Musetti: E adesso voglio imitare Sinner (Alessandro Mastroluca, Corriere dello Sport)
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Miglior teenager azzurro in classifica, spera di regalare all’Italia un secondo trionfo consecutivo dopo il successo di due anni fa di Jannik Sinner che proprio da Milano ha lanciato la sua rapida ascesa fino alla Top 10. «Ho visto le partite di Jannik quando ha vinto, spero di fare come lui e di alzare il trofeo» ha detto. Il carrarino si è allenato domenica con il grande favorito del torneo, lo spagnolo Carlos Alcaraz, e ieri mattina con Flavio Cobolli, la prima riserva del torneo, documentando poi la soddisfazione reciproca con una foto sorridente pubblicata sui profili sociaL Musetti debutterà stasera nell’ultimo incontro della giornata contro l’argentino Sebastian Baez, che nelle movenze ricorda un po’ il “Peque” Diego Schwartzman. COME STA. La serenità, almeno in allenamento, non sembra mancargli. Il coach Simone Tartarini lo segue con il solito mix di impegno e leggerezza, lasciando che l’azzurro si esprima in campo seguendo le sue linee di tennis artistico. Ma sempre presente per incitare, suggerire, indicare la strada. Per evitare che deragli o che si perda per insoddisfazione. È molto esigente, infatti, con se stesso, emotivo sì ma deciso ad esporsi e giocare secondo. i suoi schemi e alle sue condizioni. Il carrarino si mostra pronto alla sfida.
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Musetti punta alla finale all’Allianz Cloud, l’arena che dall’esterno ricorda un po’ un’astronave dove sono atterrati i giovani campioni di domani con un grande sogno. Come ha ricordato il carrarino, infatti, partecipare alle Intesa Next Gen ATP Finals ha portato decisamente fortuna nelle tre precedenti edizioni. Ben sei degli otto qualificati alle Nitto ATP Finals, il torneo un tempo conosciuto come Masters in programma a Torino la prossima settimana, hanno infatti dato almeno una volta spettacolo a Milano. Il caso più eclatante è certamente il greco Stefanos Tsitsipas, che ha trionfato prima al “Masters dei giovani” poi a quello “dei grandi” in due anni.
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La presenza a Milano rappresenta un riconoscimento soprattutto per la prima parte della stagione, inaugurata con la semifinale di Acapulco, dove ha battuto per la prima volta un Top 10, e impreziosita dall’ottavo di finale al primo Roland Garros. I due set vinti contro Novak Djokovic giocando un tennis offensivo e scintillante avevano fatto sognare una grande impresa. Dopo quella partita, ha ammesso, «ho avuto un piccolo calo. Ma sono ritornato col sorriso e la voglia di fare bene». Nel blu dipinto di blu, colore che domina tanto il campo quanto le tribune dell’arena, l’azzurro sarà al centro della scena, dentro un abbraccio di passione che potrebbe spingerlo molto lontano
Riccardo Piatti: “Ho capito tutto di Sinner dopo un suo tuffo dagli scogli. Spedii Djokovic dall’oculista” (Marco Imarisio, Corriere della Sera)
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Quasi ogni settimana, davanti alla sua accademia nascosta nell’entroterra di Bordighera si ferma un’auto di lusso. Ne scendono, a turno, Novak Djokovic, Maria Sharapova, e tanti altri ancora. «Riccardo, non mi funziona questo colpo-..». E lui si mette lì, con il cesto, a far vedere cosa non va, ad aggiustare. Anche a distanza. Non è un segreto che Carlos Maya, coach di Nadal, gli abbia mandato qualche volta i video dei loro allenamenti. «Riccardo, Rafa sta rispondendo da schifo…». Riccardo Piatti non è solo uno dei maestri di tennis più stimati di tutto il mondo, nonché la L’Italia e la politica Questo premier mi fa sentire sicuro: sono un moderato, convinto che sia meglio farsi guidare da una persona seria e competente. Una volta tanto, l’abbiamo trovata persona che sta aiutando a crescere la grande speranza del tennis italiano, al secolo Jannik Sinner. La sua storia, che ha appena raccontato in un libro bello e intenso scritto con Federico Ferrero, comincia molto prima dell’incontro con il ragazzo altoatesino. Da un circolo di tennis a Villa d’Este, quando il figlio di un industriale del tessile della provincia di Como, capisce che può applicare il rischio di impresa allo sport che ama. E sul finire degli anni Ottanta si inventa una professione sconosciuta in Italia, il coach privato. «I miei genitori vengono da una terra di lavoro, che rifugge dagli aiuti statali. Mi hanno sempre insegnato a contare su me stesso. A casa nostra, statalismo era una brutta parola». Nascono cosi i Piatti-boys? «Ero un tecnico federale, che seguiva un gruppo di ragazzi, tra i quail Renzo Furlan, Cristiano Caratti, Christian Brandi. I risultati non arrivavano, ma io credevo in loro. A un incontro coni dirigenti della Federazione, mivenne detto che dovevo lasciarli andare, non sarebbero mai diventati professionisti e che presto avrei lavorato con altri giocatori». Come? «Con le parole di mio padre. Se sei a capo di un progetto e quel progetto fallisce, la colpa non è di chi ci lavora, ma tua così mi alzai e me ne andai. Quel giorno decisi di mettermi in proprio, con i miei ragazzi, trovando una casa tutta nostra a Moncalieri, diventando una specie di eretico. Hanno avuto quasi tutti una bella carriera, e ne sono orgoglioso».
