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L’ex-CEO ATP Kermode: “Non credo che la PTPA di Djokovic avrà grande impatto”
Chris Kermode a ruota libera: dai risultati ottenuti al comando dell’ATP alla fusione con la WTA, dall’ATP Cup al ruolo della TIU. E poi garantisce: “il torneo di Montecarlo si disputerà al 100%”

L’accantonamento di Chris Kermode da parte del Board ATP dopo sette anni alla guida dell’associazione è stato uno degli eventi più sorprendenti di inizio 2019 nel mondo del tennis, soprattutto considerando il suo ruolino di marcia tutto sommato piuttosto positivo. E quando il nuovo leader Andrea Gaudenzi si è trovato dopo sole poche settimane a gestire la più grande crisi che lo sport abbia mai affrontato nella sua storia, tanti hanno pensato che forse per Kermode il mancato rinnovo del contratto è stata più una benedizione che altro.
Ora che questo incredibile 2020 sta volgendo al termine, il podcast anglofono “The Tennis Podcast” è andato a raccogliere le impressioni di Kermode su questa annata e sul tennis che sarà.
“È stato un onore guidare l’ATP – ha esordito l’ex CEO dell’ATP al microfono di David Law, capo ufficio stampa di quel torneo del Queen’s, del quale proprio Kermode è stato il direttore fino al 2013 – ci sono stati momenti molto stressanti, ma è stato bello aver avuto l’opportunità di guidare uno sport mondiale”.
“I numeri sono molto buoni e ne sono orgoglioso, il fatturato è cresciuto da 97 milioni di dollari nel 2013 fino a 150 milioni nel 2018, il prize money è salito del da 85 a 135 milioni [nello stesso periodo], e il numero dei giocatori che hanno guadagnato più di un milione di dollari è aumentato del 90%”.
“La crescita vera è stata però quella dei guadagni per i giocatori tra il n. 50 e il 100, cresciuti del 69%, e quella per i tennisti tra il n. 150 e 200, aumentati del 65%. Quindi c’è stata una redistribuzione di denaro ai giocatori di classifica più bassa, oltre a un aumento del 60% del fondo pensione”.
Perché te ne sei andato?
“Il ruolo che avevo era molto politico. Credo molto nell’ATP, penso che come organizzazione funzioni. È uno dei pochi sporti nei quali i giocatori e i tornei hanno una voce nel loro sport, quotidianamente. Negli sport americani ci sono i “Collective Bargaining Agreement” [gli accordi collettivi n.d.r.], ci si ritrova e si litiga una volta ogni tanto e poi non ci si parla più per anni.
Le decisioni prese per il 98% sono state all’unanimità. Poi altre volte mi sono trovato in mezzo tra i tornei e i giocatori, ma fa parte del ruolo. Ci sono stati 350 voti durante la mia presidenza, e solo 8 hanno avuto bisogno del mio voto decisivo. Sette su otto sono stati decisi a vantaggio dei giocatori. Sono stato il primo CEO a decidere per l’aumento del prize money, il più grande nella storia del Tour.
Se c’è una debolezza nel sistema è che ogni tanto la politica prende il sopravvento sulla volontà di migliorare il gioco. Credo che la struttura funzioni, quindi si tratta di trovare le persone giuste per far crescere lo sport”.
Se fossi stato confermato, cosa avresti voluto fare nel ciclo successivo?
“Avrei voluto trovare la formula giusta per il prize money. Siamo riusciti a trovare la quadratura del cerchio per i 500, avrei voluto trovare lo stesso equilibrio nei 250 e nei 1000. Credo che comunque questo equilibrio arriverà, rendendo il business più facile da guidare.
Eravamo nelle fasi iniziali delle NextGen Finals, siamo uno dei pochi sport che guarda in maniera seria ai giovani e ai possibili cambiamenti del gioco. Sapevamo che non tutto quello che era stato sperimentato in quella manifestazione sarebbe poi stato ratificato nel tennis dell’ATP Tour, ma almeno ci siamo posti le domande.
