La top 10 delle migliori performance nella storia di Wimbledon

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La top 10 delle migliori performance nella storia di Wimbledon

Da Djokovic 2015 a Federer 2017, passando per Becker, Borg e Sampras. Abbiamo provato a classificare i migliori di sempre nello Slam londinese in base al rendimento su edizione singola

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Roger Federer con il trofeo di Wimbledon 2017
 

Si può determinare chi ha vinto “meglio” di altri? Ovviamente no. Troppi fattori incalcolabili, l’impossibilità di pesare le assenze, e un certo lassismo statistico nel tennis che sfavorisce gli albori dello sport (come si vedrà in seguito) rendono il compito esageratamente aleatorio – senza considerare che la comparazione di ere diverse non ha mai avuto senso, in particolare dall’inizio dell’evoluzione tecnologica del tennis dalla metà degli anni Ottanta. Seppur largamente insufficienti, dei mezzi oggettivi esistono, e possono consentire di approssimare delle idee, se non altro nel limite dell’estensione dei parametri stessi.

Questo è ciò che si è fatto per determinare chi siano stati i vincitori più assertivi nel singolare maschile Wimbledon durante l’Era Open, in omaggio al torneo che si sarebbe dovuto disputare in questi giorni. Mesi fa, un pezzo simile era stato scritto sulle prestazioni dei vincitori Slam in generale, ma l’unico criterio era il ranking medio degli avversari, dato facilmente falsato se si incontra il N.323 al primo turno e il 112 al secondo. Stavolta, visto anche la quantità inferiore di campioni, sono stati aggiunti altri fattori, alcuni vicini, altri apparentemente antitetici.

Al ranking medio degli avversari (si suggerisce la lettura dell’articolo sopracitato per i caveat del caso) è stata appaiata una statistica ribattezzata “top player battuti, che in scala decrescente attribuisce un valore numerico ai giocatori affrontati, in ossequio alla struttura dei tabelloni Slam – 7 per i Top 2, 6 per i Top 4, 5 per i Top 8, 4 per i Top 16, 3 per i Top 32, 2 per i Top 64, 1 per i Top 128, 0 per tutti gli altri. In questo modo i valori degli avversari dal ranking più basso è calmierato, dando più valore agli avversari incontrati nelle fasi calde dei tornei.

Le altre due categorie considerate sono molto simili fra loro, e.g. set persi e game persi. Sono due dati per certi versi arbitrari, perché se qui si è premiata la manifesta superiorità di chi ha concesso poco, qualcun altro potrebbe opinare che forse è chi fatica di più a meritare gli onori delle cifre – opinione condivisibile, che avrebbe il merito di includere le finali più leggendarie, ma quando si parla dei migliori raramente si parla di gente che sarebbe potuta uscire da ogni sliding door. Una volta calcolati i parametri, i primi venticinque di ogni categoria sono stati messi in fila, con punteggi decrescenti (25 al primo, 24 al secondo, ecc) – i valori finali scaturiscono dalla somma dei quattro rendimenti.

Come già detto, purtroppo i dati sul ranking sfavoriscono le prime edizioni Open, visto che dal 1971 al 1973 non esisteva ancora la classifica computerizzata, mentre fino alla metà degli anni Ottanta abbiamo a disposizione quasi sempre solo la Top 100, e questo non consente di avere dati completi sulle edizioni del 1978 e su quelle comprese fra l’81 e l’83 – addirittura c’è un caso di ranking desaparecido, quello della prima settimana di Wimbledon ’76, ma fortunatamente è disponibile la classifica immediatamente precedente. Il corollario è che per i poveri Laver, Newcombe e Smith non c’è troppa gloria, ma è probabile che stanotte dormiranno bene comunque.

In realtà, ci sarebbe stato un parametro in grado di riequilibrare lo studio, ovvero quello relativo ai minuti spesi in campo. Infatti, è fatto abbastanza noto che il passaggio al lolium perenne 100% nel 2001 e soprattutto l’introduzione delle palline Type 3 l’anno successivo abbiano dilatato i tempi di gioco sull’erba dando più tempo di reazione in risposta.

Due dati esemplificativi: la media dei minuti in campo del vincitore è passata da 865 minuti nel periodo 1991-2000 (laddove i dati sono disponibili) a 1002 nel periodo 2008-2019 (il periodo intermedio ha un glitch del videogame estremamente fotogenico e con quattro figli), e che la durata media di un set dal terzo turno in poi è sempre stata sotto i 39 minuti fino al 2001, mentre da allora si è scesi sotto quella soglia in tre circostanze su diciotto – la durata media dei set è aumentata di oltre tre minuti laddove quella dei tie-break e dei set a oltranza è aumentata solo di 0,21 minuti all’anno, cioè di 0,007 a partita.

