Casper Ruud vince il Masters 1000 di Madrid, la sua prima volta, il suo titolo più importante. Battuto Jack Draper in finale, con l’intelligenza più che con la potenza, con la pazienza più che con la fretta. È la vittoria di un ragazzo norvegese che ha saputo portare sul campo da tennis qualcosa che da quelle parti si vede spesso: la compostezza, quella vera, non la freddezza di cartapesta, e una forza d’animo silenziosa, ma continua. Come le onde nei fiordi.
Ruud non ha mai avuto il braccio più veloce del circuito, e nemmeno il rovescio più scintillante. Ma ha avuto, e ha tuttora, il cuore per restare lì, quando serve. Sulla terra rossa, poi, il suo tennis si allunga, si distende. Sembra respirare meglio. Gli altri arrancano, lui no. Ha fatto tre finali Slam, due di queste al Roland Garros, ha vinto a Barcellona, ha sempre giocato bene dove si scivola e si fatica. Madrid non fa eccezione. Semmai, è il coronamento di un percorso lineare e pulito, senza scorciatoie.
Contro Draper, inglese dai muscoli e dal servizio pesante, Ruud ha fatto quello che sa fare meglio: aspettare, trovare il momento, non inseguire la gloria ma costruirla un punto alla volta. Non si è mai disunito, neanche nei momenti di difficoltà, quando sembrava aver smarrito il suo tennis e con esso il suo posto tra i grandi. È uscito dalla top 10 senza fare drammi. Non ha cercato colpevoli, ha cercato soluzioni. Si è affidato anche a uno psicologo, per rimettere ordine dentro prima che fuori. E lentamente, punto su punto, settimana dopo settimana, è tornato a essere se stesso.
Domani rientrerà in top 10. Ma è più di una classifica: è un riconoscimento alla coerenza, alla serietà, al lavoro. C’è qualcosa di educativo nella sua vittoria, di rassicurante. Non tutto deve essere rumoroso per lasciare il segno. La sua è una lezione di misura, di costanza, di fatica silenziosa. Ruud non alza mai la voce, ma si fa ascoltare, non cerca la copertina, ma finisce col meritarsela. È autentico, anche quando fatica, anche quando trionfa.