Ho lanciato la ATP Cup: i giocatori volevano nuovi eventi, e la ATP Cup ha portato 15 milioni ai giocatori. E inoltre era un modo per aprire in maniera giusta il calendario. Guardando gli ascolti televisivi, i numeri cominciavano a salire solo a partire da Indian Wells, e dovevamo trovare un modo per iniziare con un bang per poter trascinare l’interesse in gennaio e febbraio. L’ATP Cup è entrata in questa ottica”.
Avevi detto che sarebbe stato folle avere Coppa Davis e ATP Cup nel giro di 6 settimane?
“Sono ancora dello stesso avviso. Ma in ogni sport quando si fanno grandi cambiamenti si vanno a disturbare equilibri che porteranno alcuni a difendere il proprio territorio. Di solito però, dopo alcuni anni si trova un accordo e si arriva a stabilire un nuovo equilibrio. È un po’ come una Brexit in miniatura. Sono sicuro che prima o poi la situazione cambierà, non so come, ma credo che nel giro di qualche anno si troverà una soluzione. Credo davvero che l’evento si debba giocare all’inizio dell’anno, perché i giocatori sono freschi e non ci sono effetti collaterali sugli altri eventi. Metterlo in mezzo al calendario è inevitabile che vada a cozzare con qualche altro torneo, e alla fine della stagione i giocatori sono troppo stanchi e si va a ridurre il periodo di off-season.
Abbiamo parlato per diversi anni con Gerard Piquè, volevamo lavorare insieme e quando non abbiamo trovato un accordo lui è andato all’ITF. Avere la “coppa del mondo” alla fine della stagione nel tennis non funziona con tutto quello che viene disputato durante la stagione”.
Cosa avresti fatto durante la pandemia come CEO dell’ATP?
“Non ci ho pensato in realtà. Mi dispiace molto per Andrea Gaudenzi, è sicuramente un anno molto difficile da affrontare all’inizio del mandato. In un periodo come questo bisogna mantenere la prospettiva giusta e considerare che stiamo parlando di tennis, che ha un’importanza relativa nell’ordine generale delle cose. Bisogna resistere, si vede la luce in fondo al tunnel, i primi sei mesi del 2021 saranno molto duri, ma credo che lo sport ne uscirà. Quando i tempi sono duri, è più facile fare cambiamenti più radicali; è invece più difficile farlo quando le cose vanno bene. Credo che ci saranno ottimi risultati dal punto di vista della coordinazione nello sport”.
Credi che sia realistico poter trovare maggiore comunità d’intenti all’interno dello sport? Volevi fare un evento combined, che non si è verificato, come credi sia possibile che tutti riescano a lavorare insieme?
“Se c’è un momento in cui può accadere, è questo. Per motivi economici si troverà la maniera di collaborare”.
In febbraio Federer ha lanciato l’idea di una fusione tra ATP e WTA. Subito c’è stato parecchio supporto. Ma è realistico?
“Si tratta di situazioni molto complesse, che devono superare la storia delle varie organizzazioni. Si partirà con una collaborazione molto più stretta, e da lì si svilupperanno le cose”.
Se potessi creare un calendario da zero cosa faresti?
“Molto facile a dirsi, non a farsi. Sicuramente ognuno ha il suo punto di vista. In questo momento si tratta di adattarsi alla situazione, non di creare un nuovo calendario. Per entrambi i tour la cosa più difficile è la globalità del tennis, che lo pone i tornei alla mercè di una serie di governi. Tutt’altro che semplice”.
Quindi tu pensi che l’ATP Tour sia la struttura migliore per governare il tennis. Cosa hai pensato quando hai visto le foto di New York con i giocatori sul campo a formare la PTPA?