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Si offende quando le dicono che lei ha solo il tennis in testa? «Negli ultimi quarant’anni, e ne ho ormai 63, non c’è stato un giorno in cui non abbia pensato al tennis. Sono un uomo dal mono-pensiero. Quando vado al ristorante con mia moglie Gaia dopo una partita, scorro il menu e penso a quel colpo che doveva essere eseguito meglio, accompagno mio figlio Rocco a scuola e intanto penso a come impostare gli allenamenti della settimana in accademia. Sono fatto così, ho imparato ad accettarmi E so che per chi mi vuole bene non è facile starmi vicino».
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Come è cominciata la sua carriera da coach? «Ero un decente giocatore quando il mio maestro al circolo di Villa d’Este si ruppe il femore e mi fu chiesto di sostituirlo. Intanto, i miei genitori mi avevano detto: o studi o lavori. Io ho scelto di conoscere il tennis»
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La infastidisce il fatto che «per colpa» di Sinner e di Matteo Berretlini oggi abbiamo sessanta milioni di italiani esperti di tennis? «Perché dovrebbe? In questi lunghi anni di solitudine, diciamo così, mi sono sempre chiesto perché fossimo così bravi nel calcio, nel volley, in qualunque sport che non fosse il tennis, e dove stavamo sbagliando». La risposta? «Un approccio errato. Poca voglia di rischiare aprendosi al mondo, la nostra eterna propensione a cullarci negli aiuti provenienti dallo Stato, ovvero la Federazione, senza considerare l’impresa privata Lo vede che il tennis è una parte per il tutto? Adesso finalmente è cambiata la rotta. E in qualche modo, io mi ritengo un pioniere di questa nuova frontiera». Le piace l’Italia che sta cercando di lasciarsi alle spalle la pandemia? «In questo momento, mi sento al sicuro grazie a Draghi. E non succedeva da tempo. Come forse ha capito, non ho un pensiero politico forte. Sono un moderato, convinto che sia sempre meglio farsi guidare da una persona seria e competente. Una volta tanto, l’abbiamo trovata». Quando capì che Jannik Sinner poteva diventare molto forte? «La prima estate con lui, quando aveva 13 anni, lo portai al mio consueto stage all’Elba. Una mattina, va a tuffarsi dagli scogli assieme ad altri ragazzi. Lui, bambino di montagna, che nuotava a malapena, al primo tentativo fece subito un salto mortale. Qelando riemerse, tutti gli chiesero come ci era riuscito. Rispose che quando era in aria aveva pensato di fare due capriole consecutive, così una almeno l’avrebbe fatta per forza. Aveva già la testa del vero sportivo». Tra gli altri, lei ha allenato un certo Djokovic. «Era la primavera del 2005. Mi stavo godendo i successi di Ivan Ljubicic, con me fin da piccolo. Volevo aggiungere alla mia squadra qualche giovane da formare. “Cè questo ragazzino…” mi disse un amico. Numero 250 del mondo. Lo avevo visto una sola volta. In Australia, dove aveva preso una stesa memorabile da Marat Safin, Questo per dire che non si deve mai giudicare in fretta. Siamo stati insieme per un anno e mezzo. Mi resi conto che strizzava sempre gli occhi prima di colpire la palla, e consigliai al familiari di mandarlo dall’oculista. Risultato: aveva due diottrie in meno. Poi ci separammo, non potevo seguirlo a tempo pieno». Non rimpiange iI fatto che oggi potrebbe essere un coach che ha vinto 20 Siam? «Assolutamente no. Suo padre esigeva da me dedizione assoluta. Ma io sono fedele ai miei ragazzi. E non potevo sdoppiarmi. In più c’era un problema. Ljubicic è croato di origine bosniaca, Novak è serbo. La guerra nei Balcani era finita da poco, e in quei due Paesi certe cose pesano ancora molto. Fu giusto lasciarsi andare. Vincere uno Slam rimane un sogno, che oggi condivido con Jannik. La ricerca del Sacro Graal continua». Anche lei sogna giocatori orfani? «Cerco genitori che condividano il mio pensiero. I bambini quando cadono, o quando perdono, devono poterlo fare. Non tutti possono diventare campioni. Viviamo in un’epoca in cui sembra che i nostri figli non possano più provare dolore, siamo ossessionati dall’idea di tenerli lontani da ogni paterna d’animo. Ma proteggere, non significa questo. I genitori vanno aiutati a cercare un percorso di crescita per i loro ragazzi, e a sostenerli. Nient’altro».
