa di Cagliari oppure invece affrontare la doppia trasferta in California, Challenger e Masters 1000 di Indian Wells, con la prospettiva di giocare anche il Masters 1000 di Miami?
Del resto Riccardo Piatti è stato coerente con il proprio pensiero, che ha sempre sostenuto anche quando per gli juniores, riteneva che fosse meglio fare esperienze costruttive partecipando ai tornei challenger che alle gare junior.
Quindi ha optato – ed è la seconda volta – per aiutare Sinner a crescere più rapidamente anziché fargli fare l’esperienza Davis che a suo – e mio – avviso, sarebbe stata soprattutto una perdita di tempo.
Ecco allora che, sebbene vada dato atto a Barazzutti di non avere troppo calcato la mano sull’assenza di Sinner, forse anche dire soltanto “Avrei preferito avere anche Sinner qui”, secondo me è un messaggio sbagliato. Ho messo quel forse per attenuare, ma vorrei spiegare il perché penso ugualmente che sia sbagliato.
A me le parole di Corrado sono suonate ingiustamente un tantino critiche verso la scelta invece opportuna di Piatti (nei confronti del quali spesso in Federazione si avverte ormai scarsa simpatia; ho sentito più di un dirigente federale sottolineare con punte di invidiosa acrimonia i guadagni del Piatti Center e quanto costi agli allievi “figli di papà” esservi ammessi) e mi sono apparse – se non miopemente egoiste – certamente poco altruiste nei confronti di Sinner e del suo avvenire.
Barazzutti per primo, e con lui tutta la federtennis, dovrebbero congratularsi con chi fa scelte oculate e professioniste, quindi con Piatti e Sinner. E ciò senza far trapelare frecciatine del tipo: “Eh ma allora Sinner se vuol fare i cavoli suoi, rinunci ai soldi che a lui e Piatti passa la FIT”. Frecciatine che circolano nell’ambiente, vi assicuro.
Dovrebbe essere invece chiaro a tutti che prima Sinner si afferma come giocatore forte, semrpe più forte, e tutti ne guadagneranno, FIT e Barazzutti compresi.
Il discorso fatto per Sinner vale naturalmente anche per Berrettini. Anche se in questo caso nessuno ha “sfiorato” il suo diritto di professionista a fare le sue scelte, perché dopo aver Matteo “saltato” per infortunio un bel po’ di tornei in Sud e Centro America, non gli si poteva umanamente chiedere di compromettere la sua partecipazione ai Masters 1000 americani d’inizio stagione.
Passare in due giorni o tre dalla umida terra rossa sarda al cemento californiano non aveva davvero alcun senso tecnico.
Fra l’altro se non ricordo male, il problema fisico occorso a Matteo era nato proprio a Madrid quando forse si era sforzato un po’ troppo per difendere i colori della nazionale fino alle prime ore dell’alba. Poi si era presentato a Melbourne, ma senza aver pienamente recuperato, tant’è che poi non l’abbiamo più visto.
FOGNINI PUNZECCHIA GLI ASSENTI, PIU’ SINNER CHE IL BERRETTINI INFORTUNATO, MA È SMEMORATO…
Riguardo a quel che ha detto Fabio Fognini, che peraltro spesso parla un po’ a ruota libera, devo dire che le sue dichiarazioni non le ho sentite di persona ma le ho lette sulla Gazzetta dello Sport nell’articolo a firma Federica Cocchi (da noi ripreso anche nella nostra quotidiana Rassegna Stampa che per l’ennesima volta invito i lettori di Ubitennis a leggere anche se si trova posizionata in fondo alla nostra home page). Il titolo della Gazzetta non l’ho fatto io.
Fognini punge: “Io qui, altri no…”
Ebbene oggi Fognini ha 32 anni, quasi 33, ed è padre di due figli. La sua carriera l’ha fatta. E’ vero che ha quasi sempre risposto all’appello della Davis, che ha lottato e vinto tante partite per la nazionale, ma anche lui deve capire che un ragazzo a 18 anni che si sacrifica da quando ne ha 13 per centrare certi obiettivi si trova in una posizione diversa.
Come è accaduto a chi pratica questo sport da professionista, la programmazione è e non può essere che individuale, dai tempi di Nikki Pilic che scelse di non giocare (gratis…ma non è questo il punto) per la Jugoslavia nel 1973 preferendo disputare un torneo e fu ingiustamente squalificato dalla sua federtennis, suscitando i moti di solidarietà di tutti gli altri professionisti, il boicottaggio di un’ottantina di giocatori a Wimbledon 1973 – edizione non a caso vinta dal ceco Kodes che battè in finale il russo Metreveli perché all’Est il diritto di sciopero non era consentito – di fatto dando una spinta decisiva alla nascita e all’affermazione di un “sindacato” giocatori professionisti, l’ATP.
Di casi di giocatori che hanno scelto di giocare tornei invece della Davis ce ne sono a bizzeffe. Quasi mai, inevitabilmente, quelle scelte sono state apprezzate dalle loro federazioni che – a seconda se fossero più liberali e permissive o meno – spesso hanno adottato sanzioni economiche punitive o hanno espresso opinioni di condanna particolarmente forti.