“Non è la prima volta che succede. A volte capita che i giocatori vogliono una cosa, ma il Board non l’approva quindi non riescono a far succedere ciò che desiderano. Per il momento dobbiamo osservare cosa accade con la PTPA, personalmente non credo che questa iniziativa alla fine avrà un grande impatto, ma si tratta di un messaggio che deve essere ascoltato”.
Quindi non credi che i giocatori abbiano bisogno di una loro voce?
“Ce l’hanno, ci sono i membri del Board, sono rappresentati in maniera appropriata. Il problema è che i bisogni del n.1 del mondo sono diversi da quelli del n. 2000, e queste due cose sono difficili da conciliare. Ma anche dalla parte dei tornei esiste questa differenza, i 1000 hanno bisogni diversi dai 250”.
Quindi non credi che il n.1 del mondo Djokovic stia perseguendo questa iniziativa per aiutare i giocatori di classifica più bassa?
“Non so quali siano le intenzioni di Djokovic, non posso giudicare. Credo si debba andare molto cauti a fare delle affermazioni di carattere generale che magari sono suggerite da gente che non ha nulla a che vedere con il tennis. Mentre ero CEO una delle cose che leggevo spesso era che stessimo dedicando troppe energie ai giocatori di classifica più bassa. I numeri suggeriscono che non è vero. Per questi tennisti è sicuramente molto difficile guadagnare abbastanza da potersi mantenere, ma è anche vero che i tornei Challenger non fanno utili, quindi bisogna fare in modo che il sistema sia sostenibile. E questo apre la questione di definire cos’è un “tennista professionista”, a quale livello ciò diventa vero. Bisogna avere un sistema nel quale non sia possibile che un giocatore passi 10-15 anni sul circuito Challenger. I Challenger sono una categoria di passaggio per arrivare sul Tour, non un luogo nel quale passare tutta la carriera”.
Secondo te quale sarebbe il numero ideale di tennisti professionisti da avere?
“Ne ho parlato con talmente tante persone… Il numero minimo è quello dei giocatori che partecipano alle qualificazioni degli Slam, quindi intorno al n.250, per arrivare al massimo fino al n.500. Poi magari ci può essere un altro livello di tour, magari con punti diversi da quelli ATP”.
Ci sono stati casi nei quali alcuni giocatori sono stati accusati di violenza domestica. L’ATP ha passato diverse settimane senza fare alcune dichiarazioni pubbliche in proposito, poi hanno rilasciato una dichiarazione che non ha comunque segnalato la volontà di lanciare un’investigazione interna, come spesso capita invece nelle leghe professionistiche americane.
“Nelle leghe americane ci sono contratti molto precisi tra i giocatori e le leghe. Nel tennis è molto più complicato far rispettare condizioni di questo tipo, in uno sport individuale. Non credo che la PGA abbia norme di questo tipo per esempio. Nel passato si è valutato se gli eventi resi pubblici avessero danneggiato la reputazione del gioco, e in quel caso si poteva intervenire. Magari si potrebbe fare in modo che la Tennis Integrity Unit si occupi anche di queste cose”.
Cosa c’è nel tuo futuro?
“Ora sono presidente della PTO, Professional Triathlon Organization, per cercare di portare il triatlon da sport con un’ampia partecipazione a disciplina con un’esposizione mediatica di più alto livello. Sono poi un consulente esterno del Montecarlo Rolex Masters, quindi sono ancora parte del mondo del tennis”.
Quali sono le ultime notizie per Montecarlo?
“Rimarremo nella nostra data originale, il torneo si disputerà al 100%, dobbiamo solo aspettare le disposizioni del governo francese per sapere quante persone potremmo avere sulle tribune, perché il Monte Carlo Country Club è in Francia. Il problema è che la maggior parte delle strutture deve essere costruita da zero, e quindi bisogna prendere una decisione su cosa costruire durante il mese di gennaio, senza sapere quale potrà essere la situazione dei contagi in aprile. Nella peggiore delle ipotesi il torneo si disputerà a porte chiuse, ma in un modo o nell’altro il torneo si terrà”.
