Hiroshima 75 anni dopo: la mattina che ha cambiato il mondo

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Hiroshima 75 anni dopo: la mattina che ha cambiato il mondo

Bill Simons di Inside Tennis ha condiviso con i lettori il ricordo della sua visita (avvenuta nel 2000) alla città giapponese su cui l’Enola Gay sganciò la prima delle due bombe atomiche, ribattezzata “Little Boy”, il 6 agosto del 1945. Non è un articolo tennistico, ma ci sembrava significativo al punto da doverlo riproporre in italiano

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Oggi vogliamo fare una piccola pausa dal tennis per presentarvi un articolo scritto da Bill Simons sul blog Inside Tennis, del quale vi abbiamo già proposto in passato altre traduzioni. Trovate qui il link all’articolo originale: l’argomento è piuttosto triste, purtroppo, ma ci è sembrato doveroso riproporre il ricordo di uno dei giorni più tragici del secolo scorso


Tre giorni dopo la fine dello US Open del 2000, mi chiamò la Yonex, nota azienda di racchette. Volevano che andassi in Giappone per intervistare Monica Seles ed essere il primo giornalista a visitare il loro stabilimento. Andando in Giappone, mi sentivo in dovere di visitare uno dei posti più importanti al mondo. In occasione del 75° anniversario dello sganciamento della bomba atomica (avvenuto il 6 agosto 1945, ndr), vorrei condividere ciò che ho potuto vedere durante la mia difficile visita ad Hiroshima. Questo è il mio ricordo.

Era una mattina come le altre – tepore estivo e cielo limpido – quando Kimoke Uedo alzò lo sguardo. Le sirene degli allarmi antiaereo erano suonate come sempre alle 7:31 del mattino, eppure qualcosa non andava. Ben presto sentì il suono di un bombardiere B-29 americano. Guardò il cielo mentre esplodeva in un terrore rosso e arancio. Un boato che vibrò nell’aria, feroce e spaventoso; un calore bruciante le strappò la pelle, corrodendole la carne.

Quel momento ha cambiato la sua vita e il destino del nostro mondo. La morte e la disperazione erano state sempre un punto fermo nella storia dell’uomo, ma mai prima del 6 agosto 1945 lo sterminio di massa era stato scatenato in così pochi secondi. Più di 200.000 persone sarebbero morte; innumerevoli bambini non ancora nati avrebbero subito danni permanenti; una città fu rasa al suolo, uno sciagurato conflitto terminò. E con tutto questo, alle 8:15 di una calda mattinata, la nostra innocenza andò perduta – per sempre.

Un patto faustiano era stato siglato: il genio di Einstein aveva portato all’orrore di Hiroshima e il demone atomico poteva danzare allegramente. Avevamo vinto la guerra – alleluia! Ma l’ombra dell’autodistruzione, allora e per sempre, ci avrebbe seguiti.

Così iniziò il dibattito: saggi, filosofi e soldati presero a porre domande scomode. Quali erano le opzioni del presidente Truman? Perché non sganciare la bomba su un bersaglio meno popolato? Le armi nucleari dovevano necessariamente suscitare un orrore inevitabile? A chi dare la colpa? E, peggio ancora, se in realtà non ci fosse stato nessuno da biasimare? Rimangono tuttora domande inquietanti.

Allo stesso modo, anche Hiroshima rimane. Ricostruita con vigore e coraggio, oggi è la classica città portuale straordinariamente ordinaria, tutta navi e negozi. Un adolescente annoiata legge l’oroscopo, e spopola Toys ”R” Us [catena americana di giocattoli, ndr]. D’altro canto, però, nulla è ordinario in questa città. Mentre il mio treno si avvicina, un tramonto arancione divampa, ma la bellezza è illusoria. Il pensiero va inevitabilmente al cielo 55 anni fa, altresì arancione ma per ragioni diverse. Passo la prima notte nel bar dell’albergo, dove un anonimo cantante intona melodie familiari. Ma qui il più classico degli “It’s a Wonderful World” stona parecchio.