Ricordate quel che disse Nicola Pietrangeli a proposito di Simone Bolelli quando il tennista di Budrio rinunciò a giocare contro la Lettonia del solo Gulbis a Montecatini preferendo giocare i tornei asiatici (Bangkok, etcetera) con il dichiarato obiettivo di entrare a fine anno fra i primi 32 del mondo e rientrare fra le teste di serie dell’Australian Open?
Nicola Pietrangeli disse che Bolelli aveva sputato sulla bandiera tricolore, la federazione con Binaghi si indignò e proclamò la squalifica di Simone e perfino dei circoli che lo avrebbero ospitato per gli allenamenti!
E Fognini ha per caso dimenticato quando, battuto malamente da Seppi al Foro Italico, si dichiarò “non pronto a rispondere ad una convocazione di Coppa Davis”a Barazzutti ma decidendo però di giocare quello stesso weekend nel torneo ATP di… casa Djokovic a Belgrado?
E cosa accadde a Andreas Seppi, che si trovava dall’altra parte del mondo, quando chiese di non giocare contro la modesta Bielorussia del solo Myrni (più Ignatik) a Castellaneta? La FIT lo costrinse a fare quell’inutile giro del mondo per “presentarsi in ginocchio” al cospetto di Corrado Barazzutti, minacciandolo in caso contrario di una squalifica o di una sanzione economica?
E i casi di Francesca Schiavone quando non volle giocare un match di Fed Cup, dove averne giocati (e vinti) a decine? E Volandri quando non volle andare in Sardegna per giocare un match di Davis programmato sul cemento nel bel mezzo della sua programmazione? E Camila Giorgi quando per il fatto che si era potuta allenare a Tirrenia e aveva preso tanti soldi doveva ugualmente accettare di giocare in un ambiente che pareva respingerla più che accoglierla (anche se magari si voleva respingere più il padre che lei stessa)? Idem. Eppure Bolelli non era fondamentale per battere la Lettonia, Fognini non era fondamentale per affrontare l’Olanda, Seppi non lo era per battere la Bielorussia, etcetera etcetera.
Non solo la nostra federazione -i cui casi conosco certo meglio – ma anche altre di altri Paesi, hanno più volte adottato atteggiamenti simili all’insegna di questo concetto: “Poiché noi ti diamo dei soldi, o ti abbiamo dato dei soldi a suo tempo – ricordate che è stato addirittura concertato un contratto vincolante per tutta la carriera – e allora tu devi fare quel che vogliamo noi. Anche se la tua programmazione prevede tre tornei sul cemento di fila, dove puoi fare tanti punti che ti servono al prosieguo della tua annata …ma noi abbiamo un match di Coppa Davis sulla terra rossa, te devi renderti disponibile!”.
Beh, secondo me, questi non sono più quei tempi per imporre simili posizioni, simile contratti capestro ad un professionista din uno sport individuale. Anche perché gli obiettivi di un professionista che vuole difendere la propria classifica dovrebbero essere anche quelli della propria federazione. Se una federazione crede nel futuro di un giovane e ci investe sopra dei soldi è a mio avviso immorale pretendere che questi si leghi a vita…per grazia ricevuta. Se la federazione non ci crede non ci investa. Nessuno la obbliga. La mentalità di vincolare un ragazzo e un suo team tecnico a futuri comportamenti non la trovo eticamente giustificabile.
Che è cosa diversa dal fare semmai presente al tennista a lungo sponsorizzato che un minimo di riconoscenza sarebbe giusto che venisse osservato. Ma spontaneamente, senza un obbligo vincolante
In conclusione le frecciatine, pur non avvelenatissime, di Fognini, a mio parere Fabio poteva risparmiarsele (proprio per esserci passato attraverso anche lui stesso e suoi colleghi della sua generazione). Che cosa avrebbe fatto lui se si fosse trovato, a 18 anni, al posto di Jannik Sinner?
L’ANTICO VIZIO “POLITICO” DELLE FEDERAZIONI
Da cronista di lungo corso posso garantirvi che il difetto di pretendere la presenza obbligatoria dei giocatori agli eventi delle squadre nazionali, ma anche ai singolari junior risale a vecchia data. Fin da quando il vecchio presidente della FIT Paolo Galgani, avvocato fiorentino, teneva da matti a vincere la Coppa Valerio under 18 o la De Galea under 20 per poter menar vanto “politico”.
A livello giovanile l’Italia vinceva parecchio, o comunque abbastanza, ma poi a livello senior non si vinceva nulla. Ma così come oggi sembra che ogni vittoria di Berrettini o Sinner sia merito anche di Tirrenia o di un’illuminata dirigenza che non ci ha avuto quasi nulla a che fare con i loro risultati – non è accaduto anche per tanti exploit delle nostre 4 moschettiere top-ten? – così certi risultati in competizioni giovanili di pochissimo significato servivano politicamente a mascherare pessimi risultati del movimento ai vertici. Più perdurava la crisi e più si cercava di mascherarla con artifizi e raggiri per gli ingenui.