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Tsitsipas ne ha per tutti: “A Indian Wells non volevo giocare”. Le palle utilizzate quest’anno? “Hanno causato il mio infortunio”
“Certe regole ATP ti obbligano a giocare anche col dolore, e a me non piace ritirarmi” così Stefanos Tsitsipas in vista del torneo di Miami. “Qui i campi sono più veloci”

Ne ha per tutti Stefanos Tsitsipas nel primo incontro con la stampa a Miami durante il media day. Il greco infatti, ancora debilitato dall’infortunio alla spalla patito all’Australian Open, si augura di poter finalmente giocare in Florida al 100%. Tsitsipas ha affermato di esser stato spinto a disputare Indian Wells per le regole dell’ATP sui Masters 1000. Ma il tema caldo in conferenza stampa ha riguardato il tipo di palle usate in quest’inizio di stagione 2023, definite pesanti, e che a suo dire hanno causato diversi infortuni – come il suo – in questo inizio di stagione .
“Qual è il mio obiettivo qui a Miami? Giocare senza dolore ed essere in grado di mostrare qualcosa di diverso da quello che ho fatto a Indian Wells. È stato un torneo in cui ho sofferto, non era facile stare in campo, ho sentito come se “dovessi farcela”, ma in realtà non volevo giocare. Ci sono alcune regole dell’ATP che ti obbligano a giocare questi grandi eventi, e io non sono un tipo a cui piace ritirarsi dopo un paio di partite. Spero di poter scendere in campo qua in buone condizioni e divertirmi un po’ di più, senza pensare troppo al mio braccio.
A Indian Wells ero infortunato, per fortuna ora mi sento meglio. Quando giochi con il dolore al braccio non ti diverti affatto, cerchi solo di sopravvivere e andare avanti, niente di più. Ti concentri troppo sulle cose interne e non su quelle esterne. La salute è la cosa più importante e quando mi sento bene tutto è al suo posto e tutto funziona. Sono creativo in campo, il mio gioco è vario e sento che nulla può andare storto. Questo è il mio obiettivo per questo torneo, giocare senza dolore e vedere come risponde il mio braccio”.
Tsitsipas ha poi spostato l’attenzione sul tema dei campi di Miami, facendo notare come siano più rapidi e di come il rimbalzo sia diverso rispetto a Indian Wells, soprattutto per le differenti condizioni climatiche: “Questi campi sono un po’ più veloci di quelli di Indian Wells. La scorsa settimana la palla rimbalzava un po’ più in alto ed era più viva. Questi sono fattori che dobbiamo considerare. Qui c’è più umidità e la palla rimbalza un po’ più in basso. Mi piacciono entrambi, devi solo acclimatarti alle diverse condizioni”.
Tsitsipas prosegue la sua arringa lamentandosi del tipo di palle utilizzate quest’anno, a suo dire tema che ha tenuto banco anche tra i giocatori del circuito: “Penso che il problema più grande quest’anno sia stato il cambio delle palle. È stato un argomento che abbiamo discusso tra noi giocatori. Le palle dovrebbero rimanere coerenti nella maggior parte dei tornei, e penso che nei tornei sul cemento questo sia ancora più necessario. Quando così è, ne beneficiano tutti e impedisce ai giocatori di infortunarsi. Ho ricevuto molti commenti negativi da parte di altri giocatori sulle palle di questa prima parte di stagione, tutti pensano che abbiano avuto un impatto significativo sulle spalle, sui polsi… sul braccio, in generale. Credo proprio che anche il mio infortunio derivi da lì“.
