Caso Djokovic - Ha prevalso la ragion di Stato. E’ stata una scelta politica ma credo sia giusto così - Pagina 4 di 4

Editoriali del Direttore

Caso Djokovic – Ha prevalso la ragion di Stato. E’ stata una scelta politica ma credo sia giusto così

Dalla vicenda escono male tutti, Craig Tiley in testa. Poi Djokovic e non per essere andato a Melbourne. Ma per come ci è andato. Male anche l’Australia. Bravi soltanto tutti i giudici

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L’avvocato Lloyd è stato più convincente, almeno a giudicare dal risultato finale, quando ha illustrato le posizioni tenute da Djokovic da due anni a questa parte riguardo ai vaccini, in aperto contrasto con quella che è stata la onerosissima politica del Governo australiano per tutto questo tempo. E segnalando come certi comportamente tenuti da Djokovic in Serbia (ricevendo i giornalisti de L’Equipe da “positivo” e in Spagna dove la sua presenza non è stata neppure registrata da chicchessia e successivamente denunciata da lui alle autorità australiane, per l’errore materiale della sua agente) rappresentassero insieme cattivi esempi, certamente da non incoraggiare ed imitare.

Stephen Lloyd, una figura che ricorda quella di Ironside, il personaggio interpretato da “Perry Mason” Raymond Burr, non ha sollevato il punto di un Djokovic pericoloso per la incolumità fisica degli australiani perché non vaccinato, ma pericoloso per la sua inclinazione a ignorare le regole invece imposte (e accettate abbastanza disciplinatamente) alla gente australiana.

Se a Djokovic fosse stato concesso di giocare il torneo in Australia come se nulla fosse accaduto, ciò avrebbe potuto suonare – secondo la posizione ministeriale -come una sorta di irragionevole istigazione a non rispettare quelle regole cui invece il Governo australiano da tempo tiene che siano massimamente rispettate. Da tutti. E da tutti gli altri tennisti partecipanti all’Australian Open accettate e quindi rispettate.

Un’eccezione fatta per Djokovic avrebbe significato a) sconfessare la politica governatica tenuta fino a oggi b) sottovalutare l’impatto che un grande campione, popolarissimo in Australia per i suoi 9 trionfi, avrebbe potuto avere su troppa gente.

In quel senso il Governo aveva parlato di rischi per l’ordine pubblico. Vari sondaggi condotti con campioni importanti (fino a 60.000 australiani) dicevano che tre quarti degli australiani, il 70 e anche l’80%, chiedevano di rispedire Djokovic a casa.

Un Governo democratico avrebbe dovuto ignorarli?

Non è il potere politico che sconfessa quello giudiziario, come qualcuno fingendo di scandalizzarsi (anche al di fuori dei confini Serbi) ha sostenuto.

Il giudice Kelly aveva pronunciato la sua sentenza di revoca alla cancellazione del visto esprimendosi su altri temi, fra i quali, principalmente due: 1) il fatto che Djokovic si era fidato di una esenzione che pareva metterlo al riparo da ogni sorpresa, e 2) sul diritto ad una equa difesa che Djokovic non aveva potuto esercitare.

Davanti ai tre giudici della corte federale – tre ne avevano voluti i difensori di Djokovic per scongiurare la possibilità di un appello onde accelerare la procedura: Djokovic doveva giocare già nel primo giorno dell’open –  l’avvocato Lloyd ha sottolineato come i campioni vengano rappresentati pubblicamente proprio dai loro munifici sponsor come veri “role-model”, cioè personaggi oggettivamente capaci di influenzare milioni di persone affascinate dal loro carisma, dalla loro personalità, dal fatto di essere uomini di successo.

128 tennisti, 128 tenniste hanno accettato di vaccinarsi – cui vanno aggiunti i doppisti – e non si poteva consentire a Djokovic, o ad altri, di fare eccezione.

Il guaio, ripeto ancora, è stato combinato quando non è stato fatto presente chiaramente subito a Djokovic che senza vaccino non avrebbe potuto entrare in Australia.

Djokovic non aveva mai dato segno di volersi vaccinare pur di partecipare all’Australian Open. Non aveva detto neppure che non lo avrebbe fatto. Quando è andato a vedere la partita  di basket della Stella Rossa del 14 dicembre si è fatto vedere in mezzo a migliaia di persone senza prendere alcuna precauzione per buona parte della serata, quasi che la pandemia non esistesse. Oppure, chissà, proprio per verificare se esistesse.

Chiudo come ho cominciato. Ha prevalso la ragion di Stato, è stata una scelta politica, non si è nemmeno entrati in troppi dettagli sugli episodi. Ma, almeno secondo me, è stato giusto così. Un Paese, con il suo Governo, ha il diritto di proteggersi come crede meglio.

Djokovic non ha avuto la sensibilità politica per capirlo e ha insistito nel tentare di rovesciare l’esito della partita compromessa fin da quando il suo visto è stato revocato la prima volta. Anche quando Voracova se ne è invece tornata a casa. Probabilmente perché lei non poteva permettersi le spese legali che adesso Novak è condannato a pagare.

Non so che parcelle emetteranno l’avvocato Wood e i colleghi del suo ufficio. Fossi il ricco ma bastonato Djokovic, che comunque può permettersi qualsiasi parcella, penserei all’ipotesi di farmi rifondere da Tennis Australia, vera responsabile del tutto. Però una mossa del genere potrebbe apparire irriconoscente: in fondo Tennis Australia e Tiley avevano tentato un escamotage borderline proprio per favorire la sua parteicpazione. Una questione di coscienza decidere di prendersela con loro oppure no.

Sarà da valutare anche a seconda che i giudici decidano di applicare la norma che prevede l’esclusione per Djokovic di poter rientrare in Australia nei prossimi tre anni. A questo riguardo ancora non so nulla nel momento in cui nella tarda serata di domenica sto scrivendo. Ma mi auguro proprio che non venga esercitata. Tre anni di visto revocato sarebbe punizione davvero troppo severa ed esagerata.

E comunque vorrebbe dire un “ergastolo”, perché a maggio compie 35 anni e se per tre anni non potesse tornare che ci verrebbe a fare in Australia? Il torneo senior? Non tornerà mai.

Che poi fra Governo dello Stato di Vittoria e Governo federale avrebbe dovuto esserci maggiore sintonia, maggior chiarezza, miglior scambio di informazione, è un altro paio di maniche e sono assolutamente d’accordo con chi lo sottolinea.

A uscire male dalla vicenda secondo me, con gradualità diverse, sono un po’ tutti. Tiley in testa, Djokovic, il Paese Australia per l’inattesa disorganizzazione mostrata. Escono bene, ma il mio è un parere assolutamente personale, i giudici, prima Kelly e poi i 3 della Corte Federale che hanno fatto quello che l’istanza del Governo gli chiedeva di considerare prioritario.

Dal prossimo editoriale scrivo di tennis, prometto.

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