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24/12/2011 02:23 CEST - CIRCUITO ATP

Roger, perché proprio noi?

TENNIS - Roddick e Davydenko sono state le "vittime" preferite di Federer, tanto che hanno vinto solo due volte a testa in 40 incontri complessivi e mai in uno Slam. Le carriere dei due giocatori sono segnate quindi da un grosso, insolvibile, punto di domanda: quanti trofei avrebbero vinto senza lo svizzero? Di certo sono stati molto più forti di quanto dicano i loro detrattori. Riccardo Nuziale

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Non dev’essere una bella sensazione sentire il peso di essere eroi tragici senza volerlo. In particolare ad Andy Roddick e Nikolay Davydenko mi piacerebbe chiedere una cosa (e la risposta dell’americano mi piacerebbe sicuramente, sebbene probabilmente colma di sarcastico disappunto): ovvero cos’hanno provato a vedere il primo Berdych e Tsonga battere Federer a Wimbledon dopo che lui ci ha provato per più di 4 ore, cedendo solo al trentesimo game del quinto set, il secondo a vedere Soderling compiere l’impresa, quella d’interrompere la striscia di semifinali Slam consecutive dello svizzero, che pochi mesi prima sembrava destinata a lui.

Due destini, quelli dell’americano e del russo, uniti da un nome in comune, Roger Federer, che in 40 partite ufficiali hanno battuto solo quattro volte. Due carriere (e due considerazioni) che sarebbero state di tutt’altro livello senza il fuoriclasse degli anni duemila.
Due destini…

Il dramma di Pandy il lavandino contro la vasca RF

A fine 2007, durante un’esibizione, Roddick diede spettacolo sfornando un’imitazione dietro l’altra di colleghi e colleghe (Nadal, Sharapova, Serena, McEnroe, Agassi, ecc.). Ad un certo punto uno spettatore gli urlò chiedendo di fare Roger e la sua risposta fu lapidaria: “lo odio!”. Risposta secca e sarcastica in pieno stile Roddick, certo (difatti tutti si misero a ridere), ma detta con una tale prontezza e spontaneità da far trasparire qualcosa di autentico. Non l’odio, chiaro, ma comunque un risentimento, la netta, plausibilissima sensazione che se non ci fosse stato sempre quell’”adorabile carnefice” di uno svizzero tra i piedi, la sua carriera sarebbe stata ben diversa.

Perché forse ancor più del 2-21 complessivo negli scontri diretti, a “uccidere” A-Rod è stato lo 0-8 negli Slam: quattro sconfitte a Wimbledon (tre finali e una semifinale), due in Australia (entrambe semifinali), due a New York (una finale e un quarto). Il gioco del se è diabolico perché può potenzialmente protrarsi all’infinito quindi non iniziamo neppure, però – ed è un discorso già fatto innumerevoli volte durante questi anni – quanti major avrebbe ora in bacheca Pandy se un paio di volte avesse battuto la sua nemesi e se altre tre-quattro, anziché trovare lui in finale o in semi, avesse affrontato qualcun altro, con il buon Roger fuori dai giochi? Non lo sapremo mai.

Quello che si sa è che Roddick è stato – ahilui – una delle pedine più importanti per Federer per dimostrare la sua grandezza. Molti tuttora, complice l’attuale calo di rendimento tanto palese quanto eclatante (quel dritto mozzarella, quella prima che morde come un leone con la carie), fraintendono questo ruolo con una supposta scarsezza del giocatore: nulla di più falso.

Vincere 30 tornei tra cui uno Slam, rimanere nella top 10 per otto anni consecutivi (dal 2002 al 2010), battere tutti i top player almeno una volta essendo un giocatore scarso…beh, la conclusione la lascio a voi.