Ricordo quando Claudio Pistolesi, e direi la Garrone, vinsero titoli mondiali under 18 – più tardi sarebbe successo anche con Giorgio Galimberti che riuscì a strappare un assurdo contratto faraonico all’Asics di circa 500.000 euro – negli anni in cui un under 18 come Boris Becker trionfava a Wimbledon e certamente a tutto pensava fuorchè a misurarsi nei tornei junior! Idem per Chang e Sanchez campioni a Parigi a 17 anni.
Invece quei risultati junior venivano presentati come trionfi di una dirigenza illuminata, che aveva messo in piedi chissà quale (inesistente) struttura. In realtà, premesso che quei risultati non meritavano certo di essere denigrati, purtroppo non valevano davvero il significato che la propaganda politica voleva assegnar loro. Nessuna colpa – è ovvio – da imputare a Pistolesi, la Garrone, Galimberti, ma chi cercava di gettarci fumo negli occhi, andava smascherato. Ieri come l’altro ieri ed eventualmente domani. Così quando Binaghi e soci hanno cercato di “impadronirsi” dei risultati delle nostre quattro top-ten, “siamo campioni del mondo!”, tipico esempio italico del “salir sul carro dei vincitori” come se fosse merito loro, non si doveva stare zitti e assecondarli, salvo che si avesse necessità di arruffianarseli, trarne qualche beneficio personale. Non era il mio caso.
L’ULTIMO ASPETTO CRITICO: CHI DEVE GIOCARE LE FASI FINALI?
Un altro aspetto si ripete ogni qualvolta una squadra conquista un traguardo intermedio. Accade in tutti gli sport, non solo nel tennis. E in tutti i Paesi del mondo, non solo in Italia
Certi atleti ti hanno consentito di qualificarti per una fase finale e l’allenatore, il capitano, vorrebbero mostrar la loro gratitudine e riconoscenza a coloro che lo hanno permesso. Fosse stato per gli assenti la partita sarebbe stata persa, il traguardo mancato.
Così oggi ho letto che a Barazzutti piacerebbe l’idea di portare tutti a Madrid. Il proclama appare un tantino demagogico.
Finchè si tratta di portarne alcuni per farli scendere in campo e altri per stare in panchina da sicuri panchinari più che riserve, va benissimo se ai panchinari l’idea soddisfa.
Però un capitano e un Paese che si trovino ad aver comunque – ripeto: comunque – conquistato la fase finale di un evento, devono a mio avviso rifuggire dai sentimentalismi e schierare la miglior formazione possibile, i migliori giocatori disponibili.
Salvo che una federazione adotti un sistema para-contrattuale come quella americana.
La USTA nelle competizioni a squadre ha adottato il criterio di far firmare all’inizio di ogni anno un contratto di disponibilità a un certo numero di giocatori. Chi lo firma ne è vincolato per tutto l’anno.
Così gli USA hanno raggiunto diverse finali di Fed Cup con un gruppo di ragazze – anche contro l’Italia sia a San Diego sia in Italia – e hanno giocato tutte le loro partite con quelle. Le Williams non avevano sottoscritto il contratto? In qualche caso ci sono stati estremi tentativi per un loro recupero, ma per solito non l’hanno esperiti.
Con tutta la simpatia, la stima, la riconoscenza che dobbiamo a Mager e Travaglia, se a Madrid Berrettini e Sinner fossero loro davanti in classifica, nel risultati e nella considerazione di Barazzutti, a giocare dovrebbero essere loro.
Anche qui: de Coubertin non sarebbe d’accordo ma si dovrebbe giocare sempre per vincere. E alla fin fine, al di là di proclami buonisti comprensibili al momento, sarà certamente quel che farà Corrado Barazzutti. Anche perché in teoria, con un Fognini ancora in pista (dubito che darà seguito a quella che considero una battuta: “Se non si gioca Montecarlo mi ritiro!”), un Berrettini e un Sinner in salute e con i progressi che potrebbero fare da qui a novembre, l’Italia ha una squadra niente male. Con una panchina abbastanza lunga.
Editoriali del Direttore
È morto Roberto Mazzanti, per 20 anni direttore di Matchball, la Bibbia dei veri appassionati di tennis
Tennis e giornalismo i suoi grandi amori. Sotto la sua guida saggia ed equilibrata hanno lavorato Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, Viviano Vespignani, un giovanissimo Scanagatta. un imberbe Stefano Semeraro, il boy Luca Marianantoni e tanti altri. Era impossibile litigarci

Aveva 82 anni, era stato colpito da un malore a gennaio. Purtroppo non si più ripreso Roberto Mazzanti, uno dei pochi, pochissimi giornalisti davvero signori, con i quali era impossibile litigare. Un uomo per bene. E non lo scrivo perchè ci ha lasciato, ma perchè è vero. E lo può dire e confermare chiunque lo abbia conosciuto.
