Berrettini a Call-azione: “Gioco a tennis per sentirmi vivo”

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Berrettini a Call-azione: “Gioco a tennis per sentirmi vivo”

Raggiunto in Florida dalla videochiamata di Federico Ferrero e Simone Eterno, il n.8 ATP risponde alla domanda che nessuno gli ha mai fatto e parla della sua passione per la pallina gialla, della situazione del tour ai tempi del lockdown e dell’ottimo italiano di… Ajla Tomljanovic

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Matteo Berrettini (foto Twitter @RioOpenOficial)
 

Non volete sapere quante interviste ho fatto durante il confinamento, davvero non volete”. Scherza un Matteo Berrettini di ottimo umore ospite della nuova puntata di Call-azione, la saga di interviste a sfondo tennistico ideata da Eurosport e condotta da Simone Eterno e Federico Ferrero. Del resto la calma obbligata che aleggia nel tour, solitamente una centrifuga che lascia poco spazio alle riflessioni, consente qualche approfondimento extra, e il numero otto ATP si è volentieri prestato a una chiacchierata di mezz’oretta utile a toccare molti punti dello scibile tennistico e non solo.

Se avessi una risposta meravigliosa per una domanda che nessuno ti ha mai fatto,” attacca citando Santa Maradona Simone Eterno, “la fatidica domanda quale sarebbe?”. Matteo, sentimentalmente, risponde che a memoria a nessuno è mai venuto in mente di chiedergli quale significato abbia per lui quella benedetta pallina gialla, che in superficie è sport, è lavoro, e nel profondo è tutto. “Ma non per ciò che si prova dopo una vittoria importante o dopo un colpo vincente,” specifica il nostro numero uno, “proprio il fatto stesso e semplice di colpire la palla, anche dal centro del campo senza pressione. È una cosa intima, forse di più. Il tennis è entrato in me mentre crescevo, perché mi aiutava a sentirmi meglio in relazione ai problemi che ognuno di noi ha là fuori, nella vita di tutti i giorni. Poi prende a circolare nel sistema, e nei momenti in cui mi chiedo chi me lo faccia fare di sottopormi ai sacrifici a cui da una vita mi sottopongo, la risposta arriva con naturalezza: appena mi devo fermare, sia colpa di un infortunio oppure del Coronavirus, mi accorgo che pagherei oro per fare due palleggi con chiunque, in qualsiasi situazione, e se vedo qualcun altro con una racchetta in mano mentre io non posso giocare, rosico. C’è chi, come Ajla (Tomljanovic, la sua ragazza, tennista professionista lei pure, NdR), non ne sente il richiamo lontano dall’agonismo, dalla competizione. Certo i tornei e le vittorie sono importanti, ma a me piace giocare, più di ogni altra cosa, in qualsiasi contesto. È stato così durante la semifinale a Flushing Meadows ed era così da ragazzino quando giocavo con mio fratello su un campaccio in mateco fino a rompermi le gambe. Spero di aver reso l’idea.”

Esaustivo e corretto, proprio come l’italiano di Ajla, con cui Matteo sta passando in Florida il confinamento. “Comunichiamo in inglese, ma la sua propensione per le lingue è straordinaria. Ogni tanto si perde nel ginepraio dei nostri mille tempi verbali e si imbestialisce, ma il suo livello è pazzesco, ed è pure pericoloso: non posso più fare alcun commento azzardato o seccato perché mi capisce! Diciamo che a ruoli invertiti i risultati sono leggermente peggiori.”

In Florida, Matteo avrebbe dovuto partecipare all’ormai celeberrima esibizione di West Palm Beach, “ma le mie solidissime caviglie hanno deciso di rompersi di nuovo, anche se ho già ripreso ad allenarmi,” e dalla Florida osserva le vicende politiche del tennis in quarantena e le prospettive per il futuro prossimo, invero piuttosto fosche. “Non ho ricevuto comunicazioni ufficiali, ma le voci che girano non sono per nulla incoraggianti. Si ha la sensazione che per quest’anno non si giochi più e forse sarebbe giusto così. Competere senza spettatori, magari in posti diversi rispetto a quelli storici (si riferisce all’ipotesi US Open in California, NdR) non avrebbe molto senso. Poi se me lo chiedessero aderirei, ma le sensazioni non sarebbero comparabili. Meglio aspettare sette mesi e ripartire in Australia, ‘a cannone.’ “

Resta da sbrogliare l’annosa matassa riguardante la situazione dei tennisti di non primissimo piano e non corposissimi guadagni, costretti senza stipendio e presumibilmente in gran parte sprovvisti di fondi-materasso messi da parte nel tempo. Di recente il numero tre del mondo Dominic Thiem si è detto contrario alla creazione di un fondo a favore dei colleghi di bassa classifica finanziato dalle stelle luminose del circuito, faccenda che ha scatenato un vespaio di polemiche e un’accorata lettera dell’algerina Ines Ibbou indirizzata contro Dominator, reo di voler distruggere il suo sogno e di chi, come lei, ancora combatte nelle retrovie per un posto al sole. Dietro alle reazioni d’istinto si nasconde comunque una faccenda complessa, e Berrettini non si lascia scappare l’occasione per un’interessante riflessione da “dietro le quinte”. “Tutto ruota attorno all’annosa questione su chi sia professionista e chi no. Fintanto che ci sarà una zona grigia il problema non potrà essere risolto. Io non discuto su chi possa essere definito tale o meno, ma se taluno lo è merita di guadagnare dal proprio mestiere. La situazione di molti giocatori non può essere lasciata in mano al buon cuore dei colleghi, perché le pur commoventi donazioni non dovrebbero essere il modo di tenere in piedi un sistema. Tra di noi esiste una chat, e l’idea del fondo è circolata. Nessuno ha imposto nulla, però: Djokovic ha lanciato la proposta e tanto di cappello a lui, ma se qualcuno tra noi al posto di finanziare i colleghi preferisse fare una donazione a un ospedale o incentivare con un contributo un’azienda che produce mascherine sarebbe parimenti rispettato da tutti.

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