Del rifiuto di Naomi Osaka e dell'importanza di avere una buona reputazione

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Del rifiuto di Naomi Osaka e dell’importanza di avere una buona reputazione

Naomi Osaka ha scelto di non giocare la semifinale contro Mertens, aderendo al boicottaggio nato negli ambienti NBA a favore del movimento Black Lives Matter. La WTA, che ‘pesa’ meno di lei, ha dovuto inseguirla

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Naomi Osaka - Australian Open 2019 (foto Roberto Dell'Olivo)
 

Tanto tuonò che piovve‘, leggenda vuole abbia detto Socrate a mezza bocca dopo essere stato colpito da un gavettone di sua moglie Santippe, che intese chiudere così un furioso litigio. Il modo di dire è poi diventato di uso comune per indicare il verificarsi di un evento ormai inevitabile, o quantomeno largamente previsto. Così anche il tennis è stato travolto dalle conseguenze del Black Lives Matter, nello specifico dalle proteste conseguenti al ferimento di Jacob Blake, un uomo di colore di 29 anni colpito sette volte dall’arma di un poliziotto a Ketosha, in Wisconsin, domenica 23 agosto.

Il trait d’union è stata la presa di posizione di Naomi Osaka, che qualche ora dopo aver faticosamente conquistato un posto in semifinale al Western&Southern Open ha pubblicato un breve comunicato a mezzo Twitter per annunciare la sua intenzione di non scendere in campo contro Elise Mertens, quest’oggi. In qualche modo costretti dalle circostanze, ATP e WTA si sono allineati alla scelta della giapponese rinviando di un giorno semifinali e finali del torneo che si sta disputando a New York.

Sulle conseguenze del gesto di Osaka non c’è ancora chiarezza. Qualcuno sostiene di aver ricevuto conferme dalla WTA circa la sua intenzione di scendere in campo venerdì, mentre il giornalista del New York Times Ben Rothenberg riferisce, per il tramite dell’agente di Osaka (Stuart Duguid), che dietro il comunicato dell’ex numero uno del mondo ci sia l’intenzione di ritirarsi dal torneo. La sensazione generale, confermata da alcuni nostri colleghi negli Stati Uniti e da alcune fonti vicine al suo entourage, è che Naomi sarà in campo venerdì.

LEGHE E SQUADRE AL FIANCO DEGLI ATLETI – Come spesso accade quando si incrociano sport e proteste in favore dei diritti civili, la scintilla è scattata in una lega statunitense – nello specifico in NBA, un campionato composto per il 75% da atleti di colore che dunque sono particolarmente sensibili al tema delle violenze contro i cittadini afroamericani.

A pochi minuti dall’inizio del match tra Milwaukee Bucks e Orlando Magic, la quinta gara del primo turno dei playoff di questa stagione, i giocatori di Milwaukee hanno fatto sapere di non essere intenzionati a scendere in campo (con una vittoria avrebbero ottenuto il passaggio al turno successivo). La franchigia del Wisconsin ha immediatamente assecondato la scelta dei giocatori, diramando un comunicato di pieno supporto, e gli Orlando Magic non hanno accettato di vincere per forfait, passando di fatto la palla alla lega. In appena 70 minuti è arrivato anche il comunicato dell’NBA, che ha rinviato sia la sfida tra Milwaukee e Orlando che gli altri due incontri in programma mercoledì 26 agosto (sarebbe dovuto scendere in campo anche Lebron James), legittimando dunque la presa di posizione dei giocatori.

Non stupiscono né la piena comunione d’intenti tra giocatori, squadre e vertici della lega né il fatto che la protesta sia germogliata tra i giocatori di Milwaukee, una città che dista appena 40 miglia dal luogo del ferimento di Jacob Blake. Secondo ESPN, i ‘Bucks’ avrebbero in qualche modo concordato la scelta del boicottaggio con il procuratore generale e il vice-governatore del Wisconsin, a testimonianza dell’impatto sociale e politico costituito dall’universo NBA – e di conseguenza dalla presa di posizione di alcuni giocatori – sull’opinione pubblica statunitense.

