“The History of Tennis” di Richard Evans è un viaggio irripetibile da Tilden a Federer - Pagina 2 di 2

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“The History of Tennis” di Richard Evans è un viaggio irripetibile da Tilden a Federer

Lo storico e giornalista britannico si è espresso su molti grandi dibattiti: su tutti, secondo lui bisogna parlare di un “Big Four” con Murray insieme allo svizzero, a Nadal e a Djokovic

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Bjorn Borg e John McEnroe (foto via Twitter, @Wimbledon)
 

Esaminando gli anni ’70, Evans menziona l’ascesa delle superstar Jimmy Connors e Bjorn Borg, e, accortamente, la sua analisi ricade sulla partita clou di tutto il decennio, ossia la finale del 1975 giocata sul leggendario Centre Court di Wimbledon tra il campione in carica Connors e Arthur Ashe, che sconfisse lo strafavorito connazionale 6-1 6-1 5-7 6–4 in un momento che si poteva definire decisivo per la sua carriera. Evans descrive nella seguente maniera il capolavoro tattico di Ashe: “È stato un trionfo che ha generato felicità e soddisfazione in tutto il mondo sportivo, perché era stato un trionfo in cui l’intelletto e il carattere l’hanno fatta da padrone. Ashe divenne il primo uomo di colore a vincere Wimbledon; nessuno avrebbe potuto indossare la corona del vincitore con maggiore dignità”.

Per buona parte di quell’importante capitolo, Evans racconta al lettore in maniera chiara e meticolosa il boicottaggio dell’edizione del 1973 di Wimbledon da parte dell’ATP, quando più di 80 dei principali giocatori, tra cui John Newcombe, Stan Smith, Arthur Ashe e Rosewall, si ritirarono, decidendo di non giocare il torneo più prestigioso del mondo, presentandosi come un fronte unito a supporto di Nikki Pilic, a cui era stato impedito, con una decisione controversa, di partecipare al torneo. Evans arriva al cuore del boicottaggio con una frase chiarificatrice all’interno della sua lucida analisi: “Il risultato immediato del boicottaggio è stato quello di evidenziare un fatto che i reazionari dell’establishment amatoriale non volevano tollerare, vale a dire che i giocatori dovevano avere voce in capitolo nella gestione del gioco”.

Le tenniste avevano bisogno di ritagliarsi il proprio spazio proprio nel periodo in cui le “Original Nine” firmarono nel 1970 dei contratti da professioniste con la fondatrice di World Tennis Magazine, Gladys Heldman, cosa che fece da preambolo alla nascita tour femminile, e successivamente all’istituzione della WTA nel 1973. Billie Jean King, ovviamente, è stata una figura centrale in entrambi i casi, facendosi notare come una giocatrice imponente e una leader formidabile, diventando, inoltre, il primo presidente WTA. Evans loda King per il suo contributo, ma legittimamente riserva grandi elogi per Heldman, scrivendo: “Non era esagerato chiamare Gladys Heldman una rivoluzionaria, visto che stava per scuotere il tennis femminile dalle fondamenta”. Evans successivamente vira su Chris Evert e Martina Navratilova e sulla loro incomparabile rivalità da 80 partite che durò dal 1973 al 1988. Scrive: “Nello stile e nella personalità erano agli antipodi, e nonostante abbiamo speso la maggior parte del loro tempo su campi da grandi rivali, hanno stabilito un’amicizia che sarebbe durata tutta la vita”.

Naturalmente, Evans passa presto all’avvincente finale di Wimbledon del 1980 tra Borg e John McEnroe che rappresenta il fulcro della sua narrazione di quel decennio, che include anche lo scattante Ivan Lendl, il brillante Boris Becker e l’affascinante Mats Wilander. Nella battaglia tra Borg e McEnroe risalta il loro insuperabile tie-break del quarto set vinto da Mac 18-16 con cinque match point salvati, che si aggiungono due sul 5-4 di quel set, quando lo svedese servì per il match – il risultato finale fu comunque una sconfitta per McEnroe, 1-6 7-5 6-3 6-7 8-6 a favore dell’imperturbabile Bjorn. Evans arriva all’essenza del confronto, scrivendo: “Il duello era diventato una classica gara tra un giocatore il cui istinto era quello di restare a fondo campo e ribattere all’aggressività totale di un naturale giocatore di rete. Il colpo d’occhio e la reattività dei piedi erano essenziali per entrambi; erano così rapidi che era impossibile determinare chi stesse reagendo più velocemente all’azione dell’avversario”.

