The champ is here. Daniil Medvedev, dopo le fatiche madrilene e i tanti dubbi, ha esordito col botto agli Internazionali d’Italia contro Jack Draper, giocatore non proprio comodo da affrontare per quanto non stellare sulla terra. E così il russo ha ottenuto la sua vittoria n.200 in un Masters 1000, nel torneo che gli ha dato quello che rimane il suo unico titolo sulla terra, che cercherà dunque di difendere. E sarebbe la prima, storica volta nella sua carriera, si tratta un fatto certamente assai curioso.
“Vorrei pensare fosse una coincidenza, una questione di sfortuna, ma non mi interessa quale sia il torneo, io punto a vincere“, spiega il russo in risposta al direttore Scanagatta, che pone anche la questione su quanto la terra sia ormai più favorevole per lui, “e non conta se lo abbia vinto o meno prima. Spero davvero che una volta nella mia carriera riesca a vincere un titolo vinto in precedenza, e qui ci proverò. Per quanto riguarda la terra, sicuramente ancora odio il fatto che debba buttare i calzini, tornare negli spogliatoi sporco, sporcare la macchina dopo gli allenamenti. Ma per quanto riguarda il gioco mi piace sempre di più“.
Come sempre sono tante le cose da dire, da scrivere, quando è il n.4 al mondo a parlare. E proprio sulla questione ranking ha offerto una prospettiva molto interessante. “Penso di essere stato concentrato sulla classifica fino alla finale degli US Open nel 2019 perché prima di quel momento, vincendo Cincinnati, facendo finale allp US Open, stavo solo andando avanti. Prima della finale ero entrato nella top 10 per la prima volta, dopo Wimbledon o dopo Washington. Fino a questo momento, ogni volta pensavo alle classifiche, perché passi dai futures ai Challenger, e quindi ci pensi. Quando giochi i Challenger invece vuoi entrare tra i primi cento e partecipare ai tornei dell’ATP Tour, e pensi al ranking. Poi volevo arrivare tra i primi 50, 30, 20, diventare il giocatore russo n. 1, il n. 1 della mia generazione. Ci pensavo sempre.
Quando ho raggiunto la finale dello US Open, ero ancora forse 5 o 6 al mondo, o 4. Quando ero numero 1, era un po’ l’anno in cui non giocavo il mio miglior tennis, ma ero numero 1 perché avevo la finale delle ATP Finals, il titolo dello US Open, la finale dell’Australian Open, il Masters in Canada o qualcosa del genere…Ero riuscito a guadagnare molti punti durante tutto l’anno. Ecco perché ero il numero 1. Adesso è lo stesso, sono il numero 4, ma nella Race sono il numero 2. È un po’ più importante. Ma so che non conta per la classifica. Devo vincere a Roma se voglio avvicinarmi al numero 1 del mondo. Se voglio guadagnare punti devo giocare bene al Roland Garros e non perdere al primo turno. Per me la classifica è secondaria. Al primo posto in questo momento metto i risultati“.
Ma quando a parlare è uno come l’orso russo c’è sempre spazio anche per una risata. E, collegandosi a quanto accaduto ieri sera a Djokovic, arriva un racconto molto simpatico su un “incidente” simile avuto qualche anno fa: “Una volta in qualificazioni a Wimbledon ho perso contro Marcus Willis. Il giorno prima era un giorno libero. Ad Aorangi Park per entrare c’era come una gabbia nella quale bisogna salire solo un po’, con una sorta di spigolo in alto, e non guardando attentamente l’ho colpito. A volte sbatti la testa, soprattutto quando sei alto. Ma guardai il mio braccio, ed era pieno di sangue. Poi ho perso la partita il giorno successivo, ma sentivo come se avessi giocato bene. È una storia che nessuno conosceva, ma che ricordo bene“. Come chiunque ascolti le tue parole le ricorda ancora meglio, caro Daniil.