Di conseguenza, è ragionevole pensare che i vincitori delle ere passate, specialmente nell’era delle racchette di legno, procedessero più rapidamente nel tabellone di quanto si faccia oggi, ma sfortunatamente per loro mancano i riscontri, e pertanto le cifre di questa categoria sono state tralasciate – il tempo di gioco è stato usato in una sola circostanza per spezzare un ex-aequo.

Una critica che si potrebbe muovere ai parametri scelti è che si possono tranquillamente suddividere in due coppie all’interno delle quali un valore è in qualche modo superfluo rispetto all’altro. Vero ma non totalmente, per due motivi: innanzitutto ci sono alcuni casi di valori scollati, che cioè performano bene in un dato e non nel fratello minore e viceversa; e poi perché i dati migliori sono quelli che figurano in tutte e quattro le graduatorie, permettendo così di distinguere fra un buon dato isolato (esempio, per numero di top player sconfitti Michael Stich nel 1991 risulta essere il migliore, ma non avendo altri grossi exploit non arriva fra i primi dieci).

Anche dei bonus erano stati presi in considerazione, per Slam o altri tornei su erba vinti nella medesima stagione, ma si è deciso di escluderli per privilegiare la prestazione nel torneo singolo. Inoltre, c’è un ultimo vantaggio dell’avere due categorie paronomastiche, vale a dire la possibilità di utilizzare i valori dell’una per risolvere i parimeriti dell’altra – in parole povere, a parità di set persi arriva davanti chi ha perso meno giochi e viceversa.

Finito il panegirico, di seguito potete vedere la Top 10 dei migliori performer di Wimbledon in base a questi quattro parametri arbitrari, con un chiaro vincitore:

10. Novak Djokovic, 2015

Novak Djokovic – Wimbledon 2015

Score: 48 punti. N.23 per set persi, N.2 per ranking medio degli avversari, N.5 per top players battuti.

Nel bel mezzo della sua stagione più dominante (anche se forse il Djokovic della prima metà del 2011 aveva uno strapotere superiore da fondo, perché appiattiva molto più naturalmente con il dritto), questa performance di Nole è al secondo posto per ranking medio degli avversari, curiosamente alle spalle di quella dell’anno precedente, che però rimane fuori dal gotha.

La finale contro Federer fu la meno bella delle tre (non per demerito, le altre due sono fra gli azimut del gioco e probabilmente dell’umanità), e forse anche la meno giustificabile da parte del pubblico britannico, partigiano ai limiti della decenza e forse anche un po’ oltre, soprattutto nel tie-break del secondo. Al di là di questo, il percorso di Djokovic si ricorda soprattutto per la due giorni contro Kevin Anderson con annessa rimonta fra buio e pioggia, e per essere stata l’inizio del Grande Slam sghembo che sembrò segnare la fine della sua traiettoria, a cui però mancava la discesa agli inferi per qualificarsi come vera e propria epopea. Missione compiuta, verrebbe da dire.

9. Roger Federer, 2003

Federer e Philippoussis, Wimbledon 2003

Score: 48 punti. N.9 per game persi, N.8 per set persi, N.13 per ranking medio degli avversari.

Cosmogonia. La prima vittoria di Federer fu un evento particolare, perché scaldò il cuore di tanti boomer disillusi dalla finale fondista dell’anno precedente (Hewitt-Nalbandian), e al contempo consacrò un ragazzo la cui temperanza nei grandi tornei era stata messa in dubbio da più parti – per molti fu una riedizione del celebre “se questo ragazzo non vince Wimbledon entro cinque anni smetto di scrivere di tennis” di tommasiana memoria (lui si riferiva a Stefan Edberg), visto che lo svizzero aveva portato a casa il trofeo juniores nel 1998.

Quella finale con Philippoussis non è granché discussa oggi, perché sembra quasi che il quindicennio successivo fosse già scritto, ma non è assolutamente così, visto che la continuità non sembrava essere la qualità migliore del virgulto. L’unica cosa certa è che il suo tennis sia stato immediatamente adottato dal pubblico, inizialmente preso da un talento da imbottigliare nella sua effimerità. Qualche mese dopo, a Houston, si iniziò a intuire che le coincidenze erano solo apparenti, e il resto lo conosciamo.