Roberto era stato negli anni Settanta il direttore di Matchball (in edicola dal 1970 al 1996), la seconda rivista di tennis – dopo “Tennis Club” diretta da Rino Tommasi – per la quale poco più che ventenne avevo cominciato a collaborare, spinto dalla mia inesauribile passione per il tennis e per il giornalismo, gli stessi due grandi amori di Roberto. Per lui, come per me, era una passione romantica, senza mai l’ambizione di arricchirsi, ad alimentare quei due eterni amori.
Lui, bolognese, era cresciuto all’interno del Resto del Carlino dove era stato assunto inizialmente come correttore di bozze. Infatti, diventato poi redattore professionista del quotidiano bolognese, dividendosi fra le pagine della cronaca cittadina come dello sport – come sarebbe successo anche a chi scrive – non avrebbe mai sopportato i refusi.
Non l’ho mai visto arrabbiato, mai perdere il controllo, mai alzare la voce. Un gentiluomo con aplomb british, mascherato da un moderato accento emiliano. Adorava guardare il tennis, non solo quello dei grandi – venne anche a vedermi giocare la finale di doppio dei campionati italiani di Seconda Categoria al Circolo Tennis Giardini Margherita, lui che frequentava la Virtus del presidente (anche FIT) Giorgio Neri – ma gli piaceva anche giocarlo. E lo ha fatto da dilettante fino a tempi anche recenti, sebbene avesse scoperto anche il golf e, negli anni, gli fosse venuta anche la passione per le automobili, la tecnologia, il loro evolversi.
Lavoravamo per lo stesso gruppo editoriale, la Poligrafici, ma io – più giovane e scapolo mentre lui era sposato – ero più disponibile a sacrificare ferie e vacanze (a caccia di ospitalità o alberghi a due stelle) per andare a seguire il tennis nel maggior numero possibile di tornei.
Quindi per Nazione e “Carlino” accadeva che lui mi lasciasse il passo per gli Slam e che io lo lasciassi a lui per la Coppa Davis …che allora era una cosa seria, ma si esauriva in alcuni long-weekend e che potevano essere anche 5, 6 o 7 in un anno se l’Italia andava in finale come accadde per quattro anni su cinque fra il ’76 e l’80. Accadde anche che con quei ripetuti exploit dei nostri 4 moschettieri azzurri io mi ritrovassi a seguire insieme a Roberto anche quegli eventi a squadre.
Non esisteva Internet, né la composizione digital-elettronica e Matchball optò, anche per contrapporsi a “Il Tennis Italiano” che era un mensile, una cadenza quattordicinale. Usciva in edicole (sì, esistevano ancora…) ogni due martedì e sotto la guida di Roberto scrivevamo i nostri articoli Roberto, Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, il sottoscritto, Paolo Francia, Viviano Vespignani e (diversi anni dopo) si sarebbe aggiunto, fra i tanti, anche Luca Marianantoni con tutti i numeri che si portava appresso. In redazione due giovani di belle speranze, Stefano Semeraro e Enrico Schiavina., Al lunedì mattina Matchball doveva essere “chiuso” in tipografia. La domenica sera…si finiva per scrivere editoriali, pagelle, statistiche, a notte inoltrata. Sempre facendo le corse, perché magari le partite, ai più diversi fusi orari, finivano tardissimo e la copertura era massiccia. Per merito di tutto il team Matchball diventò ben presto la rivista leader e tale restò fino a che l’avvento di Internet, delle notizie on line, delle coperture televisive di più network, fece strage di gran parte delle riviste cartacee, impossibilitate a reggere la concorrenza sul piano della tempestività dell’informazione.
Roberto, giornalista elegante ed equilibrato, prediligeva i tennisti dal bel braccio, McEnroe, Panatta, Bertolucci (e più recentemente inevitabilmente Federer), Rino era prima innamorato di Rosewall e poi di Edberg, io stravedevo per l’arte e l’imprevedibilità di Nastase, per la grinta e i limiti tecnici di Connors oltre che per Boris Becker (per far da contraltare a Rino), quando sarebbe arrivato Luca avremmo annoverato nel team di Matchball anche un grande fan di Lendl.
Vabbè, vedete, anche adesso che Roberto ci ha improvvisamente lasciato affiorano nella mia mente tanti ricordi, tanti amichevoli dibattiti e lui che, con fare quasi ecumenico, mi diceva: “Dai Ubaldo scrivi le tue pagelle, falle un po’ tecniche, un po’ironiche, senza infierire mai troppo…anche se lo sappiamo tutti che se devi scrivere di promossi e bocciati, ai lettori piaceranno sempre più i voti bassi che quelli alti, quelli più critici che quelli pieni di elogi. Il mondo va così” diceva chiaramente dispiacendosene. E a quei tempi non esistevano ancora i leoni da tastiera, gli “webeti”. Che la terra ti sia lieve caro amico. E che tua moglie Anna, tuo figlio Luca, la tua nipotina adorata, sopportino con forza e coraggio il vuoto che lasci a loro e a tutti quelli che ti hanno stimato e voluto bene.
