Che cosa farebbe Arthur Ashe?

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Che cosa farebbe Arthur Ashe?

La statua di Arthur Ashe, a Richmond, è stata vandalizzata: ‘White Lives Matter’ al posto di ‘Black Lives Matter’. Un episodio deprecabile che ci impone di ripercorrere la storia di un personaggio unico

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Arthur Ashe partecipa a un'udienza sull'apartheid alle Nazione Unite (ph. Bettman Archive)
 

La fredda cronaca ci impone purtroppo di citare un recente episodio occorso alla statua eretta in onore di Arthur Ashe, a Richmond (Virginia), che è stata vandalizzata con la scritta ‘White Lives Matter‘. L’infausto episodio si innesta nello scenario delle manifestazioni del movimento ‘Black Lives Matter‘ in favore dei diritti degli afroamericani, tornato in auge dopo l’uccisione di George Floyd. Della statua di Ashe, e più in generale di tutte le statue che riguardano il tennis, avevamo parlato in questo articolo.

Oggi vi proponiamo la traduzione integrale di una riflessione di Patricia A. Turner, direttrice dell’Arthur Ashe Legacy Fund della UCLA (University of California at Los Angeles, ndr), alla luce delle proteste scatenate dalla vicenda di Floyd. Qui l’articolo originale.


Il 9 settembre 1992 il grande del tennis Arthur Ashe non aveva dubbi. Una delle grandi coscienze dello sport americano sentiva che la disobbedienza civile era l’unico modo per richiamare l’attenzione sulla profonda ingiustizia perpetrata dalla guardia costiera degli Stati Uniti, che intercettava i rifugiati in fuga da Haiti su barche improvvisate dirette verso la costa americana, dove avrebbero potuto scappare dalla persecuzione e trovare asilo.

Con i suoi classici occhiali da aviatore, le scarpe da tennis, i pantaloni cachi chiaro e un fedora bianco di paglia alla moda, l’outfit di Ashe nel complesso sembrava perfetto per una giornata da passare a uno degli Slam, dove era una nota celebrità. Sarebbe risultata fuori luogo solo la maglietta sopra la polo, sulla quale si leggeva: “Haitians Locked Out Because They Are Black” (“Gli haitiani sono stati tagliati fuori in quanto neri”).

In altre parole, anni prima del Black Lives Matters iniziasse a importare a tanti, Ashe marciò. Davanti alla Casa Bianca, si unì alla famosa ballerina e coreografa Kathrine Dunham, alle icone dei diritti civili Randall Robinson e Benjamin Hooks e ad altre 2000 persone che indossavano le magliette o che portavano cartelli che essenzialmente recitavano che “Black lives matter”.

Chiaramente, questo capitolo nella storia americana e nel tennis si sovrappone con il presente. Ciò che Ashe e gli altri volevano per gli haitiani era l’accesso al sistema d’immigrazione americano, e che venisse riconosciuto loro lo stato di rifugiati. Lo stesso esercito americano si era infiltrato nella politica haitiana, creando ulteriori difficoltà per i cittadini più poveri, molti dei quali provavano a fuggire dalla repressione politica per poi essere fermati con forza in mare. Questo era in netto contrasto con il trattamento riservato ai rifugiati cubani, e nella sua appassionata autobiografia, ‘Days of grace‘, Ashe scrisse: “Ero sicuro che la razza fosse il fattore principale in quel doppiopesismo”.

L’impossibilità di ottenere un giusto e legittimo processo, e il doppiopesismo, sono ciò che fa infuriare molti degli attuali manifestanti. George Floyd era innocente fino a prova contraria, e aveva diritto a una appropriata procedura d’arresto. A molti di noi sembra altamente improbabile che, se fosse stato un uomo bianco, sarebbe stato sottoposto a un arresto così inutilmente brutale e in definitiva fatale.

Oltre a rischiare la propria reputazione, Ashe correva un reale rischio fisico nel manifestare e nel rischiare, forse, l’arresto. All’epoca la pandemia era l’AIDS, e Ashe era già stato contagiato. Il suo sistema immunitario era debole, e la prossimità con altre persone poteva essere catastrofica. Eppure, nonostante i rischi, decise di marciare.

Arthur era sempre stato cauto nella scelta delle cause da sostenere. Come molti che oggi protestano, non scendeva in strada per fare un servizio fotografico. Ashe stesso aveva indossato l’uniforme durante il periodo nel ROTC [il Reserve Officers’ Training Corps, un programma universitario per l’addestramento degli ufficiali, ndr]. Negli anni ’60 sbagliò per eccesso di prudenza, una decisione di cui si sarebbe pentito in seguito. Il reverendo Jesse Jackson aveva chiesto a Walt Hazzard, un amico di Ashe e a sua volta atleta per UCLA [basket, ndr], di organizzare un tête-à-tête per provare a persuadere il giovane fenomeno a usare la sua visibilità per portare avanti le cause dei diritti civili. Ashe rifiutò, dicendo che preferiva promuovere la causa degli afroamericani da solo, in maniera più pacata.

Ma quando Arthur si convinse che il canale della politica e del commercio non potevano proteggere gli uomini e le donne di colore, scese nelle strade con coraggio e saggezza. Nel 1985, quando era capitano del Team USA in Coppa Davis, protestò contro l’apartheid fuori dall’ambasciata del Sud Africa a Washington. Se l’esclusione di Colin Kaepernick dalla NFL è certamente l’esempio più noto di un atleta finito sulla lista nera, anche Ashe non durò molto come capitano, una volta che si seppe del suo impegno anti-apartheid.

Ashe si arrese alle complicazioni relative all’AIDS sei mesi dopo la sua ultima protesta. Attraverso la sua potente biografia Days of Grace, è chiaro l’amore profondo per il suo Paese, ma nel corso della sua vita fu sempre più riluttante a stare in silenzio mentre la gente di colore veniva deprezzata a priori. Così, indossando una maglietta che invocava giustizia, sfilò pacificamente nelle strade, correndo un rischio che nella sua idea avrebbe portato avanti una causa di fondamentale importanza.

Trent’anni dopo, il feroce razzismo e la violenza fisica condotta sugli afroamericani hanno costretto gli attivisti a far sentire la propria voce, a rischiare la propria salute, e a prendere parte a proteste in tutto il Paese. La speranza è che le persone e le istituzioni che hanno ignorato il valore delle persone di colore adesso ascoltino, imparino e cambino.

Traduzione a cura di Chiara Ragionieri

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