C’è qualcosa di simbolico nel vedere due ragazzi italiani, coetanei e amici sinceri, esordire a Flushing Meadows nello stesso giorno e in maniera così diversa. New York, città che amplifica tutto, ha raccontato due storie parallele ma opposte: da un lato Luciano Darderi, vittorioso con autorità contro Rinky Hijikata (6-2 6-1 6-2), dall’altro Luca Nardi, travolto da Tomas Machac (6-3 6-1 6-1) in un match senza appello. A giugno li avevamo visti scherzare su un campo d’erba, complici e spensierati: due giovani che giocano a tennis da professionisti. A distanza di pochi mesi, sul cemento di New York, i loro percorsi hanno preso direzioni opposte. Nel frattempo, però, è passata una stagione intera: sull’erba, prima, e sulla terra europea, poi. Darderi ha firmato il suo miglior Wimbledon, spingendosi fino al terzo turno, per poi vivere l’apice estivo con i due successi consecutivi di Bastad e Umago, suggello di una crescita ormai costante anche fuori dalla terra battuta. Nardi, invece, ha raccolto meno: un esordio amaro a Wimbledon, subito stoppato da Sinner, seguito però dagli ottavi a Cincinnati, dove da Lucky Loser ha sorpreso Shapovalov e un Mensik non particolarmente in forma, prima di cedere ad Alcaraz, con un primo set giocato alla pari, tra lampi di talento e rimpianti.
Sembrava poter esser per Nardi un momento di fiducia e forma da sfruttare per lo Us Open, invece è arrivata una porta in faccia dalla forma di un ragazzo ceco, non particolarmente talentuoso, ma coriaceo.
Flushing Meadows, si sa, è un luogo che non fa sconti: luci abbaglianti, rumore costante, pubblico che cambia umore in un attimo, facilmente aizzabile e particolarmente influente. A queste latitudini non basta solo il talento, serve carattere, serve la voglia di stare dentro la battaglia anche quando tutto gira storto. E mentre Luciano ha dimostrato di saper reggere quel clima, Luca è sembrato più in difficoltà di quanto anche la sua stessa racchetta potrebbe raccontare.
Il nuovo volto di Darderi
Se facessimo un test e, per assurdo, proponessimo ad un medio intenditore di tennis, i filmati di Darderi di un paio di anni fa, confrontato con il giocatore di adesso, forse faticherebbe a riconoscerlo. Allora era il classico giocatore da challenger, legato alla terra battuta, con un servizio che raramente faceva male e un rovescio che spesso era un punto debole. Lo vedevi entrare in campo sapendo che avrebbe faticato appena il livello si alzava, ma consapevoli del fatto che sarebbe stato lì a lottare punto dopo punto. Un buon giocatore, uno di quelli che si riflette in una superficie e su quella si esprime al meglio. E invece eccolo oggi, trasformato. Non in un giorno, non in un’estate di colpi fortunati, ma grazie a un lavoro quotidiano che lo ha reso più completo. Il servizio, oggi, è un’arma affidabile: non esplosivo, ma solido, capace di togliergli pressione nei momenti delicati. Il rovescio è stato corretto, ora tiene lo scambio e talvolta sorprende in lungolinea. Soprattutto è cambiato l’atteggiamento: non più attesa passiva, ma la voglia di comandare i punti, di spostarsi, di aggredire su tutte le superfici, affrancandosi da quello stantio modo di vedere certi giocatori esclusivamente legati al mattone rosso, croce e delizia.
La vittoria contro Hijikata (che, ad onor di cronaca, non stava benissimo) non passerà alla storia, ma racconta bene il percorso: 6-2 6-1 6-2, un punteggio netto, quasi impietoso, costruito con pazienza e convinzione. Non c’è stato bisogno di giocare il match della vita: è bastato il suo tennis ordinato, migliorato, con pochi fronzoli ma molta sostanza. È il segno che un ragazzo di ventidue anni può cambiare pelle, se decide di lavorare con serietà.
La notte di Nardi e il bivio dei 22 anni
Luca Nardi invece ha vissuto l’altra faccia della medaglia. La sua sconfitta contro Tomas Machac (6-3 6-1 6-1) non è stata solo pesante nel punteggio, ma anche nel modo. Quello che stupisce e, permetteteci, fa arrabbiare chi ne riconosce il talento, è il non riuscire a vedere un minimo di ribellione, nessun lampo di orgoglio, che un giocatore di questa età dovrebbe avere, con la spavalda consapevolezza di voler e poter mangiarsi il mondo, spaccarlo in quattro. Il parziale di 16 giochi a 3 pesa come una sentenza: non tanto per il valore dell’avversario – Machac è solido, ma non un fenomeno – quanto per l’atteggiamento con cui Nardi ha affrontato il match.