Similmente, la distesa erbosa dove i due fiumi di Hiroshima si incontrano può sembrare un parco cittadino come tanti. Ragazze in berretti rossi inseguono i piccioni mentre gli adolescenti si allenano e i senzatetto sonnecchiano sulle panchine. Da un vicino stadio da baseball giunge l’incessante, invadente chiasso di tamburi e trombette. In questa stagione, l’amatissima squadra locale degli Hiroshima Carp sta stentando, trovandosi a 14 partite di distanza dalla vetta della Japanese Central League. Ciononostante, le casse dello stadio insistono con il loro “We will, we will, rock you!”. Gli scampoli di vita ordinaria finiscono grossomodo qui

L’Hiroshima Memorial Peace Park è un luogo senza tempo. Una rievocazione quasi sacra, apparentemente immortale, che mostra ciò che non deve essere dimenticato: l’impatto raccapricciante, quasi impensabile, delle armi atomiche. Allo stesso tempo, il parco incarna un sommesso, elegante e coraggioso richiamo alla pace; una sorta di Ground Zero per coloro che sperano di liberare il pianeta dagli armamenti nucleari.

Ed ecco che posso osservare i pellegrini della pace giunti sul luogo, in sella a vecchie e malmesse bici nere o scesi da splendenti bus turistici: scorgo una suora belga, una coppia di bruschi australiani, un’ingenua insegnante di Miami che tiene in mano degli origami di pace che i suoi studenti hanno accuratamente modellato. E, naturalmente, intere generazioni di giapponesi che arrivano in un solenne silenzio. Toccati dal cordoglio, entrano nel museo; volti tristi, lacrime che scorrono – “Com’è potuto accadere?” è la domanda inespressa.

Il museo descrive nel dettaglio l’orribile realtà. Hiroshima è stata a lungo una base strategica per un brutale impero espansionistico, una rampa di lancio per le campagne di morte del Giappone: dalla Siberia alla Birmania, dalla Manciuria alla Corea e al Guadalcanal. Estendendosi su una pianura circondata da montagne, Hiroshima non era stata bombardata durante la guerra. La città militare era un bersaglio perfetto.

E quando l’orrore colpì, l’oscurità scese. Il crepitio delle fiamme mise a tacere tutte le richieste di aiuto. Gli orologi si fermarono, gli aghi dei sarti furono piegati, le mattonelle spezzate, i vestiti a brandelli, le vite distrutte. In una fabbrica di latta un uomo venne schiacciato a morte da dei libri. Migliaia di persone fuggirono, intasando i fiumi. Per giorni, i bambini vagarono senza meta né scopo in un deserto atomico carbonizzato. Pochi andarono ad aiutare – quelli che lo fecero subirono l’esposizione alle radiazioni.

Al museo, un uomo di nome Bill Hayden, da Salem, Oregon, ha notato tristemente: Questo posto ti aiuta e vedere le cose sotto la giusta prospettiva. Ieri sono rimasto bloccato in treno per quattro ore in un tunnel buio a causa di un terremoto. Ho pensato che stesse andando tutto male; ora il mio punto di vista è sicuramente diverso”. Denise Chapman, un’insegnante di Beaverbrook, Ohio, ha parlato di vergogna. “Ero così imbarazzata. Volevo scusarmi con tutti i presenti. Ma come avrei potuto? Forse prima o poi troverò un modo per farlo”.

Fuori dal museo, molti suonano il campanello della pace, o posizionano origami su un monumento in onore di Sadako Sasaki, un’eroina paragonabile ad Anna Frank che piegò 640 gru di carta nella futile convinzione che l’avrebbero aiutata a guarire dalla leucemia che aveva contratto – la statua commemora tutti i bambini morti a causa dell’ordigno atomico.

In una sorta di trance, i visitatori arrivano ad una delle vedute più suggestive al mondo. Da una semplice tomba commemorativa a forma di tradizionale casa sepolcrale giapponese in argilla (sotto la quale sono presenti i resti di 70.000 vittime), l’occhio si focalizza sulla fiamma della pace che arderà fino a quando le armi nucleari non saranno bandite. Infine, oltre l’orizzonte, si scorge l’inquietante costruzione del vecchio edificio per la promozione industriale di Hiroshima. Un tempo considerata una delle strutture d’avanguardia della città, oggi è una cornice scheletrica e spettrale circondata da cumuli di macerie che evocano un orrore indicibile.

Un viaggio al Memorial Peace Park è rivelatorio, scoraggiante, estenuante. In qualche modo è anche un’epifania di rinascita – una testimonianza del potere della natura, delle profondità del male, e del nostro feroce istinto di sopravvivenza e rinnovamento. Toccato profondamente dall’esperienza, suono il campanello della pace e penso alla mia famiglia e alla grande famiglia che è l’umanità, e penso a Kimoke Uedo, che vide il fuoco nel cielo di una calda mattina d’estate.

Traduzione a cura di Marco Tidu

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