Nel suo capitolo “Women in the Eighties”, Evans scrive principalmente di Navratilova ed Evert, il cui ruolo è stato rilevante in tutto il decennio, ma porta anche alla ribalta la tenace Tracy Austin, la agile Hana Mandlikova e, naturalmente, Steffi Graf, che ha vinto il “Golden Slam” nel 1988 conquistando tutte e quattro i Major insieme alla medaglia d’oro ai Giochi Olimpici. E ancora più avvincente è il suo capitolo sulle donne negli anni ’90. Qui Evans scrive in modo toccante della rivalità tra Graf e Monica Seles e al tragico accoltellamento di quest’ultima nella primavera del 1993 che ha cambiato permanentemente la mentalità della dinamica tennista mancina. Commentando le conseguenze dell’accoltellamento e l’inevitabile e comprensibile declino di Seles come campionessa, Evans scrive: “Graf ha rivendicato il suo dominio in campo femminile senza mai avere la possibilità di dimostrare che avrebbe potuto competere con Seles per il primo posto, ammesso che fosse in grado di farlo. Dato il suo talento e la determinazione da campionessa nel combattere le avversità, Graf avrebbe escogitato un modo per affrontare la travolgente atleta nata in Serbia, ma il punto interrogativo rimarrà per sempre”. SI tratta di un’analisi ponderata. Credo che Graf avesse già fatto un po’ strada nella loro rivalità proprio nell’anno che ha portato alla tragedia, perdendo un’epica finale del Roland Garros del 1992 contro la Seles 10-8 al terzo set e sconfiggendo Monica nella finale di Wimbledon concedendole solo tre game, prima di perdere di poco in una combattuta finale di tre set dell’Australian Open nel 1993. A mio avviso, le due straordinarie campionesse si stavano dirigendo verso una nuova fase della loro rivalità che sarebbe stata magnifica, e dal mio punto di vista Graf le avrebbe tenuto testa.

Attraverso le 377 pagine di “The History of Tennis” mi sono trovato in gran parte d’accordo con i giudizi di Evans. Un’eccezione lampante riguardava la sua valutazione dei due più grandi americani degli anni Novanta e non solo: Pete Sampras e Andre Agassi. Evans loda giustamente Agassi per essere diventato il quinto uomo nella storia del tennis a vincere tutti e quattro i tornei del Grande Slam (l’elenco, ovviamente, è cresciuto fino a otto con l’arrivo di Federer, Nadal e Djokovic). Riconosce inoltre ad Agassi la sua versatilità nel conquistare i suoi titoli principali su due diverse superfici dure – a Melbourne e New York – così come sulla terra battuta del Roland Garros e sui prati di Wimbledon. Come conclude Evans, “quando [Sampras e Agassi] si ritirarono, questo record era ciò che differenziava Agassi da Sampras. Quest’ultimo era avanti nei precedenti per 20-14 ma non raggiunse mai la finale al Roland Garros. Agassi aveva la capacità di vincere ovunque, su qualsiasi superficie. Sampras tendeva a dominare quando si incontravano negli Slam e aveva il migliore stile gioco oltreché il più spettacolare. Chi era migliore? L’argomento imperverserà finché si discuterà di tennis”.

Su questo argomento ho delle piccole osservazioni da fare. Sampras ha vinto 14 titoli nei tornei del Grande Slam, sei in più di Agassi. Ha anche sconfitto Agassi in quattro dei cinque confronti nelle finali Slam, di cui tre sui campi in cemento degli US Open, che si adattavano così bene a entrambi i giocatori. Inoltre, Sampras ha concluso per almeno sei anni come numero uno del mondo mentre Agassi ha realizzato quell’impresa solo una volta. A mio avviso di storico, non c’è alcun dibattito: Sampras era chiaramente il giocatore migliore e la sua superiorità nelle contese più significative lo distingue dal suo connazionale. Il dibattito in corso non riguarda Agassi contro Sampras, ma Agassi a confronto con McEnroe e Connors. Agassi e Connors hanno vinto entrambi otto Major mentre McEnroe ne ha conquistati sette. L’adattabilità della superficie di Agassi è superiore rispetto ai suoi due connazionali mancini, sebbene Connors abbia vinto major su terra, erba e cemento. Sampras ha chiaramente superato Agassi più e più volte quando contava di più.

