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Adriano Panatta e Paolo Bertolucci, la strana coppia di amici compie 62 anni

La prima volta a Cesenatico nel 1962. L’influenza di Belardinelli, i regali e i litigi ma solo sul campo, anche se quella volta in America…

Last updated: 11/03/2024 11:18
By Danilo Gori Published 10/03/2024
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6 Min Read
Adriano Panatta e Paolo Bertolucci, Campionati Internazionali BNL d'Italia 2016 - Foro Italico - Roma (foto di Monique Filippella)

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Sul “Corriere della Sera” Gaia Piccardi firma un articolo che celebra una delle coppie più celebri del tennis italiano. Adriano Panatta e Paolo Bertolucci, la formazione di doppio protagonista di quattro finali di Coppa Davis (quella vinta a Santiago del Cile nel 1976 ma anche quelle perse a Sydney l’anno dopo, a San Francisco nel 1979 e a Praga nel 1980) e di altre sfide memorabili negli anni Settanta fino agli inizi del decennio successivo, parlano dell’argomento su cui chiunque, incontrandoli chiederebbe loro: l’amicizia.

In realtà nel pezzo leggiamo di amore, di cuori incisi su di un albero e della più grande storia della loro esistenza. Cominciata però, leggiamo, in maniera tutt’altro che promettente.

“Eri bruttarello, già da ragazzino”

“Fu antipatia da subito: tu fighetto dei Parioli mentre io venivo da un paesetto della Toscana”

“Sembravi uno di mezza età, ma in miniatura”

Per loro pare impossibile non punzecchiarsi; la provocazione è la categoria del loro comunicare e l’aneddoto è il veicolo che illustra le distanze di ogni genere che si frapponevano tra di loro ma che non impedivano all’intesa sul campo e all’affetto fuori da esso di crescere. A dispetto anche delle litigate “quelle però solo sul campo” puntualizza Adriano.

Il primo incontro è datato 1962 e ha luogo a Cesenatico, sede di un torneo Under 13; Mario Belardinelli ebbe l’intuizione di avvicinarli. “Mario” – è di nuovo Panatta a parlare – “mi disse che l’avrebbe messo nella mia camera nel centro federale di Formia, parlando di Paolo come di uno bravo ma che non aveva voglia di faticare”. Bertolucci nicchia ma Adriano ha la memoria lunga: “Paolo tu a merenda eri capace di mangiarti quattro zeppole in pasticceria!”.

Domenico Procacci li ha riavvicinati nel documentario “La Squadra”, che ha avuto il merito di avvicinare la storia del team vincente di quei tempi agli appassionati più giovani e che ci ha mostrato i due amici intenti, tra un insulto e una offesa reciprocamente non raccolti, a spiegare la loro passione per il divertimento e per le ragazze, con Adriano indiscusso apripista – “prima di colpire la pallina si sistemava il ciuffo e tutte impazzivano” – e Paolo che rimaneva vicino per beneficiare del… magnetismo del romano.

Eppure, l’affetto più duraturo è rimasto quello coltivato tra di loro; la prova, anche se in questo caso la memoria del campione di Roma e Parigi 1976 vacilla, è intagliata, pare, nella corteccia di un albero. Qui Paolo soccorre l’amico nel citare l’accaduto: “a Formia” – ricorda Bertolucci – “c’è un albero attorno al quale ci siamo sfiniti di fatica tantissime volte. Un giorno incidemmo un cuore con la scritta: qui soffrirono Adriano e Paolo”. “Possibile?” – si chiede Adriano – “Non ricordo di aver inciso nessun cuore insieme a te”.

I regali

Quello dei doni che i due si sono volta per volta presentati o autoregalati è un argomento fonte di divertiti lazzi e improperi tra i due compagni di doppio. “Per il suo primo matrimonio” – di nuovo Panatta – “gli feci trovare fuori di casa un cavallo; non so che fine abbia fatto, forse se lo è magnato”. “Per prima cosa” – contrappunta il toscano – “mi cagò davanti a casa. Mi costava 500.000 lire al mese solo per tenerlo in un maneggio fuori Firenze. Più tutto il resto. Ti ho odiato”. “E il gatto?” – provoca Adriano – “andasti a prenderlo a Londra, quando a Roma te lo avrebbero tirato dietro; lo portavi al ristorante e ordinavi per lui la sogliola alla mugnaia, che manco guardava. Che gatto stronzo”. “Hai ragione” – conviene Bertolucci – “mi ha fatto buttare via tutti i divani”.

L’animosità, come detto più sopra, era relegata al campo, e Panatta ammette infatti ne “La Squadra” che giocare con lui era molto difficile. “Lui sbagliava e dava la colpa a me. Una volta in America lo mandai a quel paese e non gli parlai per tre giorni, finché al quarto giorno mi disse: o mi parli o ti uccido!”.

I racconti si sovrappongono e i primi a divertirsi sono proprio loro due; e del resto deve essere impagabile passare del tempo e ascoltare i loro bisticci, magari interrotti da qualche racconto più direttamente sportivo legato al tennis di quel tempo. A quando si partiva qualche settimana prima per preparare con scrupolo la finale di Davis, o ai giudici di linea di Praga e alle finestre dello spogliatoio italiano nella capitale cecoslovacca, lasciate spalancate per rendere… confortevole la fruizione degli spazi da parte dei nostri.

Chissà, a volte forse esagerano nel citare il tal particolare, ma loro due e chi con loro ha vissuto da protagonista quei tempi si è guadagnato da tempo e per intero la nostra credulità e il rispetto per chi ha davvero reso popolare il tennis nel nostro paese.


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