La verità è che Roddick per anni è stato tra i primissimi (spesso il secondo) interpreti del tennis su veloce, ha saputo superare momenti di difficoltà cercando sempre di migliorarsi e colmare le proprie innegabili lacune tecniche e tattiche e, non va dimenticato, negli Slam con Federer ha spesso perso facendo penare il fuoriclasse elvetico (in particolare i periodi fine 2006-inizio 2007 e biennio 2008-2009 diedero l’idea che qualcosa stesse per cambiare), partite in cui il risultato finale poteva essere diverso e che invece hanno consolidato il mito di Federer e l’etichetta del Roddick mediocre perdente.

“Roger ha giocato troppo bene oggi. Ho provato a batterlo tirandogli un lavandino e mi è tornata indietro una vasca da bagno.”

Quella maledetta rivalità ("penso debba vincere qualche volta anch'io perché si possa chiamare tale"), cominciata con la prima vasca in omaggio

Kolya Faust e il prezzo del patto col demonio

Provocazione (ma lo è davvero?): se si eccettua il “cattivo” del presente articolo, negli ultimi 5-6 anni nessuno, tra i giocatori che hanno mantenuto una posizione alta in classifica per diverso tempo, mi ha entusiasmato a livello di gioco quanto Nikolay Davydenko.

Un gioco da fondocampo implacabile, talmente perfetto da far dimenticare quanto fosse monotono, talmente veloce da rendere impossibile qualsivoglia pensiero all’avversario, allo spettatore ma anche a Davydenko stesso. Già, perché quell’attacco sistematico, piatto, fatto di geometrie ed angoli assurdi trovati a duemila all’ora, è sempre stato allo stesso tempo l’arma micidiale e il punto debole del russo, per il semplice fatto che ha sempre avuto talmente tanta fiducia nel suo piano A che non ha mai neppure abbozzato un piano B, non ha mai tentato di costruire e aggiungere variazioni tecnico-tattiche al suo gioco (in particolare se avesse curato il gioco a rete a mio avviso avrebbe vinto davvero molto di più: gli sarebbe bastato un gioco al volo da 6 in pagella per portare a casa una miriade di punti con grande risparmio energetico e con zero rischi, anziché tentare di sfondare sempre e comunque con una serie di vincenti a tutto braccio da fondo campo).

Quindi nei giorni di scarsa vena (e sono stati tanti, purtroppo) o quando ha affrontato giocatori capaci di opporgli un gioco in grado di debellare il suo meccanismo sparapalle, ecco arrivare le sconfitte.

Ed ecco quindi Roger Federer. 2 vittorie e 15 sconfitte, 0-5 negli Slam, le prime dodici partite sono state dodici bastonate. Nel biennio 2006-2007, il suo periodo migliore, ha perso tre semifinali (due a New York, una a Parigi 2007) e un quarto Slam (Australia 2006). Un massacro. Quel suo gioco Playstation che reggeva il ritmo solo per un set-due ma poi crollava inesorabilmente sotto i colpi del maestro svizzero e, anche nei giorni no di quest’ultimo, subentrava quel complesso d’inferiorità che era venuto a crearsi nella testa di Kolya.

Un incubo. Avrebbe affrontato trenta volte Nadal (che non ha mai sofferto e contro il quale è infatti avanti negli head to head) piuttosto che trovarsi di fronte una sola volta quel moretto di Basilea che non s’irritava come tutti gli altri a giocare di controbalzo, anzi si esaltava.
E lui, giocatore che fuori dal campo era quasi omino anonimo, tanto da faticare a trovare uno sponsor decente, ad un certo punto si è stancato.

Kolya Faust e il patto col Diavolo: “fammelo battere una volta e ti darò la mia anima”. E così fu: semifinale del Master grandiosa, dove il russo prima approfittò della partenza a rilento di Federer, ne subì poi la rimonta ma, in un terzo intensissimo set, giocò alla grandissima nei momenti importanti (da sempre il suo punto debole) e vinse. 6-2 4-6 7-5, sentenziava il tabellone. Per la prima volta in vita sua si avvicinò alla rete per stringere la mano a Roger sapendo che le valigie quella sera le avrebbe dovute fare lui.

