Ha vinto dominando il primo titolo della carriera in Kentucky e, ciò che è più importante, lasciando una sensazione ben precisa nell’ambiente: in ciò che resta della problematica stagione duemilaventi, per non parlare di quelle a venire, bisognerà fare conti sempre più complessi con lei. Jennifer Brady a venticinque anni sembra aver trovato la propria dimensione dopo lunga ricerca, e l’intervista rilasciata al Podcast WTA Insider ne definisce i contorni.
“Sapevo di avere alcune armi buone, altre ottime, specie il servizio e il dritto sono sempre stati di alto livello, e allora mi sono posta una domanda, se volete banale, ma pur sempre una domanda: come mai da qualche anno galleggio ai margini delle prime sessanta?“. La risposta non era delle più semplici da accettare, nemmeno per una persona mite ed empatica come lei. “Mancava resistenza, lavoro, allenamento. La battuta e il primo colpo successivo erano soddisfacenti, ma vedete le mie colleghe là fuori? Sono in grado di correre per interi scambi, interi game, interi set. Possono ribattere per ore ed ore, mentre io mi sfiancavo molto più velocemente“.
La soluzione della spinosa faccenda non prevedeva miracoli, ma ore in palestra e magari una svolta nel team. Ingaggiati l’ex coach di Julia Goerges Michael Geserer e il preparatore atletico Daniel Pohl, Jennifer si è rimboccata le maniche e si è sottoposta a sessioni che eufemisticamente definiremo intense, staccando per giunta il cordone ombelicale al fine di esacerbare un’idea di allenamento che verrebbe da definire quasi ascetica. “Ho trascorso la off-season da Michael a Regensburg (Ratisbona, città extracircondariale della Baviera, NdR), ed è stata una scelta che ha fatto discutere perché molto raramente una giocatrice statunitense decide di impostare la preparazione in Europa. L’ho fatto per uscire dalla mia zona di comfort, in un certo senso per stravolgere le mie abitudini di una vita. Adoro stare a casa, circondata da posti e persone che conosco bene: andare in Germania ha anche significato prescindere dalle certezze per entrare in una dimensione fatta esclusivamente di lavoro“.
Ha funzionato: prima del lockdown i risultati erano già stati entusiasmanti, con i quarti a Brisbane raggiunti battendo Maria Sharapova e Ashleigh Barty seguiti dalla prima semifinale Premier guadagnata a Dubai con scalpi di Elina Svitolina e Garbine Muguruza. “Quando si è fermato tutto ho deciso di continuare a camminare sul sentiero virtuoso: mi sono costruita una piccola palestra in garage e ho continuato a eseguire gli ordini che mi ero imposta. Sono rientrata nel tour sapendo di stare bene, ma non potevo essere sicura di ciò che sarebbe successo al primo torneo vero, com’è ovvio“. Insieme al primo titolo in carriera nel Tour maggiore sono arrivati il best ranking alla posizione 40 WTA e la certezza di ottenere una testa di serie all’Open di New York, viste le numerose assenze nelle zone d’alta classifica.
L’allenamento, i chilometri nelle gambe, certo, tutto ciò che si vuole. Ma l’archibugio posto all’inizio dello scambio, quello Brady se lo porta da casa, ed è ancora ben oliato. Nel corso dei cinque match vinti – tutti in due set – per raggiungere l’alloro di Lexington, Jennifer ha conservato il servizio quaranta volte su quarantatré turni in battuta, vale a dire il 93% delle volte: una percentuale che la colloca al quattordicesimo posto all-time nella speciale classifica che elenca le vincitrici di torneo meno inclini al break subìto nella storia.
Al prossimo US Open le aspettative su di lei saranno più alte e non di poco, anche se per Jennifer a New York andrà in scena solo “un’altra buona opportunità per competere“. Ma il servizio è roba grossa, e se gli allenamenti da soldato continueranno a pagare dividendi…