A 24 anni, n.3 del ranking ATP, Tsitsipas è nel pieno della propria carriera tennistica. Pur essendo ancora giovane, le nuove leve come Alcaraz e Sinner stanno spingendo per prendersi la scena. Il greco sente questa competizione, ma la vive come un fattore positivo: “La crescita dei ragazzi più giovani? Sono felice per loro. Credo e mi fido della filosofia e del messaggio di Ubuntu: ‘se il resto migliora e tu sei testimone della grandezza intorno a te, io stesso avrò l’opportunità di essere altrettanto grande’. Credo in quel messaggio. Il fatto che stiano facendo grandi cose mi avvantaggia, mi dà una visione più chiara e migliore di come dovrei affrontare il mio tennis”.
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Djokovic alla CNN: “Non ho rimpianti. Alcaraz merita il numero 1”
“Spero di esserci per lo US Open. La finale persa con Medvedev uno dei ricordi più belli a New York”, così il tennista serbo Novak Djokovic parla da Dubai

L’assenza di Novak Djokovic anche dal torneo di Miami ormai è cosa nota, e martedì a Dubai il tennista serbo è stato intervistato da Becky Anderson, reporter della CNN. L’attuale numero 2 del mondo ha affrontato tutti i temi principali di attualità tennistica, compreso il suo status di non vaccinato che al momento gli impedisce di entrare negli Stati Uniti. Infine ha anche aggiunto interessanti osservazioni sulla rivalita con Roger Federer e Rafa Nadal.
Rimpianti sul vaccino
No, non ho affatto dei rimpianti. Ho imparato durante la vita che i rimpianti sono una zavorra, di fatto ti fanno vivere nel passato e io non voglio questo. Non voglio neanche vivere nel futuro, ma cercare di stare il più possibile nel momento presente, e piuttosto cercare di fare qualcosa per migliorare il futuro.
Su Alcaraz e la sua assenza dal Sunshina Double
Voglio congratularmi con Carlos Alcaraz, si merita assolutamente di essere numero uno. È un peccato che non abbia avuto modo di giocare Indian Wells e Miami perché sono due tornei che amo ma allo stesso tempo la mia era una scelta cosciente e sapevo che c’era la possibilità che non sarei andato. Questo è il corrente stato delle cose e spero che cambino per il resto dell’anno così da poter giocare lo US Open, il torneo per me più importante sul suolo americano.
Su un’eventuale partecipazione allo US Open
Sono fiducioso anche se non è nelle mie mani la scelta… bhe anche questo è discutibile perché c’è qualcosa che io potrei fare ma che ho deciso di non fare, e ovviamente se sarò ammesso a giocare la decisione spetta ai piani alti del Governo. A questo punto della mia carriera i tornei dello Slam sono quelli a cui punto di più e che vorrei giocare di più. Vorrei davvero tanto esserci perché ho tanti bei ricordi, e a dir la verità nella finale persa con Medvedev nel 2021 ho avuto forse uno dei momenti più belli col pubblico newyorkese; anche se ho perso quel match ho sentito tanto supporto dal pubblico e vorrei ricreare quella connessione. Non vedo l’ora.
Su Federer e Nadal
Mi hanno reso più forte, sia mentalmente che fisicamente, il mio gioco è migliorato grazie a tutte quelle partite che abbiamo giocato l’uno contro l’altro, soprattutto a causa delle partite che ho perso contro di loro, alcune davvero importanti. A volte ero davvero infastidito di far parte di quell’era’.
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Hantuchova: “Alcaraz di un altro pianeta, attacca come Federer e difende come Nadal”. Cervara: “È il Tyson del tennis”
Tra l’urgenza di paragoni sempre più arditi e statistiche strambe, la sintesi di Roger e Rafa, al secolo Carlos Alcaraz, non ha la risposta di Djokovic, di più: “Lui è la risposta”. Ma a quale domanda?