Kolya Faust non si fermò lì, vinse quel Masters in finale su Del Potro, l’omino operaio era finalmente sul tetto del mondo, tanto che pochi mesi dopo, a Doha, si concesse il lusso di rifilare un doppio 6-4 a King RF (due vittorie di fila!) in semifinale e, in finale, di rimontare un bagel e un match point a Nadal, evento che potrà raccontare i nipotini in quanto mai riuscita a nessun altro.

Ma il Diavolo, si sa, non è un ente di beneficienza…è il Diavolo. E se Kolya Faust magari stava cominciando a sperare/credere che il malefico si fosse dimenticato del patto (ricordate le sue conferenze stampa di quel periodo? Improvvisamente cominciò ad alzare la cresta, a chiedere maggiore rispetto, a dire “ora gli avversari mi temono”), ecco che questi gli presentò il salatissimo conto.

Australian Open 2010: al momento del sorteggio tutti si chiedevano dove sarebbe finito Davydenko, autentica mina vagante del torneo. Finì nel quarto di Federer. Ci si cominciò a chiedere se il record delle semifinali Slam consecutive dell’allora numero 1 fosse arrivato al suo capitolo conclusivo.

Nonostante un ottavo decisamente troppo sofferto contro Verdasco, l’imbattibile Kolya Faust si presentò ai quarti, pronto a lanciare la sfida alla sua eterna bestia nera, a demolirne il regno.
E per un set e mezzo ci riuscì, giocando un tennis criminale: un 6-2 3-1 fatto di accelerazioni, angoli e risposte impossibili. Forse mai nessuno ha messo in difficoltà Federer come quella volta opponendogli un tennis tanto brillante e offensivo.

Ma il Diavolo…ah, il Diavolo. Nel quinto gioco di quel secondo set il russo ebbe quattro possibilità di portarsi avanti di due break, ma non ne sfruttò nessuna. E in quel momento la magia del patto finì e la testa di Davydenko tornò a riempirsi dei complessi d’inferiorità che sempre l’hanno afflitto: era tornato lo sfigatino nerd di fronte al capitano della squadra di football.

Davydenko ci mise dodici game a svegliarsi dall’incubo: una striscia di tredici giochi di fila a favore di Federer ed ecco che la partita della gloria definitiva divenne per il russo mortificante supplizio, 2-6 6-3 6-0 2-0. Certo, ci fu la reazione, l’annullamento di match point sparando accelerazioni “da primo set e mezzo”, riuscì quasi a far rigirare nuovamente la partita, sul 5-5 0-40 servizio Federer, ma in realtà non erano altro che riflessi condizionati di un match già privo di vita.

Al Davydenko persona auguriamo di vivere 100 e passa anni, ma il Davydenko tennista è morto quel 27 gennaio 2010.

Aldilà degli infortuni, a portare il russo allo stato attuale (numero 41 del mondo, ha chiuso l’anno perdendo in due set a Bercy con Seppi) fu quella sconfitta, la consapevolezza che certi ostacoli l’omino dal tennis Playstation non riuscirà mai a superare.
Vederlo ora mette profonda tristezza, i suoi risultati 2011 sono imbarazzanti per il suo nome, se si eccettuano la finale persa a Doha con – che strano! – Federer e il titolo vinto sulla terra di Monaco.

Come successe a Nietzsche, la mente del tennista Davydenko sembra essere giunta a un punto di non ritorno: laddove prima c’era ordine e perfezione, ora vige l’anarchia e il disordine. Di tanto in tanto si vedono ancora sporadici colpi del Davydenko che fu, ma una partita intera ad alto livello gli è ormai preclusa.

Il suo cavallo Kolya lo ha abbracciato quasi due anni fa a Melbourne.

Riccardo Nuziale

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