Un impatto sicuramente più grande di quello che è in grado di ottenere il tennis, la cui forza è costituita più dal valore mediatico dei singoli giocatori che dal ‘peso’ della sigla – tutti gli appassionati di sport (e non solo) conoscono e riconoscono l’NBA come marchio, mentre ATP e WTA possono contare su una diffusione assai meno capillare. Per questo per bloccare il tennis è stato necessario il traino di Naomi Osaka, che negli ultimi mesi ha aggiunto al suo curriculum l’incarico di ‘role model‘ a quelli di tennista di vertice e sportiva più pagata del mondo, prendendo una netta posizione a favore delle proteste del Black Lives Matter – e addirittura partecipandovi di persona a Minneapolis. Chiaramente, l’altra condizione che ha contribuito a innescare il boicottaggio di Osaka è la sede di disputa del torneo: se il circuito si fosse trovato in Europa, probabilmente le cose sarebbero andate in modo diverso.

Naomi Osaka – Australian Open 2020 (via Twitter, @AustralianOpen)

IL SIGNIFICATO DEL GESTO – Veniamo al dunque, la scelta di Naomi Osaka. Spontanea o in qualche modo indotta dalle responsabilità connaturate alla sua figura? Legittima o antisportiva? Giusta o sbagliata? Di sicuro agli sponsor che s’accalcano sull’abito di scena di Naomi (da Nike a Nissin Foods, passando per Shiseido e Mastercard) non dispiace che il mondo stia parlando di lei in questi termini, ma ugualmente il dibattito sulla genuinità della scelta rischia di essere fin troppo speculativo. Possiamo però dire che la scelta non è da definirsi illegittima, poiché Osaka ha attuato un suo diritto esponendosi al rischio del walkover – probabilmente scongiurato dal rinvio della partita, se come sembra scenderà in campo – mentre scomodare la dicotomia giusto/sbagliato appare fuori luogo nel contesto di una scelta che dobbiamo assumere come soggettiva e personale.

Una cosa possiamo osservare, in conclusione. In un’epoca di giudizio collettivo compulsivo, dove tutte le azioni dei personaggi pubblici vengono analizzate al microscopio, è assai complicato ottenere un patentino di spontaneità – ci sarà sempre qualcuno pronto a cercare col lanternino un secondo fine in quello che scegli di dire o fare. Se però esiste una cerchia ristretta di personaggi pubblici con un’immagine abbastanza candida da riuscire a conquistare il favore della maggioranza, di questa cerchia fa oggi sicuramente parte Naomi Osaka. Per rendersene conto basta ipotizzare uno scenario semplice: se al posto della giapponese ci fossero stati Novak Djokovic o Serena Williams, quanti avrebbero creduto di trovarsi di fronte a una scelta ‘di convenienza’? Probabilmente più di quelli che hanno fatto lo stesso pensiero sul conto di Naomi, i cui detrattori sono una sparuta minoranza al cospetto di una gran folla che l’apprezza per quello che fa in campo e soprattutto fuori. Nole e Serena, a fronte di tantissimi tifosi, hanno però qualche hater in più.

Volendo fare (forse inutilmente) le pulci al ‘rifiuto’ di Osaka, si potrebbe assumere che lo ha fatto a basso rischio. Era tutto sommato prevedibile che la WTA avrebbe fatto il possibile per garantire la regolarità del torneo e dare in pasto alle televisioni le quattro semifinali ‘pattuite’. Anche ipotizzando un comportamento intransigente della WTA, però, cosa avrebbe potuto perdere Osaka a parte la possibilità di guadagnare qualche migliaia di dollari e vincere un trofeo importante, sì, ma che non è uno Slam? Una sorta di win-win, per la tennista giapponese.

A scanso di equivoci, chi scrive nutre una grande simpatia nei confronti di Naomi Osaka, e se dovesse scommettere il famoso euro bucato lo farebbe sulla completa spontaneità della scelta. Però non si può fare a meno di ricordare quel vecchio proverbio: “Fatti un buon nome e piscia a letto: ti diranno che hai sudato“.

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