Un Novak Djokovic in pieno rodaggio quello visto durante il match del grande ritorno a Indian Wells dopo cinque anni di assenza. Il numero uno del mondo, che aveva giocato e perso clamorosamente l’ultima partita giocata in California il 13 marzo del 2019 contro Philipp Kohlschreiber, ha superato all’esordio nel torneo l’australiano Aleksandar Vukic palesando una condizione non ancora al top. Tutto nella norma, viene da pensare, dal momento che Nole non disputava un incontro ufficiale dalla semifinale persa a Melbourne contro Jannik Sinner. Tra qualche intoppo imprevisto e alcune prevedibili ruggini, c’è comunque materiale sufficiente per essere soddisfatti: intanto il ritorno al successo in un torneo vinto cinque volte; poi, tanto per spolverare il personale libro dei numeri ormai sulla strada buona per diventare un’enciclopedia, la vittoria numero 400 della carriera nei Masters 1000. Nole sa bene che ancora qualcosa gli manca per raggiungere l’usuale livello, ma i buoni pensieri, nelle parole concesse alla stampa nel dopo partita, prevalgono sensibilmente su quelli cattivi.
Com’è stato tornare a Indian Wells dopo cinque anni?
Molto bello, sensazioni fantastiche. L’atmosfera qui è sempre speciale. All’inizio ero un po’ nervoso, non sapevo se sarei partito come mi aspettavo. Ho iniziato bene, poi ho perso un po’ il momentum, come si dice. Siamo finiti al terzo e lì entrambi abbiamo giocato un buon tennis; lui ha alzato il livello e mi ha costretto a dare il meglio per venirne fuori. Onestamente, sono contento di essere stato spinto a farlo, è molto importante.
Vorrei, se posso, farti una domanda di carattere estremamente generale. Hai avuto una carriera stratosferica. Sei stato e sei ancora un incredibile studioso del gioco. Se dovessi ridurre a uno o due i più importanti insegnamenti che hai tratto dal tennis quali citeresti?
Buona domanda, la prossima volta avvertimi prima, mi dovrei preparare per risponderti. Comunque, su due piedi, devo dire che il tennis, prima di tutto, mi ha reso molto più resiliente. Competere per vent’anni ai più alti livelli mi ha obbligato svariate volte ad attingere fino all’ultima goccia di energia mentale, fisica, emozionale. Ho dovuto scavare dentro di me in tante e diverse occasioni per venire fuori da molte situazioni complesse, sfruttare ogni risorsa disponibile, anche quelle di cui ignoravo l’esistenza, per ottenere i grandi risultati che alla fine ho raggiunto. Ma il tennis mi ha anche insegnato a essere applicato, focalizzato sul lavoro quotidiano, costante. L’obiettivo dev’essere quello di migliorare continuamente, aggiungere armi, perfezionare i difetti, tutti i giorni. Nel 2011 ho raggiunto quelli che da bambino erano i miei sogni, e allora ho dovuto costruirmene di nuovi, ancora più grandi. Quando guardo davanti a me devo avere un bersaglio da centrare; quando lo centro devo immaginarne un altro. In questo lo sport che ho scelto aiuta: il tennis è durissimo, ma ti dà sempre un’altra chance, che in genere è dietro l’angolo. Questo è un buon motivo per non lasciarsi scoraggiare, c’è sempre una nuova possibilità per brillare e vincere un trofeo, ed è un’altra cosa che crescendo ho metabolizzato.
Quanto pensi sia stato importante avere un match piuttosto difficile già al primo turno?
Come ho detto, è stato molto importante. A dire il vero a un certo punto ero un po’ preoccupato perché mi sono ritrovato testa a testa all’inizio del terzo set, ma devo dare i giusti meriti a Vukic, che tra la fine del secondo e l’inizio del terzo ha servito molto bene e tirato tanti vincenti con il dritto, quindi meritava di essere in partita. Bisogna considerare che ci vuole un po’ di tempo per eliminare la ruggine.
Qualche giorno fa Andy Murray ci ha raccontato del filo empatico che l’ha legato a uno specifico spettatore che tifava per lui in modo particolarmente rumoroso ed entusiastico. Ti è mai capitato di provare una connessione simile con un tuo fan? Qualcuno a cui hai fatto riferimento durante una partita per trarne sensazioni positive?
Certo, moltissime volte. Ho avuto la fortuna di giocare tantissime partite nella mia vita, e ho avuto esperienze di tutti i tipi, positive e negative, con i tifosi. Quando sono in campo spesso mi capita di ripetere le routine, i gesti, le cose, i pensieri che mi permettono di rimanere centrato, presente, di riprendere il contatto mentale con la partita quando mi capita di perderlo, di distrarmi. Tra i vari fattori di conforto, uno dei più importanti a cui chiedo aiuto sono certamente i tifosi. A volte sul campo ci può essere un’atmosfera anche molto negativa che ti travolge, ma a dire il vero molto più spesso il contesto è pazzesco e si tramuta in una potentissima benzina per me. In questo senso, capita a volte di connettermi con un particolare spettatore, ed è molto bello quando succede. L’ho visto con Andy, l’altro giorno, ed è stato stupendo: sono quei momenti che gli spettatori ricorderanno per sempre, ma gratificano immensamente anche noi. In campo può succedere di tutto, ma alla fine dei giochi siamo tutti qui, noi giocatori e i tifosi, per celebrare il tennis, per migliorarne l’ecosistema. Ecco perché dovremmo essere felici e grati della passione che riusciamo a suscitare.
Sei stato lontano da questo torneo per tantissimo tempo. Tornare qui ti dà modo di apprezzare di più l’evento e in generale la California? E cosa significherebbe per te vincere per la sesta volta Indian Wells?
Che dire, ovviamente mi piacerebbe moltissimo. La strada verso il tiolo è ancora molto lunga, ma è stata una buona partenza. Penso sempre di poter giocare un po’ meglio, e questo è molto importante per sistemare i difetti, per alzare il livello giorno dopo giorno. Ovviamente è ciò che cerco di fare, e un torneo strutturato su dieci, quattordici giorni come Indian Wells ti permette di crescere in corso d’opera, di allenarti tra un match e l’altro, di adattarti. Penso che partita dopo partita il gioco migliorerà insieme alle mie possibilità di andare in fondo.