Australian Open
Australian Open: Il fenomeno Djokovic è di un altro pianeta. Tsitsipas non poteva fare di più. Non è la parola fine sul GOAT
I fenomeni non sono stati solo tre, Djokovic, Federer e Nadal. Perché se si dà peso primario ai titoli Slam, Rosewall e Laver non possono essere ignorati. E perchè un solo anno, e non sempre, laurea il vero n.1

Il resto del video, che qui potete vedere in anteprima, è disponibile sul sito di Intesa Sanpaolo, partner di Ubitennis.
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Non ho mai pensato che potesse finire diversamente. L’unico momento di dubbio l’ho avuto – insieme a Djokovic – quando entrambi abbiamo temuto che il suo problema alla coscia fosse un problema serio.
Così come gli altri due fenomeni, Federer e Nadal (elencati, a scanso equivoci, in ordine alfabetico), Novak Djokovic è di un altro pianeta rispetto a tutti gli altri contendenti. Come fenomeni sono stati nello sport più popolare – se cito soltanto i fenomeni del calcio, anziché altre discipline sportive, è perché è più facile che quasi tutti capiscano di che cosa parlo – Pelè a cavallo degli anni 60/70, Maradona un ventennio dopo, Messi e Cristiano Ronaldo nel terzo millennio.
Djokovic, Federer e Nadal (ancora in ordine alfabetico) hanno lasciato le briciole a tutti gli altri tennisti loro contemporanei. E l’hanno fatto con una continuità spaventosa, in un arco temporale inimmaginabile che ha spaziato fra i 15 e i 20 anni. Davvero incredibile.
Mentre i campioni Slam del passato una volta superati i 30 anni difficilmente riuscivano a restare competitivi per più anni,– salvo rarissime eccezioni: Rosewall, Connors, Agassi su tutti – mentre qualche straordinario campione come Borg o McEnroe ha smesso di giocare o di vincere già a 26 anni – questi tre hanno continuato a dominare il resto della concorrenza come se fosse la cosa più normale del mondo. E tutti a sorprendersi, a meravigliarsi con infinito stupore quando ciò, a uno dei tre, ma mai a tutti e tre insieme, non succedeva.
Nel conquistare il meritato appellativo di “fenomeni” i tre supercampioni non si sono limitati a registrare un record dopo l’altro pur dovendosi affrontare fra le 50 e le 60 volte in pazzeschi testa a testa, dopo essersi inseguiti come i celebri duellanti di Conrad ai tempi di Napoleone ai 5 angoli/continenti del mondo sulle più varie superfici. Ma tutti e tre hanno dato dimostrazione di formidabili e superiori doti tecniche, atletiche, caratteriali, intellettuali, morali, umane. Ho forse dimenticato un qualche aspetto?
A trovar loro un vero difetto, come campioni e come uomini, personalmente ho sempre fatto fatica. Anche perché li ho conosciuti tutti da vicino e fin da quando hanno cominciato a cogliere i loro primi stupefacenti successi, quasi imberbi, a 16 e 17 anni. Quando anche un “parvenu” del tennis avrebbe intravisto le loro eccezionali qualità. Personalità intelligenza, simpatia, resilienza, determinazione, avevano tutto fin da subito. Le si potevano scorgere a occhio nudo, senza farsi condizionare dalla semplice precocità.
Forse proprio Djokovic, il più giovane dei tre e colui che sembra destinato a restare sulla breccia più a lungo degli altri, è quello – anche per le sue posizioni NOVAX (peraltro coerenti al massimo, diversamente da chi ha presentato certificati falsi assolutamente imperdonabili) – che ha sollevato più casi controversi. Talvolta nemmeno interamente per sue responsabilità. Il background della sua famiglia, l’educazione, lo stile di vita, sono stati diversi da quelli di Federer e Nadal.
Eppoi lui è arrivato dopo di loro, quasi un intruso, in un mondo che tennisticamente si era diviso all’80% fra federeriani e nadaliani. Per conquistarsi un posto, ha dovuto farsi spazio fra loro, impossessandosi di quel 20% che era rimasto ai neutrali. E dovendo giocare dappertutto con folle di tifosi più ostili che amiche. In patria è diventato un simbolo, un eroe, un semiDio. Fuori no. E’ stata dura, molto più dura che per gli altri due fenomeni conquistarsi un suo pubblico, un suo status internazionale. Lo ha potuto fare nel solo modo che lo sport consente: i risultati. Risultati assolutamente straordinari. Pian piano ha battuto i suoi leggendari rivali più volte di quanto di avesse perso. Pian piano ha autorizzato i suoi estimatori a inserirlo nell’eterno dibattito sul GOAT, sul più forte giocatore di tutti i tempi.
