Coronavirus all'Adria Tour: Djokovic ha delle responsabilità?

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Coronavirus all’Adria Tour: Djokovic ha delle responsabilità?

Nessuna, dal punto di vista formale, nonostante le positività di Dimitrov e Coric al virus che causa il COVID-19. Più di qualcuna, se consideriamo che Novak Djokovic è il presidente dell’ATP Player Council

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Novak Djokovic - ATP Finals 2019 (foto Roberto Zanettin)
 

BREAKING NEWS – Djokovic è risultato positivo al coronavirus


Il dibattito sui quattro casi di coronavirus all’Adria Tour, che sui social ha presto assunto le forme di un tiro al piccione – a scanso di equivoci, il piccione è Novak Djokovic – è chiaramente il tema del giorno. Dopo l’annuncio della positività di Grigor Dimitrov, che sabato era in campo a Zara contro Borna Coric, anche il giocatore croato ha comunicato questa mattina di aver contratto il coronavirus. Le altre due positività accertate sono quelle di Marco Panichi, preparatore atletico di Djokovic e Kristijan Groh, allenatore di Dimitrov, mentre secondo alcune indiscrezioni (confermate dal Telegraph, quello britannico) Djokovic avrebbe rifiutato di sottoporsi al tampone in Croazia in quanto asintomatico per testarsi direttamente al suo ritorno a Belgrado, assieme ai membri della sua famiglia.

Perché il piccione sia Djokovic è presto detto: da presidente dell’ATP Player Council si è fatto promotore dell’organizzazione dell’Adria Tour, evento in quattro tappe (diventate tre dopo la cancellazione di quella montenegrina) che ha per direttore il fratello Djordje e le cui prime due tappe, quelle di Belgrado e Zara, si sono svolte a porte aperte e senza particolare rispetto del distanziamento sociale, sia in campo che fuori dal campo. Oltre agli abbracci post-partita, i giocatori sono stati a stretto contatto anche nel corso delle attività collaterali all’evento: una partita di calcio a Belgrado, una partita di basket a Zara e persino una serata in discoteca. Prima ancora di finire sotto processo per aver promosso un’esibizione senza rigidi protocolli sanitari, il numero uno del mondo era stato già accusato per aver disertato la riunione del 10 giugno su Zoom, nella quale sono state discusse le linee guida per la ripartenza del circuito.

L’ADRIA TOUR NON HA INFRANTO ALCUNA REGOLA – Cerchiamo di fare ordine. La questione andrebbe prima sottoposta al giudizio di legittimità per poi interrogarsi sull’eventuale opportunità. Partiamo dalla legittimità. L’Adria Tour si è disputato in ottemperanza delle leggi in vigore nei Paesi che hanno ospitato le prime due tappe, ovvero Serbia e Croazia. “Può essere criticato”, aveva detto Nole in una conferenza a margine dell’evento di Belgrado. “Si può dire, ad esempio, che magari sia pericoloso. Ma non spetta a me valutare cosa è giusto dal punto di vista della salute: stiamo semplicemente seguendo le regole del governo serbo”.

Quello che dichiara Djokovic è vero. Sul sito della Organization for Economic Co-operation and Development sono consultabili le schede riassuntive delle policy adottate dai vari paesi per combattere la pandemia di COVID-19, e da quella serba possiamo apprendere che già dal 7 maggio le misure di contenimento – che per circa un mese avevano previsto un coprifuoco di dodici ore, dalle 17 alle 5 del mattino – sono state allentate. Da un mese non è più necessario esibire una prova di negatività (al virus) all’ingresso nel Paese e a partire dal 5 giugno sono state rimosse le restrizioni relative alla partecipazione di pubblico ad eventi all’aperto, fermo restando il rispetto della distanza interpersonale di un metro che rimane ‘fortemente consigliata.

Riassumendo, in Serbia non esistono divieti formali sebbene il governo suggerisca – senza obbligo – di mantenere alcune precauzioni. Una scelta, quella del presidente Aleksandar Vučić – proprio ieri rieletto a larga maggioranza, con il 62,4% dei voti – che secondo alcuni media europei ha avuto il preciso scopo di ripristinare una patina di serenità in vista delle elezioni, previste inizialmente per il 26 aprile e rinviate di due mesi a causa del virus.

Quanto alla Croazia, a fine maggio è stato revocato il divieto di organizzare eventi pubblici con più di 40 partecipanti e il giudizio per ogni singolo evento, da allora, è stato demandato al parere dell’Istituto Croato di Sanità Pubblica, che evidentemente ha dato il via libera all’Adria Tour. A seguito delle positività di Dimitrov e Coric, il capo del dipartimento di malattie infettive Bernard Kaić è intervenuto in televisione per tranquillizzare i cittadini di Zara spiegando che ‘è necessario trascorrere molto tempo con la persona contagiata per potersi infettare’, e che dunque chi era semplicemente seduto sugli spalti non rischia il contagio.