Il problema fondamentale è rappresentato da quei tre – Roger Federer, Rafael Nadal e Novak Djokovic – e da quell’entità divoratrice di tutto a cui hanno dato vita nota come Big 3. Avercene di problemi del genere, si potrebbe obiettare, solo limitandosi a pensare a quanto hanno fatto per il tennis, aumentandone straordinariamente la popolarità.
Anche non considerando le generazioni di tennisti che prima tecnicamente, poi anche mentalmente, si sono ritrovate quasi senza possibilità di iscrivere il proprio nome sui trofei più importanti (quelli Slam, il cui peso è ancor più aumentato soprattutto nella considerazione dei tifosi proprio per “colpa” loro), pare che ormai nessuno possa tentare di emergere senza che “sì, ma alla sua età Roger serviva meglio, Nole aveva già vinto uno Slam mangiando pizze e Rafa non ne parliamo”.
Insomma, il problema è che quei tre non solo ti senti obbligato a citarli in ogni articolo (arrendendoti agli anacoluti), ma li devi battere sul campo, nei record di precocità, superare in classifica e spesso neanche questo basta perché l’avventato e inopportuno sfidante avrà senza dubbio avuto dalla sua una quantità industriale di circostanze favorevoli. E, come se non bastasse la pressione derivante dall’essere definito il nuovo Nadal/Djokovic/Federer a causa della disperata ricerca di un nuovo campione, allo stesso tempo lo sventurato in questione si sentirà dire con altrettanta veemenza che non vale metà della peggior versione di uno di quei tre. L’importante è che si facciano paragoni, poi tutto è permesso.
Tuttavia, c’è anche chi impara dai propri errori: in Spagna dicevano Munar el nuevo Rafa, dopo di che hanno imparato e quindi, quando Carlos Alcaraz (che entri, finalmente) aveva iniziato a farsi notare, c’era chi lo descriveva come il nuovo Roger. Così va molto meglio, bravi. Arriva però Daniela Hantuchova al alzare l’asticella. Al quotidiano francese l’Équipe, Daniela ha detto che “Carlos viene da un altro pianeta. Ha tutto. Mi sembra che abbia l’aggressività di Roger e la difesa di Rafa. Con la sua velocità e il modo di muoversi, riesce a giocare colpi che non credevamo possibili”.
L’ormai ex Carlitos (nel senso che è cresciuto, che adesso è Carlos o Charlie), avendo ancora un mese e mezzo da passare come teenager, non può evitare che, oltre ai paragoni, gli si cuciano addosso statistiche di precocità anche bizzarre, per esempio quella che lo nomina come più giovane realizzatore della tripletta IW, Miami, Flushing Meadows, impresa peraltro compiuta prima di lui dai soli Sampras, Federer, Djokovic e Agassi. Fantastico. Non è chiarissimo l’accostamento del Double allo US Open, però bello.
Di poco bizzarro c’è la sua vittoria a Indian Wells, dove colui che lo ha messo più in difficoltà è stato Jannik Sinner. Anche Griekspoor, restando aggrappato al proprio servizio, lo aveva trascinato al tie-break nel primo set, ma l’azzurro è riuscito a recuperare il break piazzando un parziale di 11 punti consecutivi e sembrava in grado di effettuare il sorpasso definitivo, anche perché il classe 2003 aveva perso confidenza con i colpi. Con la grafica in sovrimpressione che ratificava l’evidente differenza tra i dritti dei due contendenti (valutazione di 9,1 contro 6,4 a favore di Sinner), Alcaraz ha affrontato il set point contro dopo aver sbagliato proprio due dritti e pure comodi, annullandolo grazie alla smorzata di… dritto. Anche altri avrebbero forse provato il drop shot, probabilmente più alla ricerca di un timoroso asilo conseguente a quegli errori, ma non è il caso di Carlos che padroneggia quella soluzione, fa parte del suo vasto repertorio. Pur rifuggendo (invero senza difficoltà) la tentazione di suggerire chi alla sua età già possedeva un ampio baglio tecnico, resta il fatto che lo spagnolo è riuscito a vincere anche quel primo parziale e, alla fine, il suo percorso nel deserto è rimasto immacolato. Chi era stato l’ultimo a trionafre senza cedere set? Federer nel 2017, anche approfittando di un walkover. Per trovare chi aveva centrato quel risultato disputando almeno sei match, bisogna tornare indietro fino a Nadal nel 2007.