Non si metteranno mai d’accordo i tifosi dei tre fenomeni. Tutti avranno buoni motivi per sponsorizzare il loro fenomeno d’elezione. Chi privilegerà un’epoca ad un’altra, una strong era a una weak era (e qualche vuoto pneumatico al top dei competitor c’è stato per tutti e tre), chi lo stile e l’eleganza, chi la forza e la garra, chi la completezza, chi una superficie o un’altra. E qualunque conclusione verrà raggiunta sarà sempre ingiusta. Anche perché se in uno stesso anno possono cambiare in maniera pazzesca le cose – pensate solo al 2016 con i primi 6 mesi di Djokovic e i secondi 6 mesi di Murray – e figurarsi da un anno all’altro – pensate al 2017 e ai 4 Slam divisi fra i “risorti” Federer e Nadal che molti avevano già dati per finiti – se si dovessero confrontare pacchetti di più anni, in cui sono magari cambiate le attrezzature, le superfici, ogni paragone fra epoche diverse condurrebbe a emettere verdetti assolutamente discutibili, comunque superficiali.
Oggi, e chiudo questo lunga premessa, i fan di Djokovic ebbri di gioia per i 22 Slam che hanno consentito a Nole di eguagliare i 22 di Rafa Nadal e di “staccare” definitivamente i 20 di Federer sembrano aver buon gioco a sostenere che chi vincerà più Slam a fine carriera potrà tappare la bocca a tutti gi altri pretendenti al GOAT.
Ma non è così. Ken Rosewall, cui abbiamo dedicato un bell’articolo in questi giorni, ha vinto 8 Slam ma ne ha dovuti saltare – perché professionista per 11 anni – ben 44. E Rod Laver, unico campione ad aver realizzato due volte il Grande Slam (1962 e 1969, a sette anni di distanza, i suoi migliori 7 anni…), ha vinto 11 Slam dovendo saltare 20 Slam fra il 1963 e il 1967. Non potevano essere loro i GOAT? I fenomeni del tennis non sono stati solo tre.
Quelle ultime due lettere, A e T, stanno per ALL TIME. Se allora ALL TIME, per i motivi su esposti, non si può dire, limitiamoci allora a dire chi sia stato il miglior tennista del mondo anno per anno. E solo in quel caso è più probabile che non ci si sbagli, anche se – ripetendo l’esempio fatto poc’anzi – se si prende in esame un anno come il 2016 nel quale Novak domina i rimi sei mesi, Andy Murray i secondi sei, e il computer ATP assegna il numero uno year-ending a Murray perché vince la finale del Masters…beh anche in quel caso siamo così sicuri che il verdetto fosse così inequivocabile, inappellabile? Una sola partita può decidere chi sia il miglior tennista di tutto l’anno, solo perché lo dice un computer che – cito per l’ennesima volta Rino Tommasi – “sa far di conto, ma il tennis non lo capisce?”.
Vabbè, torno sulla finale e sulla superiorità disarmante di Djokovic perfino al termine di un match non immune da pecche, da errori evitabili, da nervosismi quasi inesplicabili come quello che lo ha colto a metà del secondo set quando avrebbe potuto continuare a gestire tranquillamente il match come aveva fatto fino ad allora.
Tsitsipas non poteva far molto di più, salvo che – nel tiebreak del secondo set – evitare quei quattro errori di dritto, il suo colpo migliore andato improvvisamente…in barca.
Ma Djokovic, che è indiscutibilmente da anni il miglior ribattitore del mondo – e qui, su questo giudizio, credo possano essere d’accordo perfino i tifosi di Federer e Nadal – era stato ingiocabile sui propri servizi. Fino a quel game in cui Tsitsipas è riuscito – sul 4-5 del secondo set- a conquistarsi contemporaneamente sia la prima palla break che l’unico setpoint Djokovic, aveva lasciato al più temibile dei suoi avversari la miseria di sei punti nel primo set in cinque turni di battuta (la sola volta che Stefanos era arrivato a 30 però Novak era avanti già 3-1 e 40-0) e nel secondo set 5 punti nei quattro turni di servizio. Mai Tsitsipas era ancora arrivato a 40.
Ok? Bene: c’è arrivato in quel frangente e sulla pallabreak-setpoint che fa Djokovic? Prima di servizio e dritto vincente.
Poi un tiebreak giocato maluccio da entrambi, perché sul 4-1 per Nole frutto di tre minibreak seguiti a 3 inattesi errori di dritto di Tsitsipas Nole ha prima regalato un insolito rovescio per lui banalissimo e poi ha fatto anche il secondo doppio fallo del suo match. Ma sul 4 pari ecco di nuovo Tsitsipas, evidentemente teso come una corda di violino, sbagliare un quarto dritto! Djokovic non se l’è fatto dire due volte e dal 4 pari al 7-4 è stato un gioco da ragazzi.
Qualcuno poteva illudersi che dopo il toilette break e l’unico servizio perso da Nole all’inizio del terzo set le cose potessero cambiare? Forse neppure l’irriducibile Tsitsipas.