I due giocatori risultati positivi a Zara: Borna Coric e Grigor Dimitrov

QUINDI DJOKOVIC NON HA SBAGLIATO? – Formalmente no, ammesso che si possa ricondurre a lui la responsabilità legale dell’organizzazione dell’Adria Tour. La questione che non può essere trascurata riguarda però il ruolo pubblico di Djokovic, e dunque l’opportunità di promuovere un evento che si è completamente disinteressato del distanziamento sociale (lo ricordiamo, fortemente consigliato dal governo serbo) mentre la pandemia sta ancora mietendo vittime in alcune parti del mondo.

Oltre a essere il tennista più forte del pianeta secondo il computer, che di per sé sarebbe sufficiente a imporre una attenzione supplementare per azioni e dichiarazioni che possono avere conseguenze dirette sulla collettività, Djokovic è il primo riferimento dei tennisti in virtù del suo ruolo di presidente del Player Council. Si tratta di una posizione politica a tutti gli effetti, che implica delle responsabilità politiche (limitatamente al mondo del tennis, s’intende). Nessuno lo ha obbligato ad assumersi questa responsabilità, che una volta assunta dovrebbe però essere onorata.

Stiamo dunque ipotizzando che Djokovic non l’abbia onorata, in questo caso? Sì, in un certo senso sì. L’Adria Tour poteva certo essere organizzato, ma se la positività di Dimitrov e Coric – non c’è garanzia che si siano contagiati partecipando all’esibizione – fosse emersa a margine di un evento disputato con le precauzioni suggerite, Djokovic non sarebbe diventato il bersaglio che è diventato nelle ultime ore.

Si aggiunga un altro concetto. Djokovic ha giustamente sottolineato che non spetta a lui valutare cosa è giusto per la salute, ma proprio in virtù di questo principio non sembra spettargli neanche la responsabilità di inviare il messaggio del ‘liberi tutti’ che ha chiaramente fatto passare con l’Adria Tour. Questo non implica che ci sia (stata) malafede da parte del giocatore serbo, così come non c’era malafede nelle parole dei politici italiani che pochi giorni prima dell’esplosione dell’epidemia in Lombardia invitavano a ‘non fermarsi’. Che sia per una convinzione personale, perché ritiene – a torto o a ragione – che il virus abbia smesso di costituire pericolo, o per un fine più machiavellico (convincere lo US Open ad allentare le briglie?), Djokovic ha avallato un’iniziativa che potrebbe aver avuto conseguenze negative su altre persone.

Ha commesso una leggerezza, lui come gli altri giocatori presenti, e sarebbe deontologicamente scorretto non rilevarla. Un conto è essere convinti che il virus non sia mai esistito o non sia più pericoloso, un conto è tradurre questo pensiero in azioni di pubblico interesse.

Ha commesso una leggerezza non nella misura in cui ha deliberatamente favorito la trasmissione del virus, perché potrebbe anche non esserci alcun nesso di causalità tra l’Adria Tour e la positività di Dimitrov e Coric, ma nella misura in cui ha scelto di ignorare le precauzioni che in questo momento hanno il cruciale compito di guidarci in un momento di incertezza collettiva, di ipotesi e pareri scientifici in contrasto.

Djokovic non sa se il virus è ancora pericoloso o meno, come non lo sappiamo noi né, persino, chi ha studiato anni per saperlo (già questo dovrebbe essere sufficiente a indurre in noi un certo ‘pudore delle opinioni’, tristemente dimenticato). Djokovic potrebbe anche avere ragione, ma sarebbe una ragione inconsapevole; non può essere sicuro del messaggio che sta mandando. A questo servono le precauzioni, per quanto inutili possano sembrare, e anzi l’auspicio anzi è esattamente quello: che un domani si riveleranno inutili: vorrà dire che tutto è andato per il meglio.

Quello che viene erroneamente interpretato come una svalutazione del metodo scientifico e addotto come argomento a favore della tesi del ‘liberi tutti’, ovvero il virologo A convinto che gli asintomatici non siano pericolosi per la trasmissione del virus e il virologo B che sostiene il contrario, è semplicemente il normale dibattito scientifico che ottiene eccezionalmente la pubblica attenzione per la portata planetaria del tema in oggetto.

La scienza sta effettivamente brancolando nel buio, perché è così che succede prima che le prove mettano d’accordo tutti su una tesi, e noi abbiamo il dovere civico di non peggiorare le cose in questo periodo di assestamento. Se alcuni virologi pasticciano nella fretta di esprimersi, se politici e decisori travolti dalla crisi compiono scelte traballanti e poco comprensibili, noi non siamo più legittimati del solito a fare quello che ci pare per combattere un supposto disegno che ci vorrebbe asserviti alle multinazionali del farmaco (saranno mica le uniche del mondo, peraltro; tante altre hanno perso e perderanno soldi a causa della crisi, e non stanno certo stappando Dom Perignon).

Quello che la comunità scientifica forse non ha saputo comunicare con sufficiente chiarezza è il seguente concetto: non sappiamo ancora quello che dovremmo sapere sul virus, né abbiamo una strategia valida per curarlo e debellarlo, dunque nel frattempo vi chiediamo di sottoporvi a qualche piccolo sacrificio perché si possa guadagnare il tempo sufficiente a trovare una contromisura definitiva. Disputare un’esibizione con qualche metro di distanza in più sugli spalti e qualche abbraccio in meno in campo, tutto sommato, sarebbe stato un sacrificio tollerabile.

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