C’è per fortuna chi rimane fuori dal coro. È Gilles Cervara, l’allenatore di Daniil Medvedev, che lascia da parte i mostri sacri, ma solo quelli del tennis. “Alcaraz è il Tyson del tennis” ha… tracimato all’Équipe. “In alcuni momenti è capace di tirare dei ‘diretti’ con la racchetta. Ci sono stati colpi che hanno lasciato Daniil a dieci metri dalla palla, colpiti con potenza e velocità folli”
Difficile dire quanto ci abbia messo Medvedev del suo, ma nelle statistiche relative alla finale appare un numero enorme a dispetto di ciò che rappresenta: 0, come in “zero ace”. Pare che l’insieme “servizi neanche sfiorati dall’avversario” di Daniil non rimanesse privo di elementi dalla sfida contro Gilles Simon a Marsiglia nel febbraio 2020. Dopo una decina di giorni, (non solo) il Tour si sarebbe fermato – così, per dire. Di sicuro c’è che, in ventitré confronti, mai il Big 3 è riuscito in tale impresa contro Daniil, che ha chiuso così il contatore con un turno di anticipo, sfoderando contro Tiafoe l’ace numero 3.299 della carriera.
A proposito di contatori, durante la trasferta californiana Alcaraz ha messo a segno e superato la vittoria ATP numero 100, con un saldo positivo su tutte le superfici: 47-12 sulla terra battuta, 53-18 sul duro e – mettiamoci anche quella nonostante l’abbia appena respirata – 4-2 sull’erba. Con meno di due stagioni complete alle spalle sul Tour, vanta un bilancio indoor di 16-6 (mai aveva giocato al coperto a livello Challenger e ITF), mentre all’aperto si bea di un eloquente 88-26: se tutti sanno giocare bene a tennis in condizioni asettiche, Carlos dimostra con i numeri (oltre che con la finale del BNP Paribas Open) di saper gestire meglio di diversi colleghi il vento e le altre condizioni che si presentano nella maggior parte degli eventi del circuito. Ci affidiamo alla versione spagnola del sito atptour.com per aggiungere che, fra i tennisti in attività con almeno 20 incontri giocati, oltre al nostro protagonista solo in tre hanno un bilancio positivo contro avversari top 10. Ricorrendo a una finta preterizione, diciamo che non c’è bisogno di fare nomi: Djokovic, Nadal, Murray.
Carlos non ha (tecnicamente ancora) vinto il Sunshine Double, ma il trofeo di Indian Wells e quello di Miami sono già nel suo palmares. E – notizia inaspettata? – è il primo a vincerli entrambi da teenager. Per quanto riguarda specificatamente il titolo appena conquistato, è il secondo più giovane dell’albo d’oro, preceduto da Boris Becker. E, proprio quando si faceva ingenua strada l’illusione di poter completare un paragrafo senza essere costretti a evocare il mostro tricefalo, Alcaraz è il secondo teenager a vincere più di due Masters 1000. Il primo è stato…
… Rafa Nadal.
Non possiamo però non tornare a Daniela Hantuchova, che può continuare a lanciarsi nelle più spericolate iperboli, tanto ci aveva già convinti al “ciao”. L’ex numero 5 del mondo ha pochi dubbi su Carlos: “Porta il tennis a un altro livello, il che è pazzesco da vedere. Poco tempo fa, tutti di domandavano cosa sarebbe successo in futuro dopo Federer, Nadal e Djokovic. Credo che lui sia la risposta. Non c’è nulla di cui preoccuparsi”.