“Qui devi correre più che puoi per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche parte devi correre almeno il doppio.” (Alice nel Paese delle Meraviglie – Lewis Carroll)
“La prima cosa che ricordo della mia vita è una racchetta da tennis. Nella culla. Una piccola racchetta. L’aveva messa mio padre. Inanimata, come un pupazzo, come una bambola. Almeno prende confidenza con l’attrezzo, avrà pensato, lui tennista. Ha funzionato. Ha avuto ragione lui. Sono cresciuta che volevo solo giocare a tennis. Giravo per casa con una racchetta in mano mimando partite in cui battevo le tenniste che vedevo in TV. Prime lezioni, prime partite, primi tornei, primi successi. Colpire una palla come respirare, il suo rumore battiti cardiaci. Chissà se diventerò brava come papà. Tutti mi dicono lo abbia già superato. Non ci credo. Comunque non lo ammetterei mai. Un papà è per sempre ed inarrivabile. Anche quando sarò io la tennista da guardare in TV.”
Bambine che sognano, centro del teatro, fine esibizione, inchino finale, applausi. Sogno innescato, sogno guidato, sogno fatto proprio. Che non diventi un incubo, a volte accade.
Monica Seles a soli 16 anni e 6 mesi vinse il Roland Garros, primo di 8 titoli Slam vinti nei successivi 2 anni e mezzo. In un campo da tennis era pressoché invincibile, solo qualcosa di imponderabile avrebbe potuto fermarla. Durante un match al torneo di Amburgo, un uomo le si avvicina alle spalle durante un cambio di camp . L’accoltella alla schiena, squarciandole l’anima. Carriera pressoché interrotta, non sarebbe mai tornata numero 1, pur trovando la forza di vincere ancora uno Slam. Nata a Novi Sad, Yugoslavia dal sapore di Ungheria, sarebbe finita americana e cittadina onoraria ungherese. Una racchetta da tennis come ponte dall’Est d’Europa al Nuovo Mondo, come successo ad altri tennisti famosi e a tanti altri, persone comuni, le cui vicende sono andate ignorate e disperse.
Tracy Austin aveva 14 anni e 9 giorni quando vinse il primo torneo professionistico, 2 anni dopo sarebbe arrivato il primo Slam, Steffi Graf vi riuscì a 17, Martina Hingis un po’ prima. Il tennis è pieno di tenniste bambine, ma la precocità a volte ha conseguenze strane. Jennifer Capriati rovinò la sua con qualche eccesso ed un paio di arresti, per droga e furto. Anna Kournikova a 16 anni, raggiunse le semifinali a Wimbledon essendo in contemporanea icona di bellezza e modella affermata. Una marea di infortuni la fecero ritirare dall’attività agonistica a soli 22 anni, indicandole quali delle strade intraprese, seguire. Per gli amanti dei social, la si trova col nome di Anna Kournikova Iglesias, quest’ultimo cognome di Enrique, padre dei suoi tre figli. Miglior sorte tennistica sarebbe toccata alla sua epigona Maria Sharapova, vincitrice a Wimbledon a soli 17 anni. La sua vicenda non ebbe un inizio facile. All’età di 5 anni, Maria, accompagnata dal padre Yuri, si trasferisce in Florida. La madre l’avrebbe raggiunta solo due anni dopo. Una storia di distacco e solitudine in una terra lontana, che si trasforma in una storia di successi. Un sogno americano.
Due bambine afroamericane. Storia di vita marginale. Un padre burbero le porta in giro. Le mostra, convinto che quelle due bambine siano potenziali armi per riscattare sé stesso e tutta la gente di quella parte del mondo, che ha dovuto e deve sovente lottare per avere pari dignità e diritti. Venus e Serena Williams sarebbero divenute regine di uno sport, sino ad allora, storicamente ed essenzialmente “bianco”. Prime afroamericane a divenire numero 1, stimolo e orgoglio per chiunque sia nato nella pagina assente dei libri di storia.
La metafisica del nomadismo, la necessità dello spostamento. Meravigliosa è l’analisi di Chatwin riguardo a questo concetto nella cultura dei nativi australiani. Dovettero spostarsi le piccole Evonne Goolagong e Ashley Barty. Per un nomade il mondo è perfetto e va conservato com’è, il loro mondo forse lo era, ma non prevedeva la possibilità di diventare tenniste. Quello dei discendenti dei nuovi arrivati sì. Grazie ai successi ottenuti sui campi da tennis, divennero ambasciatrici di una popolazione la cui memoria è stata cancellata e preferita dimenticare. Lo sport spesso arriva dove non riesce la politica o l’arte.
“Sono nata in un piccolo paese che si sviluppa intorno ad una antica rocca longobarda. Piccolo è dir poco, più che paese lo chiamerei borgo. Da bambina facevo danza. Mi piaceva seguire il ritmo ed assecondarlo in movimento. In realtà non è che ci fosse molto da scegliere, in tutta la zona era una delle poche cose che si potevano fare. Un giorno mio padre portò mio fratello ad una lezione “ prova” di tennis, prova anche per chi cerca di impiantare una scuola in luoghi dove non ce ne sono. Il maestro mi porse una racchettina e mi invitò a provare. Sarà stata l’elasticità donatami dalla danza, l’abitudine al ritmo e che il tennis ne ha uno di cui la palla ne è metronomo, io le palle le prendevo tutte. Sin dall’inizio. Iniziai a giocare ed iniziai ad appassionarmi. Diventò la mia danza. Una volta a settimana, poi due, poi tre, poi ho smesso di contarle. Vennero i primi tornei e i primi sogni di me che mi inchinavo al centro di un grande stadio. Nel sogno non ricordo se fossi vestita da etoile del Lago dei Cigni o da tennista, di certo muovevo una danza con racchetta su un palco che prevedeva una rete in mezzo ed una danzatrice dal lato opposto, con cui muoversi in sincrono. Pian piano dalla dimensione locale è venuta quella regionale e poi nazionale, tornei in luoghi sempre più distanti tra loro e vicini nel tempo. Sempre in viaggio. Incontrare ragazze, mie coetanee, ognuna con la propria storia, raccontata con accento diverso ed una pallina gialla che rotola tra i piedi. Adesso giro l’Europa e ne conosco i confini da varcare. Datemi un piccolo paese da cui partire e girerò il mondo. Più grande il piacere di tornavi, confrontare la me che sono con la me che ero, salutare le amiche di sempre, portarle a fare un giro con l’immaginazione per i miei dove ed i miei come, I miei altrove. Una rocca è in alto, se la si percorre dal lato giusto,la strada è in discesa. Tutto sta nell’assecondarne la pendenza e seguire il ritmo delle curve”
L’11 settembre 2021 , il giorno dei 20 anni della caduta delle Torri Gemelle, a New York si gioca la finale del singolare femminile degli US Open. In campo la canadese Leyla Fernandez e la britannica Emma Raducanu, 39 anni in due, cognomi che rimandano a storie di immigrazione. Un inno all’integrazione, alla libertà di movimento, alla ricerca delle possibilità. Il mondo è un paradiso di storie da poter raccontare, lo si rende inferno evitando siano scritte.
“Non credere mai di essere altro che ciò che potrebbe sembrare ad altri che ciò che eri o avresti potuto essere non fosse altro che ciò che sei stata che sarebbe sembrato loro essere altro.” (Alice nel Paese delle Meraviglie – Lewis Carroll)
*si ringraziano per il contributo Sara Milanese e Ylenia Zocco (in ordine alfabetico)