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Nei suo mondo I giocatori sono tutti uguali? «Sono felice allo stesso modo se alleno Jannik o un bambino Quando Maria Sharapova mi chiamò da Londra per chiedermi di lavorare con lei le dissi che sarebbe dovuta venire all’Elba, dove facevo il campo estivo. Arrivò in elicottero. Avevo prenotato l’unico campo disponibile a quell’ora, come in qualunque circolo. Era un terreno in cemento, spelacchiato, con qualche buco. Temevo la sua reazione. Invece si guardò intorno, e disse che se avesse giocato bene qui, lo avrebbe fatto in qualunque posto del mondo. E cominciammo. Così ragionano i campioni».
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Cos’è per lei il tennis? «Tutto. L’unità di misura del mio mondo, lo strumento attraverso il quale ho imparato a capire chi sono, con i miei limiti. Mi sento fortunato. Tutti dovrebbero avere una passione capace di riempire una vita intera»
NextGen, laboratorio delle stelle ma le novità rischiano di stancare (Stefano Semeraro, La Stampa)
Le Next Gen Finals sono nate come incubatrice di campioni e per le prime tre edizioni hanno funzionato bene. Nel 2017 il torneo lo ha vinto Hyeon Chung, che prima di essere massacrato dagli infortuni era arrivato al numero 15 del mondo e a una semifinale Slam, ma nei capannoni di Rho sfilarono anche Rublev, Medvedev, Shapovalov, Khachanov, Coric, tutti top player,
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Nel 2018 la coppa è andata a Stefanos Tsitsipas, che l’anno dopo ha alzato quella delle Finals dei grandi, a Londra. Nel 2019 è toccato a Jannik Sinner, e non servono commenti. Dopo un anno di pausa Covid al Palalido di Milano si riparte oggi da Lorenzo Musetti, che spera di imitare Sinner uscendo definitivamente dal buco grigio che lo ha inghiottito dopo Parigi; e da uno che a 18 anni campione lo è già: Carlos Alcaraz.
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Con i cinque anni del primo mandato quasi scaduti (le Next Gen Finals resteranno a Milano anche nel 2021 per recuperare l’anno perduto, poi chissà) una domanda allora sorge spontanea. E cioè se vale la pena continuare a far giocare con una formula intrigante ma senza domani – set corti ai 4 game e niente vantaggi – gente che ha già vinto fior di tornei e raggiunto i quarti di uno Slam con il punteggio tradizionale. Le Next Gen sono state e possono continuare ad essere una palestra tecnologica e regolamentare: in fondo hanno facilitato l’adozione delle chiamate elettroniche e dello shot-clock, e questa volta propongono il coaching in campo (che molti giocatori invocano) la limitazione degli interventi medici (uno a partita) e delle capatine alla toilette (max 3 minuti). Altre idee che saranno probabilmente adottate nel circuito. Abbassare l’età (oggi under 21) priverebbe lo show di interesse, ma ostinarsi a mantenere un formato tanto diverso da quello del circuito aumenta le possibilità che un evento di fine anno, per giunta ridosso del Masters dei grandi, sia mutilato dalle diserzioni dei più forti e finisca per svalutarsi. Sarebbe un peccato. Continuiamo a goderci le Nuove Generazioni, possibilmente in Italia, ma facciamoli giocare come nel resto dei tornei. Sperimentare è lecito, esagerare diabolico.