Dal 2 a 2 in poi Djokovic – che ribadisco essere il miglior ribattitore del mondo – tiene per 4 volte consecutive il servizio a zero: 17 punti di fila (contando l’ultimo che gli aveva dato il 2-1 in un game vinto a 15). Cui seguiranno gli altri primi tre del tiebreak che decide l’ultimo tiebreak in cui, giusto per non illudere Tsitsi e le migliaia di fan greci che non smettevano di gridare “Tsitsipas, Tsitsipas” – mentre fuori dal centrale la stragrande maggioranza nel garden davanti al mega schermo era invece serba (mica facile procurarsi i biglietti…) – Djokovic sale sul 5-0, subisce dopo 20 punti conquistati con il servizio un mini-break, ma poco dopo chiude con un dritto vincente sul terzo matchpoint.
Sì, mi scuso, ho riscritto una cronaca che Cipriano Colonna aveva già scritto brillantemente chiudendola su Ubitennis nei 5 minuti successivi alla conclusione, ma solo per sottolineare come oggi perfino un Djokovic che ha giocato senza fare troppe cose straordinarie, è stato assolutamente ingiocabile in 12 turni di servizio su 14 (salvo che sul 4-5 e sul primo gae del terzo set) ed è sempre stato fortissimo – sì, proprio come sempre – quando doveva rispondere.
I suoi record li abbiamo già ricordati dappertutto. Non credo serva scriverli ancora, prima di cominciare a pensare a che cosa potrà accadere nel regno di Nadal al Roland Garros. Novak ha perso un solo set nel torneo, ma perché con Couacaud al secondo turno gli faceva male la coscia sinistra. Però se fossi stato a Melbourne tutti i suoi dieci trionfi, i 22, i 93, le 374 settimane da n.1 (verso le 377 di Steffi Graf) magari avrei trovato un modo per ricordarglieli in conferenza stampa.
Qua dico soltanto….davvero not too bad! carissimo fenomeno Djokodiecivic.
Australian Open
Australian Open: Sabalenka sugli scudi. Ha vinto il miglior servizio o il miglior dritto? E l’assenza di inno e bandiere bielorusse ha senso?
Hanno vinto…gli studi biomeccanici della regina 2022 dei doppi falli. Ma fra dritto e rovescio, quale è il colpo da fondo di solito più decisivo? Il duello Djokovic-Tsitsipas suggerisce una risposta sbagliata

La nuova campionessa dell’Australian Open, Aryna Sabalenka, è una ragazza che l’anno scorso aveva vinto…la classifica di chi aveva fatto più doppi falli fra tutte le prime 100 tenniste della WTA.
Roba da far arrossire Sascha Zverev. Aryna, che diventa la seconda bielorussa a vincere uno Slam in Australia dieci anni dopo Vika Azarenka, di doppi falli ne aveva commessi ben 427 nel 2022, a una media di 8 a match. Ma lo scorso anno, durante lo US Open, subito dopo aver perso dalla Swiatek, lei che ama farsi chiamare “Tigre” –e che si è fatta fare un tatuaggio di una tigre sull’avambraccio sinistro “perché mi deve ricordare di lottare sempre come una tigre…”- aveva deciso di mettersi a studiare la tecnica della sua battuta con uno specialista di biomeccanica, con due obiettivi: 1) ritrovare percentuali migliori sulle prime palle di servizio 2) servire seconde palle meno aleatorie.
Prima della finale il coach della Rybakina Stefano Vukov aveva dato l’aria di mettere le mani avanti, quasi anche a voler mettere maggior pressione su Aryna: “Il risultato dipenderà da chi servirà meglio”.
E quello della Sabalenka, Anton Dubrov: “Vincerà chi saprà controllare meglio le proprie emozioni”. Anche questo, per la verità, sembrava più un messaggio rivolto alla sua “assistita” piuttosto che a Elena Rybakova, ragazza piuttosto introversa che sembra spesso anche fin troppo in controllo dei suoi nervi. Almeno all’apparenza, perché oggi l’ho vista spesso parlare con se stessa dopo alcuni errori.
Beh, in questa finale vinta 4-6,6-3,6-4, Aryna ha perso il primo set della finale e il primo dell’anno, ma dopo è riuscita abbastanza bene a controllare le proprie emozioni fino a quando – a seguito dell’ennesimo dritto lungo della Rybakina (decisamente il colpo più incerto della kazaka) sul suo quarto matchpoint e dopo che sul primo aveva commesso un doppio fallo – si è lasciata andare lungo distesa sul campo centrale della Rod Laver Arena coprendosi il volto e piangendo come un vitellino, con tutto il petto percorso da sussulti irrefrenabili.
Direi che lo studio ha pagato – soprattutto in percentuale di prime palle, il 65% contro la Rybakina che si è fermata al 59%; la seconda palla invece secondo me necessità di studi ulteriori: è troppo piatta, c’è poco lift – perché durante tutto l’Australian Open di doppi falli Iryna ne ha fatti “soltanto” 29 in 7 partite. Quindi è scesa a 4 di media a match.
