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Elogio di Mikhail Youzhny, colonnello dal braccio d’oro

Dalla scomparsa del padre, a cui dedicava il suo celeberrimo saluto militare, alle sue imprese sul campo. Un talento che forse avrebbe meritato uno Slam

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Una carriera, in generale, non è mai l’equivalente di una somma algebrica delle coppe esposte in bacheca. Quella di Youzhny, nello specifico, è di tutto rispetto, detto a beneficio dei più schizzinosi. La diffidenza ingiustificata di molti aficionados nasce dal fatto che, Davis a parte, la sua vita sportiva è oggettivamente mancante di quell’acuto, uno Slam per esempio, che una forma di talento purissima avrebbe forse potuto raggiungere. Forse. Perché nell’era geologica in cui viviamo, quella monopolizzata dal triumvirato dispotico Federer-Nadal-Djokovic, è impresa titanica ritagliare dalla torta un quarto d’ora di gloria. Anche per un tennista eccellente nella sua poliedricità, ma umano, come Youzhny.

Gilles Muller – delizioso volleatore venuto al mondo con una trentina d’anni di ritardo e che, al pari di Misha ha chiuso i battenti nel 2018 – ebbe modo di esplicare a chi scrive la differenza macroscopica che intercorre tra lo sport dei tre cannibali e quello di tutti gli altri. Disse a riguardo che, sebbene lui a tennis ci giocò piuttosto bene, loro di rimando praticano tutta un’altra disciplina che esula dalle proprie competenze. Così, per rendere l’idea.

In ogni caso, nella stanza dei trofei di casa Youzhny trovano alloggio una decina di tornei del circuito maggiore, un best ranking fissato tra i migliori dieci giocatori al mondo (numero otto per la precisione), il traguardo dei quarti raggiunti in tutte le quattro prove del grande Slam con due semifinali a New York e, come visto poc’anzi, due Davis Cup e 499 incontri vinti in totale. Vincere, parafrasando Boniperti, sarà anche l’unica cosa che conta, ma è la profusione dello stile, specialmente nello sport aggraziato che fu di Bill Tilden, a farne un gigante dei nostri tempi.

Sposato con Yulia, padre di due bimbi e una laurea in filosofia nel carniere, perché anche il cervello esige il suo tributo, Misha deve molto delle proprie fortune a tale Boris Sobkin, enigmatico docente universitario di matematica prestato al tennis sotto forma di padre-allenatore. Il fruttuoso sodalizio risale già alla fine degli anni ’90 quando, nei circoli spesso poco confortevoli messi a disposizione dei militari, Sobkin intravede in un bambino dal carattere turbolento e inquieto – ovvero quanto di peggio per le dinamiche cerebrali che governano il tennis – le stimmate del campione. Farà, anzi faranno, un lavoro enorme. Il resto è una storia a lieto fine.

Laureato ad honorem all’università delle traiettorie con specializzazione per quelle impossibili, tecnicamente Youzhny è stato un tennista senza lacune. Competente in ogni segmento del gioco e profondo conoscitore dell’uso scientifico delle rotazioni, Colonel – l’ovvio soprannome che echeggiava nel circus – ha dipinto tennis, un po’ Mondrian e un po’ Kandinskij, grazie anche a un rovescio efficace, elegante e personale insieme. Un movimento, il suo, riconoscibile al buio tra migliaia, che nasce a due mani in prima fase nella preparazione per poi sprigionare il meglio di sé ricorrendo al solo arto dominante. Né bimane, né monomane, quindi, ma ‘a una mano e mezzo’, come ribattezzato dall’impeccabile etichettatore con licenza di far sorridere, Gianni Clerici. Per uno cresciuto per sua stessa ammissione nel mito di Stefan Edberg, il lato sinistro del dio Tennis, non poteva andare diversamente.

Il ritiro di un campione è sempre un piccolo lutto per chi, con lui, ha condiviso un susseguirsi di emozioni. Tuttavia, la parabola umana e agonistica di Mikhail Youzhny, atleta russo e pertanto meritorio di considerazioni necessariamente ad hoc, racchiude in sé almeno due insegnamenti che sarebbe delittuoso non fare nostri. Il primo. La possibilità nella vita come nello sport, per molti versi la stessa cosa, di agire in maniera produttiva sul nostro carattere, complesso a piacere, per conseguire gli obiettivi prefissati. Il secondo. Mai rassegnarsi ad anteporre incondizionatamente il funzionale, o ciò che il mainstream reputa tale, al bello. Perché potrà sembrare utopia ma talvolta coincidono e il risultato finale ha tutto un altro sapore. Anche nel secolo XXI, a più riprese brutalizzato da racchette atomiche e gambe da avveniristici supereroi.

Do svidánija, Colonel, e mano alla tempia.

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