Comunque sia, Evans non lascia nulla di intentato nella sua panoramica storica dello sport. Sostiene che ci sono stati davvero i “Big Four” piuttosto che i “Big Three” nella gerarchia del tennis maschile, inserendo Andy Murray in quel club esclusivo insieme a Federer, Rafael Nadal e Novak Djokovic nonostante il maggior numero di risultati ottenuti da questi tre. Murray ha conquistato tre tornei del Grande Slam nella sua illustre carriera (insieme a due medaglie d’oro olimpiche), mentre Federer e Nadal hanno 20 titoli ciascuno, con Djokovic che ha conquistati solo due in meno. Evans difende la sua decisione con chiarezza. “Ci saranno dei dubbi che verranno sollevati sull’inclusione di Murray, che statisticamente sembrano ovvi”, scrive. “La ragione che mi porta ad includerlo si basa su molti fattori: il primo è che è difficile escludere dall’equazione un uomo che, durante quel periodo, è sceso in campo in undici finali del Grande Slam e 21 finali dei Masters 1000. Non solo Murray era sempre in lizza per il successo, ma raramente perdeva contro qualcun altro oltre ai suoi tre rivali. Gli infortuni lo hanno costretto a saltare 13 Slam contro i sei di Nadal, i quattro di Federer e l’uno di Djokovic”. Evans sta sostenendo la causa di Murray e del suo legame con le tre icone del tennis. Io ho i miei dubbi perché il divario tra Murray e il maestoso trio sopra di lui è veramente ampio, anche se Murray è riuscito anche a finire il 2016 da numero uno al mondo. Non è stata un’impresa da poco, dato che ha superato Djokovic lungo il tragitto. Alcuni potranno essere d’accordo con la valutazione di Evans su Murray, molti probabilmente non lo saranno, ma di sicuro articola bene la sua argomentazione.

Svolge anche un ottimo lavoro per quanto concerne il tennis maschile e femminile del ventunesimo secolo, elogiando Sharapova per la sua professionalità e temerarietà su un campo da tennis: “Maria Sharapova incarnava gran parte di ciò che stava accadendo nel gioco femminile, non da ultimo in virtù di un’ambizione e un’etica del lavoro che solo poche erano state in grado di superare nei decenni precedenti”. Altrettanto perspicace è il suo capitolo dedicato alle sorelle Williams. Evans si riferisce a quelle che all’epoca sembravano affermazioni bizzarre del padre, Richard, che aveva predetto quando avevano rispettivamente dieci e nove anni che entrambe avrebbero vinto Wimbledon. Evans scrive: “Eppure Venus e Serena hanno ottenuto esattamente ciò che loro padre aveva predetto. E lo hanno fatto in un modo che ci lascia ancora increduli. Il signore e la signora Williams hanno sfidato ogni regola e, secondo le opinioni del tempo, hanno fatto tutto male – per cominciare, hanno fatto saltare alle figlie tutte le competizioni junior”.

Questo è un libro che occupa un posto di rilievo nella libreria di ogni appassionato di sport e di tennis. Oltre alla prosa elegante e colta di Evans, la fotografia è splendida. In “The History of Tennis”, Richard Evans attinge al suo scrigno di esperienze e ricordi del tennis per catturare l’essenza dello sport con una maestria che pochi nel suo campo potrebbero eguagliare.


Traduzione a cura di Giuseppe Di Paola

Steve Flink si occupa di tennis a tempo pieno dal 1974, quando ha iniziato a lavorare per World Tennis Magazine, dove è rimasto fino al 1991. Ha poi lavorato per Tennis Week Magazine dal 1992 al 2007, mentre negli ultimi 14 anni ha scritto per tennis.com e tennischannel.com. Flink ha scritto quattro libri sul tennis: “Dennis Ralston’s Tennis Workbook”, pubblicato nel 1987; “The Greatest Tennis Matches of the Twentieth Century”, nel 1999; “The Greatest Tennis Matches of All Time”, nel 2012; e “Pete Sampras: Greatness Revisited”. Quest’ultimo è uscito nel settembre del 2020 e può essere acquistato in lingua originale su Amazon.com. Flink è entrato a far parte della International Tennis Hall of Fame nel 2017.

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