Piccolo caveat: questa è l’unica circostanza in cui il tempo passato in campo è stato un fattore per determinare il piazzamento finale (960 minuti per Nole, 745 per Roger).

8. Bjorn Borg, 1976

Bjorn Borg – Wimbledon 1976

Score: 53 punti. N.3 per game persi, N.1 per set persi, N.21 per top players battuti.

Sebbene il successo più famoso dell’Orso sia l’ultimo, per via della leggendaria finale con McEnroe, il più enfatico fu senza dubbio il primo, caratterizzato come una grande sorpresa, sia perché Borg era considerato uno specialista, nonostante sulle superfici più rapide qualcosa avesse combinato (aveva vinto Wimbledon Juniores nel 1973 e raggiunto tre finali consecutive alle WCT Finals più una al Master del 1975, peraltro persa male contro il suo avversario a Wimbledon, Ilie Nastase), sia per il modo in cui zittì gli scettici, diventando il primo uomo a vincere i Championships senza perdere set durante l’Era Open.

Il novero degli scalpi è tutt’altro che disprezzabile, visto che negli ultimi quattro match gli si pararono davanti Brian Gottfried, Guillermo Vilas (non un erbivoro ma vincitore dell’unico Master giocato sulla superficie e di due Australian Open verdi ancorché farlocchi), Roscoe Tanner, e il sopracitato Ilie Nastase, suo vero e proprio antipode sul campo – fuori nemmeno così tanto, almeno post-ritiro.

Le vittorie di Bjorn a Wimbledon, però, furono soprattutto degli eventi culturali, in quanto forieri della novella Beatle-mania ribatezzata “strawberries and screams” (laddove gli strilli provenivano da adolescenti in preda a tempeste ormonali da arca di Noè, fondamentali per rendere il tennis lo sport di massa che è oggi), ma anche degli eventi tecnici, perché le vittorie sue e di Connors mostrarono un modo nuovo di adattarsi al tennis su erba, un modo che esaltava il fulgore balistico dei loro passanti bimani.

6 (ex-aequo). Boris Becker, 1986

Score: 59 punti. N.13 per game persi, N.14 per set persi, N.9 per ranking medio degli avversari, N.9 per top players battuti.

A proposito di giovani sorprese. Boris Becker aveva scioccato il mondo nel 1985, vincendo Wimbledon a neanche 18 anni (più giovane campione Slam fino all’avvento di Michael Chang quattro anni dopo), ma nessuno si aspettava che potesse ripetersi.

E invece il teutonico non solo si impose di nuovo, ma lo fece con insindacabile autorità, mettendo in fila nell’ordine Mecir, Leconte e il miglior Lendl di sempre, di fatto cementificando il proprio status di “padrone di casa” su Centre Court, consolidato attraverso la trilogia (quasi tetralogia) con Edberg e rimesso solamente in seguito alla sconfitta nella finale del 1995 contro Sampras.

6 (ex-aequo). John McEnroe, 1984

John McEnroe a Wimbledon nel 1980

Score: 59 punti. N.1 per game persi, N.3 per set persi, N.15 per ranking medio degli avversari.

Mac non poteva mancare, e la sua voce poteva solo essere legata alla stagione più dominante della carriera, e forse di sempre. Assimilata la botta tremenda di Parigi, dove un microfono e i lob di Lendl stralciarono una conclusione già scritta, Genius veleggiò per il Queen’s senza perdere set, e per poco non concesse il bis la settimana dopo, quando perse un tie-break al primo turno per poi concedere 48 giochi nei 19 set successivi – una notte d’amore fra una macchina perfetta e il più dionisiaco dei tennisti.

Wimbledon ’84 è ricordato con particolare piacere dallo statunitense, un po’ perché arrivò la quasi pleonastica doppietta singolare-doppio (casualmente lui e Fleming batterono in finale Paul McNamee, lo stesso che gli aveva tolto all’inizio della quindicinale), un po’ perché non gli sono mai interessate le partite leggendarie, almeno non quanto la perfezione del gioco.

McEnroe era talmente superomistico nel suo approccio al tennis (e ne aveva ben donde) da ritenere che se avesse giocato al massimo del proprio potenziale non ci sarebbe stata storia con nessuno, ed è precisamente ciò che dimostrò in finale contro Jimbo Connors, che due anni prima gli aveva soffiato il titolo dopo che era stato a due punti dal match: 6-1 6-1 6-2 con tre (tre) errori non forzati. Epica? E chi ne ha bisogno?

A pagina due, i cinque migliori successi della storia di Wimbledon

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