Eppure, paradossalmente, Nardi è l’unico tra i due ad aver vissuto già un lampo che può cambiare una carriera: la vittoria su Novak Djokovic a Indian Wells. Un’impresa che pochi possono vantare, ancora meno a ventun anni. Quella sera sembrava l’inizio di una nuova storia, il momento in cui un ragazzo marchigiano entrava nella geografia del tennis mondiale.
Ma dopo quel lampo, nessuna continuità, nessuna crescita evidente. Quella vittoria rischia di restare una parentesi, un episodio isolato che ti illude più di quanto ti rafforzi. Perché se non la trasformi in base quotidiana, diventa un peso: ti ricorda cosa sei stato per un giorno e cosa non sei negli altri. E invece è basandosi anche su questo che deve costruire un cammino che può portarlo più in alto, dandogli continuità, crescita, colpi e fiducia.
Se il match è stato deludente, le parole di Nardi lo sono state ancora di più: “Sono numero 80. Nessuno ha la sfera magica, quindi non si sa se arriverò in alto“, ha detto, quasi a voler ridimensionare la botta. Con l’aggiunta di un raffreddore come giustificazione. Frasi che suonano se non come una resa, come il considerare il fatto di essere entrati tra i primi cento per sentirsi al sicuro. È qui che il confronto con Darderi diventa impietoso. Luciano non ha mai avuto un giorno da copertina, eppure lavora come se ogni torneo fosse la sua occasione, fino a vincerli. Non si accontenta, non cerca attenuanti. Nardi invece ha avuto il giorno perfetto, ma non ha saputo farne tesoro. E la differenza, alla lunga, non la fanno i lampi isolati, ma la fame quotidiana.
A ventidue anni hai davanti due strade: crescere, lavorare, accettare di fare fatica, oppure illuderti che basti il talento e accontentarti di quello che hai. È un bivio che molti giocatori hanno vissuto: c’è chi lo ha imboccato nel modo giusto (pensa a un Alcaraz, che ha trasformato ogni vittoria in un gradino per salire ancora più su) e chi invece si è perso nei meandri di una carriera mai sbocciata. Nardi oggi sembra in bilico. Può ancora cambiare, può ancora accendere quel fuoco che non basta accendere una volta sola. Ma serve una scossa, serve la capacità di guardarsi allo specchio e chiedersi se vuole davvero fare il tennista di professione o se gli basta essere “quello che ha battuto Djokovic una volta”.
Due amici, due destini
L’amicizia tra Nardi e Darderi è reale, ma le loro carriere non viaggiano parallele. Luciano ha il fisico da toro e la mentalità del lavoratore instancabile. Luca ha il talento naturale, la mano delicata, la vittoria da prima pagina; oggi il futuro sembra sorridere di più al primo, perché il tennis non è una favola da raccontare in un giorno: è una storia lunga, fatta di centinaia di partite, di viaggi, di allenamenti, di ore in campo quando nessuno ti guarda.
New York, con la sua spietata capacità di amplificare tutto, lo ha raccontato in una settimana: uno costruisce, l’altro spreca. Uno sogna, l’altro si accontenta. E forse la vera differenza, adesso, sta tutta lì: nel capire che la vittoria di Indian Wells non era un punto d’arrivo, ma un’occasione mancata.
Luca Nardi però ha ancora un grande alleato dalla sua parte: il tempo. Non va sprecato, è chiaro, ma adesso va ottimizzato per cambiare marcia, per far risplendere quel talento argenteo, offuscato dall’ossido dell’abitudine che diventa appiattimento. Chi si accontenta, in questi casi, non gode. Continua a farlo invece Luciano che, dopo i trionfi di Marrakesh, Bastad e Umago vuole continuare a sorprendersi, magari regalandosi qualche gioia anche su una superficie che sembrava avversa e che invece sta imparando a conoscere e ad amare. New York è il luogo per antonomasia dove tutto è possibile, una città che ti esalta, ma allo stesso tempo può schiacciarti, che ti rende invincibile o piccolo, piccolissimo. Bisogna capire da che parte stare, con gli occhi aperti e rivolti al futuro nella consapevolezza della città che non dorme mai.