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11/10/2011 22:25 CEST - APPROFONDIMENTI

Slam del Dragone? No grazie

TENNIS - La Cina può aspirare ad ospitare il quinto torneo dello Slam? Per il momento, nonostante le risorse finanziarie e gli impianti a disposizione, pare di no. Come suggerisce Brad Drewett, gli Slam hanno storia e tradizione che altri tornei non possono vantare. A Pechino, intanto, continuano a investire e ad allargarsi. E l'altro gigante asiatico, l'India, potrebbe avere un torneo in più. Nicola Gennai

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Lo Slam del Dragone. Se mai dovesse esistere, un Major giocato in Cina potrebbe certamente essere soprannominato in questo modo. “Nadal/Federer/Djokovic/Murray (a vostra scelta) vola sulle ali del Dragone”, uno dei titoli che leggeremmo sicuramente. Per scegliere da chi far consegnare il trofeo del vincitore, oltretutto, i cinesi non dovrebbero neanche sforzarsi troppo, disponendo già di un candidato naturale: il nostro premier, anche detto “il Drago” cui si offrivano le vergini nelle cene eleganti di Arcore. Insomma, nella Repubblica Popolare avrebbero davvero tutto per organizzare un quinto torneo dello Slam, impianto compreso, quello di Pechino, dove la scorsa settimana si è appena concluso il combined Atp-Wta. Solo che, al momento (e forse per sempre, viste le ragioni addotte), il quinto Slam non s’ha da fare. Il ceo dell’Atp, Brad Drewett, tra gli aspiranti successori di Adam Helfant a fine 2011, in un’intervista rilasciata all’australiano “The Age”, ha infatti fatto capire che, per aspirare allo status spettante ai magnifici quattro (Melbourne, Parigi, Wimbledon, New York), non bastano soldi a palate e impianti ultratecnologici. Serve altro. Serve storia. Serve tradizione. “I tornei dello Slam – queste le parole di Drewett – hanno qualcosa che non si può rimpiazzare, e cioè una grande storia e una grande tradizione, maturata nel corso degli ultimi 50-100 anni”. Certo, per non irritare oltremodo gli ambiziosissimi (e di conseguenza permalosi e suscettibili, nonché pieni di renminbi) cinesi, il ceo ha speso parole al miele per il faraonico torneo della capitale: “I quattro tornei dello Slam sono una categoria a sé stante, ma competizioni del genere possono diventare eventi estremamente importanti, solo per il fatto di avere a disposizione delle strutture e degli impianti di livello mondiale, insieme al più grande mercato del mondo, composto da oltre un miliardo di persone”. Tutto ciò, ovviamente “costituisce una grande piattaforma per gli sponsor”.

Che il leader del gruppo dei “Bric” stia facendo più di un passo nel tentativo di dare sempre maggiore visibilità e magnificenza ai propri eventi tennistici, ce lo confermano proprio gli ingenti investimenti (governativi, of course) dedicati al “China Open” di Pechino. Non contenti dello splendido ed efficiente impianto principale realizzato per le Olimpiadi del 2008, il “Lotus Court”, contenente fino a 10mila anime, quest’anno è stato inaugurato un nuovo campo centrale da 15 mila posti, denominato “National Stadium Court”, per la cui costruzione sono stati spesi circa 80 milioni di dollari. Quel che è mancato, fino ad oggi, è un pubblico adeguato alle aspettative. Sia nella capitale politica che in quella finanziaria e del vizio (Shanghai, dove si sta svolgendo il Master 1000 maschile), nel 2011 come negli anni precedenti, raramente si sono visti stadi pieni, salvo che negli atti finali dei tornei. Inoltre, a riprova dell’assenza di storia citata da Drewett, le curiose reazioni degli spettatori ad alcune situazioni di gioco (punti prolungati con urla continue, prime ripetute dopo un let scambiate per seconde, e così via), son lì a dimostrare che non vi è ancora una vera e propria cultura tennistica all’interno del Paese. In questo senso, l’emergere di Na Li ai vertici della Wta, potrebbe aiutare ad una maggiore diffusione dello sport in racchetta e pantaloncini.

Ad ogni modo, il tema dello Slam cinese ha attraversato l’aria intrisa di anidride carbonica di Pechino, coi giornalisti locali intenti a chiedere ai giocatori la loro opinione sulla grandezza del loro torneo paragonata a uno Slam. Ivan Ljubicic, dopo aver messo i puntini sulle “i” (“un Major è un Major, questo non lo è”), si è soffermato sulle qualità del China Open, lodandone le strutture e la presenza di molti campi. Poi, in modo abbastanza diplomatico ha lasciato intuire di vedere davvero pochi spazi per un upgrade: “Il punto è che abbiamo in calendario un numero limitato di grandi tornei, ed è difficile entrare a far parte di uno di questi. Credo che Pechino possa aspirare a qualcosa in più, un Master 1000 o qualcosa di più grande, ma è davvero difficile entrare dell’èlite dei tornei se non ne fai già parte”. La sensazione è che, comunque, il China Open punti a invertirsi con Shanghai, scambiandone il suo status di 500 con quello di 1000, visto che, anche il prize money pechinese, già altissimo quest’anno (6,7 milioni di dollari), dovrebbe crescere ulteriormente nel 2012 (parola di Charles Hsuing, condirettore del torneo).

Se il Dragone sputa renminbi e fiamme, ma pare lontano dalla consacrazione definitiva nel tempio del Dio tennis, che dire dell’altro gigante asiatico, l’Elefante indiano? Anche là, nella più grande democrazia del mondo, il capitale umano non manca. Anzi, in prospettiva futura, la popolazione indiana è destinata a salire, mentre quella cinese a scendere. Oltretutto, vista la prolungata dominazione della Corona inglese, dalle parti di New Dehli il tennis è uno sport con più storia, tradizione e cultura rispetto all’ingombrante vicino. A questo proposito, sempre per il ceo Atp Brad Drewett, “l’India costituisce un enorme mercato e può aspirare ad ospitare due tornei” (ad oggi vi si svolge solo Chennai). Tra le indiziate Bangalore e Mumbai.
L’impero di Cindia arriverà a dominare anche il tennis?

Nicola Gennai

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