Vero, però, che le prime sei Aryna le ha vinte tutte in due set e sempre perdendo pochi game, così come aveva vinto in due set tutte le partite giocate al torneo di Adelaide. Oggi che la partita è durata 2h e 29 minuti per 3 set, i doppi falli sono stati 7, non pochissimi, però sono stati bilanciati da 17 ace (mentre la Rybakina ne ha fatti 9 e un solo doppio fallo: insomma la forbice dice +10 per gli ace a favore della ragazza bielorussa, + 6 a favore per i doppi falli a favore della kazaka) e poi non so dirvi quanti siano stati i servizi immediatamente vincenti, ma in quelle 70 volte in cui ha messo direttamente la prima ha fatto 50 punti. Sospetto che i servizi vincenti che siano stati parecchi.
Quindi il servizio ha svolto un ruolo importante in un match caratterizzato da pochi break, cinque in tutto in 29 game, come vediamo di solito accadere più in un match di uomini piuttosto che di donne.
D’altra parte le due ragazze finaliste hanno un fisico non così comune per il tennis femminile: un metro e 84 centimetri la Rybakina, un metro e 82 la Sabalenka che ha anche due spalle e una potenza che non tanti tennisti di sesso maschili possono vantare e disporre.
I servizi della Sabalenka sfiorano i 200 km orari e fanno male. Se un numero sufficiente di battute le sta dentro, strapparle il servizio è tutt’altro che semplice. Infatti la Rybakina c’è riuscita solo due volte pur essendosi procurata 7 pallebreak, entrambe nel primo set. E poi più.
Con le sue possenti, fracassanti risposte, invece la Sabalenka di palle break ne ha conquistate 13 e dopo l’inutile break del primo set per risalire dal 2-4 al 4 pari, un break a set nei due set successivi le sono bastati per vincere il match e conquistare il suo primo Slam alla sua prima finale e dopo tre stop in tre precedenti semifinali Slam.
Di solito, se fra due giocatrici di simile livello (ma vale forse ancor più per i giocatori) una ha un grandissimo dritto e l’altra ha un grandissimo rovescio, dai tempi di Steffi Graf (anche se Chris Evert potrebbe aver argomenti validi per obiettare), vince quella con il miglior dritto.
Il dritto, in genere, procura più punti. Tant’è che salvo poche eccezioni se a un tennista si offre una palla a mezza altezza e a metà campo, è più normale che il tennista giri attorno alla palla per schiaffeggiarla con il dritto piuttosto che con il rovescio. Il dritto è un colpo più dirompente. E’ più normale schiacciarlo dando anche una spallata. Ma su questa tesi sono più che aperto ad aprire un fronte di discussione e contradditorio…
Ora ci sarà chi, alla vigilia della finale maschile fra Djokovic e Tsitsipas mi obietterà che Djokovic è il favorito anche se il greco ha il miglior dritto e il serbo il miglior rovescio, ma io a mia volta potrò controbattere che Nole fa comunque di solito più punti vincenti con il dritto che con il rovescio. Vedremo domani (ore 9,30 su Discovery-plus).
Intanto chiudo il discorso sulla finale femminile osservando che la bielorussa Sabalenka non ha potuto godere né dell’inno nazionale a celebrare il suo trionfo, né della bandiera bielorussia sul tabellone e sul palmares dell’Australian Open accanto al suo nome. Magari fra qualche anno ricomparirà al posto di una bandiera bianca. E chissà poi che cosa deciderà Wimbledon quest’anno. Molti auspicano un ripensamento. Non i tennisti ucraini. La Kostyuk, sconfitta in semifinale nel doppio femminile, ha chiesto agli inglesi di non fare marcia indietro.
Io ripenso con piacere a quando l’indiano Bopanna e il pakistano Qureshi si sono messi a giocare il doppio assieme.
Ma fra Russia-Bielorussia e Ucraina la guerra è ancora purtroppo così terribilmente virulenta, orribile oggi perché possano essere dei tennisti i primi a soprassedervi, a non farci caso. Anche se potrebbe essere un gran bel messaggio.
La newsletter Slalom.it di Angelo Carotenuto ha riportato un articolo del Sydney Morning Herald secondo cui “Sopprimendo le loro bandiere (di russi e bielorussi), i dirigenti maldestri offrono solo più fiato al loro vittimismo. Che si tratti di Australia, Parigi, Londra o New York, l’anno scorso ha dimostrato che più bandiere vengono bandite dagli eventi sportivi, maggiore è la sfida che producono. Quanto più il mondo condanna il nazionalismo, tanto più acquistano forza coloro che ci credono. Chiediamolo agli ucraini”
Comunque sia quando hanno chiesto a Aryna Sabalenkaq, nuovamente n.2 del mondo “nel giorno più bello della mia vita” (la Rybakina sarà top-ten, ma sarebbe stata top-five se avesse potuto contare anche i 2.000 punti di Wimbledon 2022) se non le sembrasse strano aver vinto uno Slam senza una sola bandiera bielorussa e neppure una menzione alla bielorussa, lei ha risposto con un sorriso: “Credo che tutto il mondo sappia che sono bielorussa, non vale la pena di aggiungerlo”.